DE SADE FRA LEGGENDA E STORIA

“I regimi che fanno ciò che approvava il marchese de Sade,

non approvano il marchese de Sade.”

(S. Whitechapel)

Donatien-Alphonse-François de Sade ha infamato per sempre il proprio nome lasciandolo a una delle perversioni più crudeli che si conoscano, per l’appunto il sadismo, ovvero la soddisfazione sessuale a cui si giunge esclusivamente attraverso il dolore inflitto ad altri. In realtà, assai prima di lui ci furono fior di personaggi storici molto più disumani in fatto di pratiche erotiche: non si vede, per fare soltanto due esempi, come mai non esista il “raismo”, derivato da Gilles de Rais, il nobile pedofilo assassino che intorno al ‘400 uccise almeno 140 bambini e adolescenti, o il “bathorismo”, sulla scorta della contessa Báthory che per i suoi bagni di sangue, si prendano le nostre parole alla lettera, ebbe sulla coscienza fra le 100 e le 300 vittime fra ‘500 e ‘600.

E invece no, occorre aspettare la fine del ‘700 per trovare una parola che coniughi crudeltà e sesso evitando accuratamente il rispetto, come scrisse Moravia. Anche mettendo da parte l’epoca in cui de Sade visse, quella della Rivoluzione Francese e quindi al momento di una nascente sensibilità antiaristocratica che tendeva a porre sullo stesso piano davanti alla legge tutti i cittadini (parola che nasce con la Rivoluzione), il fatto è che il Divin Marchese, oltre alle azioni criminose di cui parleremo più avanti, lasciò soprattutto una monumentale opera scritta nella quale non solo descrisse ogni sorta di atrocità ben al di là di quelle effettivamente realizzate e bestemmiò Dio in ogni modo possibile facendo professione di aperto ateismo, ma soprattutto diede a tutto questo, con una razionalità impressionante, delle profonde motivazioni filosofiche che non si lasciano smontare tanto facilmente.

Facciamo subito un esempio estremo per dare un’idea del suo livello di riflessione. Nello schierarsi a favore dell’omicidio, egli afferma in sostanza che dal punto di vista della natura esso non è un delitto, in quanto è la natura stessa a basarsi su un incessante movimento di produzione e distruzione degli esseri, che non fa distinzione fra creature grandi e piccole, fra uomini e animali. Anzi, se queste non morissero, nessun nuovo essere potrebbe venire creato. Leopardi stesso avrebbe sottoscritto questa idea, anche se non si sarebbe certamente spinto fino a dire che “bisogna […] ammettere l’impossibilità in cui siamo di annientare le opere della natura, posto che la sola cosa che noi facciamo, abbandonandoci alla distruzione, non è che operare una variazione nelle sue forme, ma tale che non può estinguere la vita”, poiché “piccoli animali si formano nell’istante in cui il grande animale ha perduto il respiro”. “Appare allora al di sopra delle forze umane provare che sia un delitto la pretesa distruzione di una creatura, di qualunque età, di qualunque sesso, di qualunque specie la supponiate”.

In sostanza, potremmo dire che De Sade lasciò il proprio nome a una perversione proprio perché, per la prima volta nella storia, un crudele amante diede una spiegazione dei movimenti del proprio animo tentando di elevarli addirittura a sistema filosofico, sistema che presentava una propria idea coerente non soltanto riguardo al sesso, ma all’intero universo. Il tutto all’insegna del secolo dei lumi, ma come ribaltato: insomma, dove gli illuministi vedevano “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità pronte a realizzarsi, Sade mostrava – con la loro stessa fiducia nella ragione – quali fossero i limiti della storia e come occorresse semmai conformarsi ai disegni immutabili della natura, che ci vogliono obbedienti a essi, senza nessuna responsabilità riguardo alle nostre azioni. Se sono crudeli, ebbene non lo sono certo per colpa nostra.

Quasi sicuramente sulla sua indole influì l’educazione che gli impartì fra i quattro e dieci anni (1744- 1750) lo zio, l’abate de Sade d’Ébreu, amico di Voltaire, storico, letterato (scrittore e commentatore delle opere di Petrarca), ma soprattutto impenitente libertino: in fin dei conti, è probabile che le numerose figure di religiosi dediti al vizio che campeggiano nei suoi scritti abbiano come fonte d’ispirazione proprio questo parente, figura centrale della sua fanciullezza. Egli s’incaricò dell’educazione del nipote fornendogli i primi elementi dell’istruzione all’interno d’un monastero. In Aline e Valcour, redatto da Sade durante la prigionia nella Bastiglia, troviamo gli unici passaggi ritenuti autobiografici, che fanno riferimento alla sua infanzia e prima adolescenza: “Nato fra il lusso e l’abbondanza credetti che la natura e la sorte si fossero data la mano per colmarmi dei loro doni… questo ridicolo pregiudizio mi rese altezzoso, dispotico e collerico. Credevo… che mi bastasse concepirli [i miei capricci] per vederli realizzati”. Per il resto, il percorso del giovane fu tipico dell’aristocrazia dell’epoca, con la canonica educazione militare e la partecipazione alla guerra dei sette anni durante la quale arrivò, grazie al suo valore sul campo, al grado di capitano di cavalleria. Nonostante fosse innamorato della signorina di Lauris, nel 1763 sposò Renée-Pelagie Cordier de Montreuil per andare in soccorso al padre in difficoltà economiche, adattandosi a un matrimonio combinato. Va detto che la moglie gli resterà sempre amorevolmente accanto, assecondandolo anche nelle sue perversioni, fino al 1790, quando divorziarono. Dopo cinque mesi di matrimonio Sade venne arrestato e detenuto per quindici giorni con l’accusa di libertinaggio aggravato, bestemmie e profanazione dell’immagine di Cristo. Fra un’amante e l’altra arriviamo al 1768 e a Rose Keller, una giovane mendicante che venne fustigata e rapita; la ragazza però riuscì a evadere, lo denunciò e ottenne un grosso risarcimento, mentre il marchese fu recluso per diversi mesi. Nel 1772, a Marsiglia, durante un convegno libertino (parole sue) frustò e fu frustato da quattro ragazze mentre era beatamente immerso in pratiche etero e omosessuali alle quali prese parte anche un suo domestico; il futuro autore di Juliette offrì quindi delle caramelle alla cantaride (un medicinale dagli effetti afrodisiaci e diuretici non privo di rischi per chi lo assuma) a una prostituta e la sera stessa un’altra, Marguerite Coste, ne ingerì in una quantità tale da far pensare che fosse stata avvelenata. Sfuggito all’arresto, Sade venne condannato in contumacia alla pena capitale per i delitti di avvelenamento e sodomia; in seguito, fu arrestato su richiesta della presidentessa di Montreuil, sua suocera e nemica giurata, cosa che senza dubbio toglie parecchia aura poetica o tragica alle vicende del nostro autore: sembra piuttosto una lite grottesca fra suocera e genero (per via dei torti dell’uno e dei metodi dell’altra) del tutto tipica della commedia di costume. Nel 1773 evase e si rifugiò nel suo castello di La Coste, dove lo attendeva la moglie. Nel 1175 si fece mandare cinque ragazzine da Lione probabilmente tramite una ruffiana col pretesto di assumerle a servizio al castello. Non appena la notizia si diffuse, De Sade venne costretto alla fuga, questa volta in Italia. Un anno dopo ritornò a La Coste, ma lì il padre di una sua cameriera cercò di ucciderlo: il fatto, a metà strada fra la commedia e il dramma, provocò comunque un nuovo procedimento criminale. Nel 1777, mentre era a Parigi per assistere la madre morente venne arrestato ancora una volta a causa di una lettre de cachet (lettera con sigillo reale) contro di lui ottenuta indovinate da chi?… Ma non c’è dubbio: dall’ineffabile e potentissima suocera! Mentre era rinchiuso nella fortezza di Vincennes, nel 1778 fu appurata l’infondatezza delle accuse di avvelenamento di Marguerite Coste; per i crimini di libertinaggio e sodomia De Sade venne condannato a un’ammenda, tuttavia fu trattenuto in galera perché la lettre de cachet regale era ancora valida. Mentre sotto scorta veniva condotto a Parigi, fuggì di nuovo a La Coste, dove però venne arrestato e tradotto nuovamente a Vincennes. Qui la prigionia si prolungò dal 1778 al 1784, quando fu trasferito alla Bastiglia: in queste due prigioni scrisse fra l’altro opere quali Le 120 giornate di Sodoma e la prima versione di Justine.

Ma al di là e al di sopra delle proprie vicende private e letterarie, il Divin Marchese stava correndo a modo suo incontro al proprio appuntamento con la storia: pochi giorni prima della presa della Bastiglia, evento che diede simbolicamente il via alla Rivoluzione Francese, fu trasferito come prigioniero pericoloso nel manicomio di Charenton-Saint-Maurice. Il poeta Guillaume Apollinaire diede questa ricostruzione dei fatti che consigliarono il ricorso a tale provvedimento: “Presentendo la Rivoluzione imminente, il Marchese cominciò ad agitarsi, e a litigare con Launay, governatore della Bastiglia. Il 2 luglio [1789] ebbe l’idea di usare come citofono un lungo tubo di latta terminante a imbuto, che aveva in dotazione per lo scarico dell’acqua sporca nel sottostante fossato […]; vi urlò dentro più volte che nella Bastiglia si scannavano i prigionieri e bisognava venirli a liberare. In realtà la Bastiglia ospitava in quei giorni ben pochi prigionieri, il che rende abbastanza difficile individuare le ragioni che esasperarono il popolo al punto da indurlo a prendere d’assalto una prigione quasi deserta”. Ma qui si può ipotizzare che egli venisse soccorso dalle proprie crudeli ossessioni e dalla sua indubbia capacità di renderle verosimili e quindi assai persuasive: è possibile infatti che “gli appelli del marchese de Sade, le lettere che gettava dalla finestra e che descrivevano nei particolari le torture di cui sarebbero stati vittime i prigionieri, aggravando un’eccitazione già diffusa, abbiano contribuito a scatenare i tumulti culminati nella presa della vecchia fortezza”. Il marchese, dunque, se accettiamo le parole di Apollinaire avrebbe contribuito in maniera decisiva a forgiare un simbolo dal valore politico ancora potentissimo nella nostra modernità. Nel 1790, finalmente scarcerato, visse da solo – la moglie aveva ottenuto la separazione – a Parigi. Qui avrà anche la sua ultima storia d’amore duratura (tredici anni) con Marie-Constance Quesnet. Nel 1791 venne rappresentato per la prima volta un suo dramma, dove prese le distanze da sé stesso rovesciando le proprie convinzioni al punto da affermare che “la prosperità non è mai nel vizio”. Lo spettacolo non ebbe un gran successo proprio perché Sade si era snaturato ricercando gli applausi del pubblico e non trovando, in questo modo, né una propria forma espressiva né il riconoscimento degli altri. Tra il 1792 e il 1794 si occupò di politica, con discorsi che oggi definiremmo da estremista di sinistra, contro il sistema di tipo rappresentativo e a favore della democrazia diretta; pare incredibile, ma l’uomo che personificherà la crudeltà e la tortura nei secoli a venire, nei fatti si rifiutò di partecipare alla politica del Terrore, grazie alla quale avrebbe potuto agevolmente lasciarsi andare ai suoi più bassi istinti. Probabilmente la sua aperta sfiducia nei confronti dei rappresentanti del popolo e la proposta di un governo popolare diretto contribuirono in seguito alla sua condanna a morte, alla quale scampò in maniera rocambolesca, soltanto perché l’usciere del tribunale non riuscì a rintracciarlo nelle varie prigioni. Con la caduta di Robespierre, Sade tornò libero. Durante il Direttorio, la sua vita si consumò fra acciacchi, difficoltà economiche, paura di possibili persecuzioni (egli era infatti parente di nobili emigrati) e accese critiche dei moralisti. Nel 1801 venne di nuovo arrestato con l’accusa di pornografia per le due Justine e per Juliette. In seguito fu trasferito nel manicomio di Charenton, dove ebbe il permesso di alloggiare con Marie-Constance. Con l’aiuto del direttore del manicomio Coulmier, il marchese organizzò numerosi eventi teatrali arrivando a programmare vere e proprie stagioni drammatiche che lo videro spesso come regista, e a volte autore, dei testi mentre gli altri pazienti vestivano i panni degli attori. Grazie al singolare metodo di intrattenimento dei degenti venne così precorso l’odierno psicodramma, apprezzato anche da un raffinato pubblico esterno alla casa di cura: potremmo giungere ad affermare che questo fu senza dubbio il più luminoso successo della sua esperienza teatrale, e probabilmente della sua intera esperienza di vita sociale, che non a caso attirò gli strali della medicina ufficiale dell’epoca nei panni del medico capo di Charenton. Questa volta, però, invano: gli spettacoli proseguirono per cinque anni, dal 1803 al 1808. Un piccolo esempio di rivoluzione reale. La moglie Renée-Pélagie morì nel 1810, Donatien quattro anni dopo. Venne seppellito in una tomba anonima e lui stesso si augurò che il suo nome scomparisse per sempre dalla memoria degli uomini. Ma la storia ama l’ironia: oggi su Kindle Store, digitando “Sade” si trovano 1285 risultati.

Gianfranco Galliano

Nota – Sade al cinema

L’elenco dei registi che prendono spunto a vario titolo, e per ragioni del tutto diverse, dalle opere di Sade è assai curioso. Diciamo che in sostanza si trovano autori in tutti i sensi di culto, tanto per chi apprezza il trash quanto per gli amanti del cinema d’autore. Un nome, almeno quantitativamente, s’impone tuttavia sugli altri: è quello di Jess Franco. Solo a partire da La filosofia nel boudoir troviamo ben tre film firmati da lui: Philosophy in the boudoir (1969), Plaisir à Trois (1973) e Cocktail spécial (1978). Uno ricavato dalla stessa opera, molto più soft di quelli del regista spagnolo, è invece di Aurelio Grimaldi, L’educazione sentimentale di Eugénie (2005). Franco gira altre tre pellicole tratte da opere sadiane: Justine, ovvero le disavventure della virtù (1969) dall’omonimo romanzo, con una giovanissima Romina Power come protagonista; De Sade 2000 (1970) da Eugénie de Franval ; infine Sinfonia erotica (1979) ancora da Justine. I risultati del regista spagnolo sono alterni, ma a modo loro sempre interessanti, sebbene spesso i budget siano risicati; tuttavia, in De Sade 2000 sono sufficienti un’ottima protagonista come Soledad Miranda e la colonna sonora di Bruno Nicolai per rendere la pellicola degna di essere vista. Di ben altro calibro sono i riferimenti a Le 120 giornate di Sodoma  in L’âge d’or (1930) di Luis Buñuel, di cui peraltro Franco era un ammiratore: in esso la carica anticlericale e l’eros inestricabilmente legati percorrono tutta l’opera grottesca, censurata per molti anni. La summa cinematografica quasi insopportabile, nel senso che mostra supplizi e orrori senza recedere di fronte a nessuno di essi, resta comunque Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, altro film che conobbe gli strali della censura. In esso le torture e gli stupri che si svolgono nel castello de Le 120 giornate di Sodoma vengono ambientate in piena Seconda Guerra Mondiale fra i repubblichini, dando una lettura dello scrittore francese in chiave ambiguamente reazionaria. L’opera di Pasolini (insieme a Salon Kitty di Tinto Brass) avrà un seguito del tutto deviato e privo dei riferimenti sadiani, ma non certo di crudeltà, in un filone italiano alquanto becero: quello nazi-erotico. Insomma, siamo partiti da Sade per arrivare ai campi di sterminio: la linea che congiunge l’inventore del romanzo nero a Hitler parrebbe tracciata una volta per sempre, ma Hitler non avrebbe certo approvato gli scritti di marchese, anzi li avrebbe sicuramente condannati al rogo: il male, infatti, deve essere sempre decorato di “belle” parole e in nessun caso può guardare in faccia la realtà in maniera problematica, interrogativa.