GIALLO ITALIAN THRILLING 2000 – 2014 – PARTE 2

Riprendo quanto scritto nelle conclusioni del precedente articolo.

“Il giallo thrilling degli anni Settanta, tranne pochissime eccezioni (in particolare i film di Sergio Martino), sembrava calato in un universo parallelo. La densità degli anni Settanta, la strategia della tensione, gli anni di piombo, il clima densissimo di quella stagione non è stato fotografato dal nostro cinema di genere.

Il cinema thrilling dei Settanta ci restituisce il decennio attraverso gli utensili, le macchine, i corpi, i vestiti. Tuttavia i personaggi si muovono in un mondo in cui, a parte qualche maniaco nero vestito e qualche corruttore da fumetto nero, non si ravvisa alcun indizio di quel che realmente avveniva (stragi, colpi di stato mancati, cortei, scontri, compromessi storici, referendum, eclissi di una cultura di sinistra e avvento di un riflusso catodico all’insegna del “campioni del mondo, campioni del mondo!”). A mio avviso si tratta di una mancanza poiché, pur essendo il thriller un genere più psicologico, la maggior caratterizzazione del contesto aiuta la vicenda, rendendola più verosimile e quindi spaventosa.

Dico questo perché il thrilling italiano di questi ultimi tredici anni è stato maggiormente capace di calarsi dentro il suo tempo e, in questo, leggo il suo tratto specifico. Film come La donna del delitto raccontano molto bene un mondo del lusso non ancora scalfito dai tracolli di borsa di là da venire, così come La notte del mio primo amore immerge nelle lande del giallo i ragazzini di oggi, diciassettenni usciti fuori da Moccia e intossicati di tecnologia Apple e gettati tra le braccia di un maniaco malato che li costringe a confrontarsi con la morte improvvisa e regressiva.

E ancora Cattive inclinazioni, thriller attento alle derive televisive di certe trasmissioni, ossessionate dalla cronaca nera. O il Torturer di Bava che macella il vuoto pneumatico di certe aspiranti starlet disposte a tutto pur di accedere alla celebrità televisiva, teatrale o di dagospia.

Il confine estremo è il bellissimo Tulpa di Zampaglione che ci ripropone dieci anni dopo il mondo raccontato da Corrado Colombo, solo che ora tutto è plumbeo. Anche ai piani alti, nei consigli di amministrazione, possono cadere delle teste. I personaggi sono frustrati e cercano nel sesso un calmiere che, in realtà, acutizza l’insoddisfazione personale e li spinge all’autodistruzione. Il thriller è una perfetta piattaforma per raccontare lo sviluppo sociale antidemocratico del mondo nel quale viviamo, un mondo di cui, più che la mancanza di lavoro, colpisce la condizione da terzo mondo del lavoro in casa nostra.

La politica ha abrogato il suo ruolo all’astrattismo dell’economia finanziaria, cedendo a ogni sua richiesta: in primis il costo del lavoro bassissimo, stage prolungati a oltranza, smantellamento delle tutele più elementari, incremento del precariato, smantellamento del sistema pensionistico. La mancanza di queste garanzie produce una società sfacciata e arrogante in cui pochissimi si possono permettere tutto e milioni di persone si adattano a guadagnare uno stipendio insufficiente per sopravvivere. Stronzatine tecnologiche come Facebook aiutano i derelitti nel credersi al centro di una rete di relazioni fittizie e superficiali, completamente inadeguate ai bisogni autentici di affermazione di un individuo. Credo che la letteratura contemporanea (e il cinema) abbia il compito di mostrarci quello che abbiamo sotto gli occhi”.

In quell’articolo avevo trattato solo i film che mi parevano maggiormente pertinenti, secondo gusti personali e sindacabilissimi.

Volendo, sganciandoci da una lettura contingente del reale, potremmo ora aggiungere qualche altro titolo.

Cominciamo con Come una crisalide di Luigi Pastore, scritto e interpretato dal critico Antonio Tentori. Secondo chi scrive si tratta di un film mancato, troppo ancorato in una visione citazionistica (in particolare i thrilling anni ’80 con pesanti scopiazzature da Thomas Harris/Michael Mann e il solito Argento) che nulla aggiunge. La pellicola riempie il suo soggettino con una violenza grafica esasperata, che, alla lunga, fiacca la visione. Nonostante questo, il film di Pastore centra i momenti migliori nei numerosi squarci onirici che straniano il racconto, trasportandolo su un piano di libere associazioni; peccato non si sia insistito in questa direzione, aiutati anche da una poderosa colonna sonora. Altra scheggia interessante (e minimale) è l’epilogo, col killer solo lungo il litorale, in attesa dell’arrivo della polizia (arrivo suggerito esclusivamente dai rumori fuori campo).

Maggiormente riuscito è Il nascondiglio, pellicola nera di Pupi Avati, autore dal doppio binario, soft noioso e horror padano. Contrariamente all’accoglienza riservata al film, si tratta di un’opera riuscita e interessante, girata in un’America non lontana da quella raccontata da Fulci in Quella villa accanto al cimitero. La storia funziona e così il cast, su tutti una brava Laura Morante. La regia e la parte tecnica fanno il loro doveroso lavoro senza strafare e cedere ai tic contemporanei del 3D. Pur essendo un lavoro fuori dal tempo, slegato dal decennio in cui è stato prodotto (il film è del 2008), Il nascondiglio ha il pregio di essere una novella nera godibilissima, tra le migliori del decennio.

Tra le ultime pellicole di Dario Argento, trovo che Giallo (2008) sia la meno disastrosa e più interessante.

L’ambientazione è una Torino notturna noir dai colori pastosi di Frederic Fasano. Adrien Brody contribuisce a caratterizzare un personaggio altrimenti assente, arrivando a delineare un commissario tabagista tra i più interessanti e simpatici del regista romano.

La sceneggiatura ha il pregio di non essere scritta dal regista e si risolve su un canovaccio banalissimo, da manuale, coi traumi del passato che equilibrano il detective e l’omicida, un freak con l’ittero sporco e cattivo. Superflua la figura di Emmanuelle Seigner, la cui bellezza appare ancora abbacinante.

Nonostante la prevedibilità del tutto, Giallo è un film ben girato e ben interpretato, che scorre veloce e diverte, superando i limiti televisivi della verosimiglianza (Brody è un detective italo/americano che ha un ufficio/casa nei sotterranei della Questura e dedica il suo tempo lavorativo su un solo caso, autogestendosi come cazzo gli pare!).

Nero infinito (2013) di Giorgio Bruno.

Chiunque sia, Bruno è un regista dreyeriano, nel senso che oltre a un primo piano fatto male non riesce ad andare. La storia presenta l’usuale sintassi del caso: tavolaccio con strumenti insanguinati da torture porn, coppiette ammazzate mentre scopano, due detective superflui (uno dei due è una Francesca Rettondini rediviva e ammaccata, qui al suo – ognuno ha il proprio – film della vita), telecamerine che fanno tanto cyber thrilling e una carrellata di redivivi a impreziosire il nulla dell’operazione. L’attore che interpreta il maniaco meriterebbe la radiazione dall’ordine degli attori, non scherzo. Che altro dire? Enzo Castellari è il capo della mobile e se ne sta dietro la scrivania  a coordinare il lavoro dei due poliziotti; alle sue spalle, la foto di Napolitano a ricordarci che siamo dentro un thrilling 2.0; per il resto la città/provincia è anonima e senza tempo. Tuttavia quella foto colloca l’operato della mobile di Castellari dentro una terza repubblica delocalizzata, con un Renzie pronto a infinocchiare Capitan Findus e proporre una sfilza di volti nuovi (senza però dire che son tutti figli di pezzi grossi e non certo di qualche minatore, perché per conquistare un ruolo, un seggio politico servono soldi, conoscenze e sostegno mediatico, altro che buona volontà!). E’ quasi l’ora della personalizzazione della leadership, dei non-partiti leggeri, delle cariche monocratiche. E’ la nuova Italia che cambia non cambiando, come il film.

Paura 3D (2011) dei Manetti.

La prima volta, complici delle critiche superlative, l’avevo sottovalutato. Rivisto l’ho trovato un buon film; ecco, un film, forse è tutto lì. Dove i lavori di Pastore, Albanesi & Company sono semi-amatoriali, i Manetti, con mestiere, riescono a confezionare un prodotto da esportazione sul genere del torture porn. La trama è inesistente. Certo potrei dirvi che Servillo (attore di caratura) è un orco che eredita il meraviglioso secentesco dei contes de fées, un Orco vorace e mostruoso dalle ascendenze oltretombali (nel senso del pornofumetto di Barbieri). E della fiaba metropolitana, dell’iperbole monotonamente ripetuta sa il film, fin dalle prime immagini fissate sulle borgate romane pre-Salvini; ignoti condomini palcoscenici per una nuova destra da perenni emergenze rom, profughi, immigrati; il rap sottolinea l’impossibilità di fuggire da quel mondo di povertà pre-mediatica. I tre incolti protagonisti presentano i segni tipici della regressione fonetica di tanta adolescenza cresciuta a pane e Facebook; il resto è un CasaPound forever e la mitologia di una società del benessere di cui non si conosce l’indirizzo. I tre trogloditi la cercano all’indirizzo sbagliato, quello dell’Orco, doppio negativo del fantasma paterno. Potrei dirvi tutto questo, ma è un mio bla bla bla per dire qualcosa e riempire le pagine; infatti il film è rozzo e ignorante, anche se – l’ho detto no? – condotto con mestiere. E poi, lo ammetto, è la Cuttica il film, con quella sua fighina rasata e increspata, i piedini sporchi e la rasatura del pelo fatta dall’Orco. Mezz’ora di meno sulla durata e sarebbe stato meglio.

Il notturno di Chopin, film caldo caldo, appena uscito per la collana dvd della Cinekult. Regia di Aldo Lado, coi ragazzi della rivista Nocturno a dare una mano. Vedendo i ricchi speciali che accompagnano l’opera, è facile farsi un’idea. Anzitutto dico che è un gran bel film: certo, un’opera semplice, interamente incentrata su una deliziosa bimba (Sofia Vercellin) rinchiusa in una prigione color fegato, budello organico che secerne gli incubi infantili delle bambine rapite. Tutto è su di lei, su Sofia, sulle sue paure, sulle sue angosce, sulle sue invenzioni per resistere allo scorrere inesorabile del tempo. Da qualche parte, al piano di sopra, il maniaco suona il notturno di Chopin senza mai riuscirci, simbolo, forse, del suo essere (stato) una vittima con spaventosi problemi nella sfera sessuale e affettiva. Ma il maniaco è solo una presenza inquietante (e attuale). L’opera scandaglia, con la semplicità di una fiaba, la fragilità di una minore, sottratta alla custodia di una madre distratta in un giardino pubblico affollato, in mezzo a una società distratta. L’idea di collocare il tutto in un non luogo a metà tra la natura (nebbia, tramonti, acqua che scorre, scorci di palazzi, centrali illuminate come alberi di Natale, stormi,

spicchi di luna) e l’anonimato di una grande città di provincia, si rivela simbolicamente fortissima. L’orco de Il notturno di Chopin è un anonimo passante, un volto che si confonde e scava la sua tana dentro insospettabili palazzine fatiscenti, in bilico tra la regressione industriale e la sospensione vegetale. Il finale, senza svelare nulla, è poi lirico e straziante, capace di riportare la visione entro i confini di una cornice di denuncia sociale assai precisa. Film splendido. Grande Lado! Grande Nocturno!

Alessandro Perrella è una figura interessante del nostro cinema di genere. Da attore, montatore, regista di porno e infine regista di due horror/thriller negli anni 0. Il primo, Hell’s Fever, è un thrilling interessante, molto all’americana, quindi slasher. Set innevati e claustrofobici, una vecchia miniera e baracche abbandonate. Il meccanismo è semplice e gli interpreti di basso livello; nonostante ciò Hell’s Fever è divertente e accattivante, una sorta di trash Troma all’italiana. E’ un primo tentativo in vista del lavoro successivo, Sinner, del 2010, con Robert Englund e ambientazioni a Spoleto. Sinner è un film più ispirato, serio e ricco di atmosfera (la sottotrama della Madonna calva fa gotico), con interpreti all’altezza del dettato e un regista al massimo della forma. Perrella opera una sorta di sintesi del thrilling provinciale alla Avati mescolato con le derive splatter più estreme, ottenendo un risultato tra i migliori del decennio.

Chiudo con Imago Mortis (2008) di Stefano Bessoni, regista di solida cultura e svariati interessi.

Imago è un thrilling ricco di spunti, anche gotici, girato con gusto e atmosfera e interpretato con intensità. L’originalità della trama (una nuova scienza la Thanatografia) e la cura scenografica aumentano l’impressione di trovarci di fronte a una pellicola importante, di caratura, forse non capita e troppo presto dimenticata. Una pellicola che ci fa sperare che sia ancora possibile raccontare qualcosa senza copiare qualche modello pre-esistente e provare ad aprire nuove strade. Insieme a Tulpa, Occhi di Cristallo, Il nascondiglio e Sinner, il film thrilling più riuscito di questi ultimi quindici anni. Da riscoprire!

Vorrei anche parlarvi di Sonno Profondo, un nuovo thrilling italiano distribuito in dvd sul circuito americano; tuttavia la mia copia sta sorvolando l’Oceano e non so se mi arriverà prima di Natale, quindi rimando il tutto a una eventuale terza parte di questa disamina contemporanea sul thrilling.

A presto.

Davide Rosso