LE ORIGINI DELLE FIABE 04 – LA VERA STORIA DELLA BELLA E LA BESTIA: PEDRO GONZALO E LA LEGGENDA DELL’UOMO SELVAGGIO

Correva l’anno millecinquecento trentotto: per la precisione era il ventisette di luglio quando si tenne il regale matrimonio tra Enrico II di Francia e Caterina De’ Medici. La sontuosa celebrazione si svolse nel giardino del castello imperiale della coppia a Fontainebleau in Francia.

Agli occhi degli invitati, questa festa apparve subito da sogno. Come in una fiaba, il castello era illuminato a giorno da migliaia di fiaccole che accompagnano il cammino degli illustri ospiti.

Una soave musica melodiosa intratteneva gli invitati che quasi non facevano caso ad essa tra il brusio di sottofondo che spesso veniva sovrastato da una allegra risata delle nobildonne fasciate nei loro variopinti abiti, adoranti da acconciature meravigliose e da cappellini vistosi; il guaito dei cani, le voci baritonali maschili e il rumore delle armature dei soldati, rendevano questa celebrazione una delle più importanti manifestazioni mondane dell’epoca.

Nelle vaste sale affrescate che si aprivano lungo i corridoi ornati da dipinti e da statue gigantesche di marmo bianco, gli ospiti si divertivano a raccontare aneddoti curiosi, parlare di affari di stato, a danzare o semplicemente ad annoiarsi tra un calice di vino, una risata e un flirt amoroso, la serata scorreva tranquilla.

Nel salone principale si stendevano lunghe tavole su cui erano appoggiati vassoi enormi traboccanti di selvaggina e di frutta anche esotica, mentre gli invitati mangiavano di gusto queste prelibatezze.

La serata stava quasi per volgere al termine quando… improvvisamente, giunsero diversi carri scortati dai soldati. Nessuno si accorse della loro presenza finché uno squillo di una tromba annunciò l’arrivo della carovana. Enrico II precipitò a vedere cosa stava accadendo, giunto vicino ai carri un soldato gli consegnò uno stravagante regalo per gli sposi: un animale peloso chiuso in una gabbia.

Dopo lo stupore iniziale, però, tutti gli invitati e i regali consorti realizzarono che, in realtà, non si trattava di un animale, bensì di un adolescente il cui viso e corpo era ricoperto di lunghi peli!

Gli ospiti stupefatti e curiosi guardavano il ragazzino spaventato, mentre molti pensarono che i regali non avrebbero mai tenuto al castello questo bizzarro e curioso regalo ma invece… non fu così.

Infatti era il 17 agosto 1538, quando Caterina ed Enrico battezzarono questo ragazzino con il nome di Pedro Gonzales e fu accettato da tutta la corte imperiale. Enrico lo fece studiare e lo trasformò in un vero gentiluomo. Si narra che Caterina lo chiamasse con l’appellativo di “Barbet”, per via della somiglianza con una razza canina… fin qui il racconto romanzato delle nozze di Caterina ed Enrico a cui fecero un regalo alquanto bizzarro e che poi da semplice dono di nozze Pedro Gonzales divenne il protagonista di una delle più belle favole di tutti i tempi: “La Bella e la Bestia”.

Ma in realtà la vita di Pedro fu così bella come si raccontato fino ad ora?

Secondo Angela Grazia Arcuri la storia sembra essere andata diversamente e non tutto fu come in una fiaba! Secondo quando si legge nel sito dedicato, il protagonista della favola “La Bella e la Bestia” pare abbia avuto una vita molto movimentata. A tal proposito scrive Angela Grazia Arcuri: “Petrus Gonsalvus, nella sua singolarità, fu nella vita uomo di successo. L’ipertricosi che lo affliggeva e che destava sicuramente grande curiosità, anziché essere un limite finì per rivelarsi un “atout”. Grazie alle sue doti intellettuali, fu considerato uno dei personaggi più noti nell’ambiente aristocratico del XVI secolo. E questa è la sua storia. Nacque nel 1537 a Tenerife, discendente dei “mencey”, i re degli aborigeni delle Canarie (guanchi) sopraffatti e resi schiavi dalla conquista spagnola a fine ‘400. Sembra che Pedro Gonzales, questo il suo nome, era un “muchacho muy hermoso”, la cui caratteristica era quella di avere il volto e il corpo coperti da una fine peluria rosso scuro, che tuttavia scopriva nel volto dei bei lineamenti regolari, come riportano le cronache dell’epoca. All’età di dieci anni, pare che fu inviato come “regalo” dalle Canarie al Re Carlo V nei Paesi Bassi, ma durante la traversata un’incursione di corsari francesi portò alla cattura di Pedro che fu condotto invece, giochi del destino, in omaggio ad Enrico II re di Francia. A quella Corte dominava allora la storica Caterina de’ Medici, moglie del re, una donna dalla forte personalità caratteriale e politica, piccola di statura e assai poco piacevole d’aspetto, piuttosto egoista e spesso crudele, con alcune peculiarità come l’essere estremamente golosa (fu la prima ad introdurre a corte l’uso della forchetta), nonché amante di tutto ciò che fosse esotico. L’ingresso del ragazzo “guancho” suscitò quindi in lei estremo interesse, l’ambizione davanti ai cortigiani di ospitare una testimonianza unica del suo genere. Pedro fu visto come un’icona esotica da conservare con tutti i riguardi. Fu instradato verso lo studio del latino parlato e scritto (a quel tempo considerato come la più alta forma di cultura) e delle materie umanistiche, sì che crebbe come un vero gentiluomo restando a Corte per ben 44 anni con il nome di Don Petrus Gonsalvus, un atto dovuto alle sue origini reali. Nel 1573, avendo Petrus 36 anni, la regina credette bene di dargli una moglie. La scelta cadde non tanto casualmente su Catherine, la più bella delle sue damigelle d’onore, forse per la curiosità… scientifica di vedere cosa sarebbe sorto da quel contrastante connubio. Si narra che la fanciulla, al momento di venire presentata a Petrus come moglie, svenne al suo cospetto. Tuttavia, al di là di quella peluria che scuriva il suo volto e che avrebbe intimorito qualsiasi fanciulla in attesa del Principe Azzurro, Petrus era dotato di una corporatura imponente, quella caratteristica dei “guanchi” di Tenerife, i quali avrebbero avuto alle origini infiltrazioni di popoli nordeuropei, di carnagione chiara e capelli biondi. Da qui è ragionevole desumere la peluria rossiccia di Petrus. È da supporre che l’iniziale deliquio di Catherine e il matrimonio forzato si risolvessero in un’unione insperatamente felice, in quanto la sensibilità, la dolcezza e la cultura di Petrus finirono per conquistarla. Ne nacquero infatti ben sei figli, quattro dei quali affetti da ipertricosi. E la Regina fu accontentata.

Ulisse Aldrovandi, appassionato naturalista del ‘500, studiò i membri della famiglia Gonsalvus, pubblicandone le immagini su uno dei suoi volumetti dal titolo “De Monstris”, laddove il termine latino “monstrum” non aveva quel significato negativo che noi moderni usiamo attribuirgli, ma qualcosa fuori dall’ordinario, di portentoso, di eccezionale. Infatti, Aldrovandi presentava quelle malformazioni che la natura spesso regala a sorpresa a tutti gli esseri di questa terra, umani, animali e vegetali. A sua volta, la ritrattista Lavinia Fontana, amica della famiglia Aldrovandi, ritrasse la figlia di Petrus Antonietta, detta Tognina, e così anche lo stesso Petrus.

Ma cos’è l’ipertricosi? La causa è da riscontrare in un’alterazione genetica a carico di alcuni cromosomi, un capriccio del dna. Venne chiamata “sindrome del lupo mannaro” e anche “sindrome di Ambras”, dal nome di un castello presso Innsbruck, capoluogo del Tirolo, dove furono scoperti i ritratti della famiglia Gonsalvus tuttora conservati nella “Camera dell’Arte e delle curiosità”. Varrebbe la pena come interessante meta turistica. Pare che Petrus Gonsalvus e la sua famiglia siano i più antichi casi di ipertricosi documentati in Europa. Tale disturbo è poco riscontrato nelle etnie asiatiche e nere e poco comune nel nord Europa, più frequente invece nel bacino mediterraneo. Attualmente, in tutto il mondo sono noti un centinaio di casi di questa che è ritenuta una vera malattia, strumentalizzati dai mass media e visibili ormai da tutti in note trasmissioni televisive nazional-popolari.

Questa insolita storia d’amore è stata popolarmente assimilata a quella de “La Bella e la Bestia” e per certi versi vi sono delle chiare similitudini. La fiaba, scritta nel 1550 dall’italiano Gianfrancesco Straparola e poi dal francese Charles Perrault a fine ‘600, pur se con ogni probabilità ispirata alla figura di Gonsalvus a quel tempo molto noto, in realtà trova le sue origini nell’antica letteratura classica greco- latina, ricordando “Le Metamorfosi” di Apuleio, scrittore filosofo di scuola platonica originario della Numidia. Ci sarà poi tutto un fiorire di riletture della fiaba nel corso del ‘700 a sfondo sociale-educativo, fino ai giorni nostri con versioni cinematografiche, letterarie, teatrali e nel piccolo schermo.

Dopo la morte di Caterina de’ Medici nel 1589, Petrus Gonsalvus con la famiglia lasciò la corte francese per recarsi in Italia, dove soggiornò alla corte di Parma. In seguito, si stabilì definitivamente a Capodimonte sul lago di Bolsena (Viterbo), dove morì nel 1618, all’età di 81 anni. I particolari della sua vita si trovano nell’Archivio Vaticano e negli Archivi di Stato di Roma e Napoli.

“El salvaje gentilhombre de Tenerife” (“Il selvaggio gentiluomo di Tenerife”), come intitola il suo libro Roberto Zapperi, scrittore di storia e antropologia, terminò i suoi giorni nella tranquillità del lago laziale, lontano dai clamori delle corti reali. E questo “lupo mannaro” buono e sensibile ci può insegnare quanto relativo sia il valore della bellezza. Imparò a capirlo la sua devota Catherine”.

Alcune fonti affermano che la progenie di Petrus si sia stabilita in Abruzzo dando vita a un fiorire di leggende su strani esseri che popolavano i boschi e che erano simili a persone affette da ipertricosi, facendo nascere il mito del selvaggio che sembrerebbe essere metà umano e metà animale. Altri affermano che Maddalena Ventura o Donna barbuta, la protagonista del dipinto di Jusepe de Ribera presente al museo del Prado di Madrid non sia la sola che all’epoca vivesse in Abruzzo. Infatti pare che in alcuni paesi dell’Abruzzo interno vivessero alcune donne affette da ipertricosi.

Ma in realtà chi è questo uomo selvaggio presente in molti miti e leggende di tutto il mondo?

Si legge su Wikièedia: “L’uomo selvatico è un archetipo presente nella cultura popolare di molte aree europee, in particolare delle regioni montane; si tratta di un essere umano selvaggio, a tratti semi-divino, abitante dei boschi e generalmente raffigurato come ricoperto da vegetazione o da una folta peluria. Quello dell’uomo selvatico, che vive al di fuori della civiltà, è un archetipo molto antico e che è stato declinato in innumerevoli modi nelle varie culture europee, tra cui è possibile tracciare un filo comune; la figura è ad esempio presente nelle tradizioni dell’arco alpino italiano, svizzero e austriaco, dei Sudeti polacchi e dei Pirenei catalani; figure simili all’uomo selvatico sono presenti anche in altre culture mondiali, ad esempio nel Caucaso (con il Kaptar), in Estremo Oriente (il mongolo Alma, il siberiano Chuchuaa, il russo Nasnas, i cinesi Ging Sung e Ye Ren, il birmano Metoh Kangmi e il tibetano Yeti), Nord America (Bigfoot e Sasquatch) e Oceania (con lo Yowie), sebbene vada notato che personaggi come il Sasquatch e lo Yeti sono presentati più come primati non completamente evoluti che non come uomini regrediti ad uno stato selvatico, come appunto l’uomo selvatico.

Almeno per quel che riguarda la cultura occidentale, l’uomo selvatico ha dei precursori nella figura di Enkidu (“selvatico” e “coperto di pelo”) e nei fauni romani, figure legate all’ambiente agreste, ma anche nel biblico Esaù (“rosso e coperto tutto di un mantello di pelo”, descritto come grezzo, iroso e avventuroso). Meno simile è la figura greca del satiro, che è più un ibrido tra uomo e animale. A dispetto di questi precedenti, il personaggio dell’uomo selvatico in Europa si sviluppa principalmente durante il Medioevo acquisendo, specie sulle Alpi, una serie di caratteristiche fisse rimaste anche nelle tradizioni successive. Nelle prime attestazioni medievali, in linea con le figure classiche dei fauni e con altri racconti di Ovidio e Virgilio, esso ha il ruolo di guardiano e di protettore, in sostanza coincidendo con la figura del buon selvaggio. Più avanti, a causa del mutamento del contesto culturale e sociale, della diversa interpretazione dei vari autori e artisti che l’hanno ripreso, e della trasmissione orale di molti racconti che lo riguardano, l’uomo selvatico ha assunto altre caratteristiche, spesso riprese da altre figure folcloristiche o create ex-novo da qualche narratore. La figura dell’uomo selvatico si è così diversificata acquisendo, nelle tradizioni in cui appare, diverse facce e vari tratti stereotipici.

In Italia «è sostanzialmente un comune mortale che vive al di fuori del consesso umano preferendo i luoghi isolati, la montagna, il bosco. A contatto con la natura ha esaltato al massimo le sue caratteristiche fisiche che gli assicurano la vita: forza, robustezza, fiuto eccezionale per inseguire la preda. È timido, rifugge dal prossimo isolandosi al punto tale da attenuare le sue capacità psichiche fino alla stupidità. Non si lava né si pulisce. Non si rade né si taglia i capelli cosicché questi si fondono raggiungendo le ginocchia. Per questo diventa una figura terrificante esaltata dalla pelle di caprone con cui si ammanta. Un atto gentile lo intenerisce. A volte sente il bisogno di fraternizzare con gli uomini. Allora si ferma insegnando loro i mestieri della malgazione, della lavorazione dei latticini di cui è maestro.» (Giuseppe Šebesta)

Nel nostro paese la tradizione relativa all’uomo selvatico si è sviluppata su tutto l’arco alpino e prealpino e sull’Appennino settentrionale, mentre è quasi assente nel Sud; le leggende che lo riguardano lo descrivono generalmente come un uomo che vive al di fuori dalla società civilizzata, all’interno del bosco, dove crea la sua casa in una grotta, in una baita abbandonata o luoghi simili. Emerso dal bosco, sarebbe stato lui a insegnare agli uomini l’arte casearia (o, in altre versioni, l’apicoltura o le tecniche minerarie); tuttavia, deriso, snobbato, ingannato o spaventato, sarebbe ritornato nella selva, privando l’uomo della possibilità di conoscere altri segreti (ad esempio, quello per trasformare il latte in olio o in cera). Secondo alcune versioni, ride quando piove e piange quando c’è bel tempo, atteggiamento che viene spiegato ritenendo che le condizioni atmosferiche del presente sono all’opposto di quelle che seguiranno”.

Si narra che, in tempi antichi, vi siano stati diversi avvistamenti di esseri simili a quelli poc’anzi descritti, lungo le rive del fiume Sangro o in boschi delle aree interne del chietino che hanno dato vita a diverse leggende su uomini selvaggi o strane creature dai poteri straordinari come stregoni ad esempio, i quali si potevano manifestare, secondo le credenze popolari, in questa maniera.

Un’altra variante dell’uomo selvaggio potrebbe essere il fauno. Il fauno è un nume tutelare della natura presente nella mitologia romana. Secondo Wikipedia “più precisamente è la divinità della campagna, dei greggi e dei boschi. Il suo aspetto è dalla forma umana, ma con i piedi e le corna di capra. In epoca tarda fu fatto corrispondere, secondo l’interpretatio romana, al satiro della mitologia greca, benché quest’ultimo fosse più strettamente legato al culto del dio Dioniso, Bacco per i Romani. Fauno era il dio della campagna, dei pascoli e dell’agricoltura, contrapposto al dio dei boschi, Silvano. Era anche chiamato “Luperco”, in qualità di difensore delle greggi e degli abitanti della campagna dagli assalti dei lupi e lupo egli stesso (Lupercus = lupus + hircus). Si tratta di una delle più antiche divinità italiche, nonché dell’istitutore dei Salii e dei Luperci, le due sodalitates dedicate al culto iniziatico di Marte. Aveva come passatempi cacciare e corteggiare le ninfe. Amava suonare il flauto ed era portatore di istinti sessuali. Il suo aspetto era dalle forme umane, ma con le gambe da capra e le corna sul capo. In alcune versioni del mito, Fauno è identificato con un antico re del Lazio, nipote di Saturno o di Marte, figlio di Pico e Canente o Pomona e, secondo l’Eneide, padre di Latino, il quale dopo la morte fu venerato, sia come protettore di raccolti e armenti (Inuus), sia per le sue facoltà di oracolari (Fatuus). Secondo una versione latina, Fauno era figlio di Giove e della maga Circe. La sua sposa era Fauna, chiamata anche Fatua; in versioni tarde fu associato al dio greco Pan, oltre che al Satiro. Secondo dei miti romani, ripresi poi nell’Eneide da Virgilio, Fauno era lo sposo di Marica, divinità delle acque, dalla quale ebbe Latino. Insieme a una ninfa siciliana avrebbe generato invece il bellissimo pastore Aci.

Per altri sarebbe stato il terzo re preistorico dell’Italia e avrebbe introdotto nella penisola il culto della divinità e l’agricoltura. Dopo la morte gli vennero dedicati molti onori e venne venerato come dio dei boschi, protettore delle greggi e degli armenti. Secondo altre fonti, i fauni sarebbero stati antichi pastori, abitanti, ai primordi del mondo, nel territorio sul quale verrà fondata Roma. Nell’Eneide si fa riferimento anche a un Fauno omonimo del dio: è il padre del giovane guerriero italico Tarquito, ucciso da Enea in combattimento. Tarquito risulta essere comunque un semidio, in quanto sua madre è la ninfa Driope. Nelle comunità rurali, la sua festa (Faunàlia), ricorreva il 5 dicembre e veniva celebrata tra danze e processioni. L’unico tempio a lui dedicato in Roma, il Tempio di Fauno, si trovava sull’Isola Tiberina.

Nei pressi di un bosco situato nelle vicinanze della fontana Albunea, lungo il percorso tra Lavinium ed Albalonga, si trovava il celebre oracolo dedicato al dio Fauno, a cui si sarebbe rivolto il re Latino. In onore del dio Fauno, protettore delle greggi e del bestiame dagli attacchi dei lupi, venivano celebrati i Lupercalia, feste purificatorie che consistevano nell’allontanare due gruppi di sacerdoti nelle foreste, truccati in modo spaventoso, cioè vestiti con le pelli degli animali sacrificati. Probabilmente i Lupercalia erano associati al mito dei Silvani. Si pensa che tale rito avesse anche funzione iniziatica all’età adulta. Si teorizza anche che questa festa sia l’antenata dell’attuale san Valentino. Nei primi secoli dell’era cristiana, molte divinità pagane vennero demonizzate e i fauni furono associati ai Satiri e ai Silvani. Furono associati al demonio Incubo. La figura del fauno diverrà in seguito quella del diavolo-tipo. Nello stesso periodo, però, i fauni vennero anche convertiti in esseri non malvagi, simili ai folletti”.

Nicoletta Travaglini