POE RIPLEY

“I fatti” – dice Borges – “procedono da speculazioni molto più antiche”: quella che segue ne è una mite dimostrazione.

Sostanzialmente ignoto in Italia, LeRoy Robert Ripley (1890 – 1949) fu invece personaggio tanto eclettico quanto noto nella sua patria, gli USA. A proposito dell’eclettismo, che pure prenderà poi una via maestra, l’eterogeneità dei lavori che fece imbarazzerebbero quanto a verosimiglianza in un romanzo, mentre nella realtà basterebbero a riempire diverse vite: fu disegnatore, imprenditore, antropologo dilettante e soprattutto creatore di Credeteci o no!, una gigantesca opera aperta multimediale (per dirla in alati termini contemporanei) che raccoglieva in tavole su giornali, in trasmissioni radio e show televisivi un gran numero di fatti e oggetti strani collezionati viaggiando per tutto il mondo.

A suo modo, Ripley anticipò un genere para-documentaristico tutto italiano (il cosiddetto mondo movie) che si sarebbe diffuso soltanto tre decenni dopo con Mondo Cane (1962), un film reportage italiano nel quale lo spettatore veniva sottoposto a un fuoco di fila di usi e costumi stravaganti (naturalmente per il pubblico benpensante occidentale dell’epoca) raccattati nel mondo, fra l’esotico e il crudele. “Mi guadagno da vivere – scriveva nel suo primo libro, nel 1929 – sul fatto che la verità sia più strana della finzione. Le illustrazioni della rubrica “Believe It or Not!”, che appaiono in un centinaio di giornali in tutto il Paese, sono disegnate secondo questo principio. Tuttavia, mi permetto di dire che sono stato definito bugiardo più di chiunque altro al mondo. Di solito, quando si viene chiamati bugiardi, a dir poco ci si sente feriti. Ma per me è diverso, non mi dispiace neanche un po’. Quando un mio lettore mi definisce bugiardo per via delle mie vignette, mi sento lusingato. Quella brutta parola è come musica per le mie orecchie, è come un complimento, perché significa che la mia pagina quel giorno conteneva un fatto strano […] a cui il lettore non aveva creduto”.

Fin da bambino Ripley manifestò due intense passioni: una per il baseball, che si concluse con un incidente che probabilmente gli precluse una carriera professionistica, e l’altra, altrettanto profonda, per il disegno. In barba alle difficoltà economiche della famiglia, lo esercitava su qualsiasi superficie potesse farlo; anche quanto ai soggetti non si creava troppi problemi: ritraeva tutto quanto gli capitasse sottomano, a cominciare da sé stesso per arrivare fino ai suoi familiari e al prosaico mondo circostante. Un’altra sua passione era il collezionismo di oggetti bizzarri: bottiglie, fasce di sigari, chiodi piegati a forma di lettere d’alfabeto. Dulcis in fundo, Robert fu estasiato spettatore dei circhi in cui venivano esibiti curiosità antropologiche d’ogni tipo (dalla donna barbuta ai classici nani ecc.). Con la morte di suo padre, dovette però interrompere i suoi sogni di stramberie (almeno per qualche tempo) per mantenere la famiglia grazie a due attività: consegnar giornali e lucidare lapidi. Non si demoralizzò e riuscì a vendere qualche suo disegno a “Life”, quindi lavorò prima come vignettista sportivo sul “San Francisco Bullettin” e in seguito come illustratore sportivo al “Globe”.

Si narra poi che una sera, trovatosi a corto di storie da raccontare, pensò bene di scrivere e illustrare una lista di sport stravaganti ma reali, come per esempio la corsa all’indietro o il salto nel ghiaccio: così, il 19 dicembre 1918, la prima tavola di Credeteci o no! – e l’inizio dell’impero dell’intrattenimento di Ripley – erano nati, data l’immediata entusiastica risposta del pubblico e l’invito dello stesso editore a proseguire su quella strada. Le vignette seguenti ritraevano un uomo che era in grado di saltare all’indietro di 12 piedi e un individuo senza mani che era in grado di giocar a biliardo con il naso. Da questa prima grande passione egli cominciò la sua collezione a partire da luoghi esotici e insoliti degli Stati Uniti: il successo molto probabilmente gli derivò dal fatto che il pubblico stesso forniva foto (da vegetali di forme inusuali ad animali domestici con segni strani) e il nostro le accompagnava con dei disegni. Così, Ripley allontanò da sé fin da subito l’idea di essere un truffatore (sappiamo bene quanto gli americani siano sensibili all’argomento) e disse di essere in grado di provare in pratica, coi fatti nudi e crudi insomma, quanto affermava: a questo scopo negli anni di Credeteci o no!, dal 1923 fino al momento della sua scomparsa, assunse in qualità di assistente a tempo pieno Norbert Pearlroth, un ricercatore poliglotta che passò buona parte della sua vita cercando e valutando professionalmente nella loro realtà concreta gli eventi e le cose stravaganti che comparivano nelle tavole di Ripley. (Per dare un’idea delle capacità di questo Pearlroth, basti ricordare che contribuì a verificare come Credeteci o no, gli Stati Uniti non hanno un inno nazionale fosse cosa assolutamente vera fino al 1931, anno che vide infine il presidente Hoover decidersi a ufficializzare con un’apposita legge Star-Spangled Banner quale inno, già riconosciuto da tutti gli americani come tale, anche se – piccola dimenticanza – non ancora a livello politico-burocratico!).

Ma a questo punto l’America, per quanto grande, a Ripley non bastava più. Nel 1922, infatti, intraprese il primo dei suoi numerosissimi viaggi intorno al mondo da cui trasse quella che sarebbe divenuta la parte più rilevante, quella su scala planetaria, della sua megacollezione, composta di reperti tutti scrupolosamente documentati, a differenza – e non è certo una differenza da poco – di quanto accade nei mondo movie. L’elenco di tanti cimeli sarebbe ovviamente lunghissimo: ci limitiamo a ricordare qui le classiche teste tagliate e miniaturizzate degli indios amazzonici (all’epoca tutt’altro che popolari), il sigaro gigante, il vitello a due teste, l’uomo unicorno, quello con la lingua di serpente (molto browninghiani), quello coi baffi più lunghi del mondo e via friccheggiando. Nel frattempo, il nostro vulcanico Robert proprio negli anni ’20 trovò il tempo di pubblicare un libro di viaggi, uno sulla pallamano (della quale fra l’altro divenne il campione dello stato di New York per il 1926) e uno sul pugilato. In seguito si legò professionalmente al magnate dell’editoria Randolph Hearst e negli anni ’30 lavorò alla radio per la quale registrò degli show dal vivo sottacqua, dal cielo, nel Grand Canyon, nelle fosse dei serpenti e in paesi stranieri; in seguito girò dei cortometraggi per la Warner Bros.  e per la Vitaphone. Nel 1933 inaugurò a Chicago il suo primo museo, l’Odditorium (“odd”, cioè “strano” + desinenza latina): il successo fu tale che ne vennero aperti altri a San Diego, Dallas, Cleveland, San Francisco e New York City. Ripley fu votato uomo più popolare in America dal New York Times e visitò ben 201 nazioni straniere. Dopo la parentesi bellica, nel 1948 nacquero le serie televisive di Credeteci o no!: mossa sbagliata, per una volta, perché gli americani che all’epoca avevano accesso alla tv erano un numero ancora troppo ristretto. Purtroppo Ripley non ebbe modo di rifarsi dell’insuccesso (molto relativo: le sue tavole raggiunsero nel complesso gli ottanta milioni di lettori nel mondo): di lì a poco, infatti, ebbe seri problemi cardiaci che lo condussero precocemente alla tomba. Tuttavia, i suoi Odditorium e molte altre iniziative gli sopravvissero nella Ripley Entertainement e oggi se ne possono trovare non solo negli USA, ma anche in Europa (in Olanda, per esempio). Nel 1980, Jack Palance ripropose in tv il mondo di Credeteci o no! e lo stesso fece Dean Cain nel 2000, due esempi che testimoniano quanto il pubblico sia ancora affascinato dalla creatura del pirotecnico Robert.

“Non dimenticherò mai quando è apparsa una mia vignetta con la didascalia “Lindbergh è stato il sessantasettesimo uomo a fare un volo non-stop sull’Oceano Atlantico”. Chi crederebbe a una dichiarazione del genere? Tremila lettori mi scrissero per dire che non e vero e invece lo era. Chi potrebbe mai credere che un giorno sia composto in realtà da quarantotto ore, che Matusalemme sia morto prima di suo padre, che Buffalo Bill non abbia mai sparato a un bufalo in vita sua; che un uomo sia morto di vecchiaia prima di avere quarant’anni? Ci si può aspettare che qualcuno creda che “un fiume possa invertire la sua corrente”? Che “un fiore mangi i topi”? Che “Napoleone attraversò il Mar Rosso come Mosè” o che esistano dei “pesci arrampicatori”? Che esista un’isola con un perimetro di molte centinaia di miglia che cionondimeno è costruita da una colonia di minuscoli esseri simili ai bruchi? Che ne esista un’altra dove le foreste sono di pietra, e d’una pietra così dura che neppure le asce abbattono gli alberi, ma se le si usa su di essi volano in schegge? Che ci sia una caverna che si svolge per trenta o quaranta miglia dentro le viscere della Terra e contiene sontuosi e immensi palazzi più che Damasco e Bagdad messi insieme? Che miriadi di gemme come diamanti, e più grosse degli uomini, pendano dalle volte di questi palazzi? E che in mezzo alle strade, fiancheggiate da torri, piramidi e templi, scorrano fiumi di acque nere come l’ebano, pullulanti di pesci senza occhi? Che ci sia un gran lago sul fondo del quale, a più di cento piedi sotto la superficie dell’acqua, cresca una verde foresta di alberi verdi e lussureggianti? Che esista un luogo con un clima tale che, per la sua straordinaria densità, riesce a sostenere il ferro e l’acciaio come fossero piume? …E soprattutto, chi crederebbe mai che qualcuno ben prima di Robert Ripley, già nel 1845, abbia inventato nel giro di un solo racconto l’intero mondo del nostro mister Stranezza – completo di un titolo, Tellmenow Isitsoornot (Tell me now Is it so or not = Ditemi adesso è ciò così o no), del quale si sente l’eco nel ripleyano Believe It or Not! – ovvero Edgar Allan Poe nel suo “La millesimaseconda notte di Sherazade”?

Gianfranco Galliano

Nota

“La millesimaseconda notte di Sherazade”, traduzione di Elio Vittorini