ENIGMI DALLO SPAZIO E DAL TEMPO 03

2: SORELLA MORTE – PARTE 01

Mi piace svegliarmi alla mattina e non sapere cosa mi capiterà o chi incontrerò, dove mi ritroverò. Secondo me la vita è un dono, e non ho intenzione di sprecarla, non sai mai quali carte ti capiteranno nella prossima mano, impari ad accettare la vita come viene… così ogni singolo giorno ha il suo valore!

(Titanic di James Cameron – 1997)

L’immaginario collettivo è influenzato dai film che vediamo. Tunnel, distese immense, colori che tendono al celeste e nuvole. Così la fantasia descrive i primi istanti dopo la morte. Ma oggi la scienza ha le idee chiare e spiega cosa accade. Uno studio dell’Università di Southampton pubblicato su Resuscitation è arrivato a definire un punto di non ritorno sulla conoscenza dello stato di pre-morte. Pochi minuti di consapevolezza, anche se il cuore ha smesso di battere, in cui ci si rende pienamente conto di quello che succede intorno. Dopo 4 anni di ricerche, gli studiosi affermano che quasi il 40% dei sopravvissuti a un arresto cardiaco descrive un qualche tipo di consapevolezza nel periodo di tempo in cui erano clinicamente morti, prima che il cuore ripartisse. Un uomo addirittura ha ricordato di aver lasciato il suo corpo e di aver assistito alle manovre di rianimazione da un angolo della stanza. Nonostante sia rimasto “morto” per 3 minuti, il 57enne di Southampton coinvolto nella ricerca ha ricordato le azioni degli infermieri nel dettaglio, descrivendo persino il suono dei macchinari. Normalmente il cervello non può funzionare quando il cuore smette di battere, il che è quasi sempre vero… quasi…

Ma in questo caso la consapevolezza cosciente è continuata per più di 3 minuti nel periodo in cui il cuore non batteva, nonostante il cervello si “disattivi” 20-30 secondi dopo che il cuore si è fermato. Insomma, la ricerca rivela la possibilità di una sorta di finestra di consapevolezza di alcuni minuti dopo che il cuore ha smesso di battere, quindi. E non si tratta d’immaginazione o autosuggestione. L’uomo ha descritto tutto quello che è accaduto nella stanza. Ma cosa ancor più importante, ha udito due beep di un macchinario che fa un rumore a intervalli di 3 minuti. Così possiamo misurare la durata della sua esperienza. Tutto è sembrato molto credibile perché quello che raccontò era davvero accaduto. Dei 2.060 pazienti in arresto cardiaco studiati, 330 sono sopravvissuti e 140 hanno avuto esperienza di un qualche tipo di consapevolezza mentre venivano rianimati. Stime hanno suggerito che milioni di persone hanno avuto vivide esperienze in relazione alla morte, ma le prove scientifiche finora erano ambigue. Molte persone hanno dato per scontato che queste fossero allucinazioni o illusioni, ma i fatti descritti sembrano corrispondere a eventi reali. Queste esperienze necessitano di ulteriori indagini.

Ci sarebbe un momento preciso nel quale l’anima lascia il corpo. Ne è convinto uno scienziato russo, Konstantin Korotkov, dopo aver fotografato una persona nel momento in cui è passata a miglior vita. Ovviamente non con una semplice macchina fotografica ma servendosi di un apposito dispositivo bioelettrografico. Nulla di fantascientifico, ma un metodo che trecento medici in tutto il mondo utilizzano per monitorare malattie come il cancro. La differenza sta in alcune modifiche apportate dallo studioso russo in grado di captare e visualizzare forme non fisiche. Convinzioni tutte sue, dicono di Korotkov altri studiosi. Eppure nessuno è in grado di escludere che ognuno di noi abbia un’anima.

Una interessante lettura è quella di James Hillman, Il codice dell’anima – Carattere, vocazione, destino (Adeplhi, pp. 409, euro 13). Per decifrare il codice dell’anima e capire il carattere, la vocazione, il destino, nel suo best seller Hillman s’ispira al mito platonico di Er: l’anima di ciascuno di noi sceglie un “compagno segreto” (daimon lo chiamavano i greci, genius i latini, angelo custode i cristiani). Sarà lui a guidarci nel cammino terreno. Eminenti modelli sfilano sotto l’occhio di Hillman. Il suo set è affollatissimo: Judy Garland, Joséphine Baker, Woody Allen, Quentin Tarantino, Hannah Arendt, Manuel Manolete, Henry Kissinger, Richard Nixon, Truman Capote, Gandhi, Yehudi Menuhin, Elias Canetti e tanti altri, con le loro storie d’infanzia e maturità abilmente sezionate dal bisturi analitico, testimoniano apoteosi e disastri. Ma nell’età della psicopatia il ruolo del protagonista spetta a Hitler: il suo demone gli ha cucito addosso la divisa di un prototipo, il criminale dei tempi moderni. Forse di tutti i tempi.

L’uomo vuole vivere, sente sé stesso come un essere fatto per la vita e il rischio di essere consegnato al non-essere perpetuo è fonte di una profonda angoscia esistenziale.

Se da una parte le religioni, sapienze antiche, prospettano la certa continuazione della vita nell’aldilà, fornendo una straordinaria mitigazione della paura della morte e un sostanziale significato alla vita del credente, la società contemporanea tende a esorcizzare la paura della morte o cancellandola dall’esperienza quotidiana, evitando di parlarne o di pensarvi, oppure spettacolarizzandola in fiction televisive e cinematografiche nelle quali l’eroe di turno causa la morte dei nemici come se fossero mosche.

Esiste un film, purtroppo poco noto, che centra meglio di qualunque altro l’argomento che appare senza alcun approfondimento in altri film, ma ne parleremo dopo. Per ora citiamo Asphyx (Asphyx) conosciuto anche come Spirit of the Dead di Peter Newbrook (1972), uscito da noi dapprima in VHS e poi in DVD per merito della Sinister Film: nel 1875, Sir Hugo Cunningham (Robert Stephens), filantropo e scienziato autodidatta, riesce casualmente, fotografando uomini in punto di morte, a impressionare nella pellicola il mitico Asphyx, lo spirito della morte che accompagna ogni individuo. La forma, invisibile a occhio nudo, è, sul negativo, un alone evanescente, ma i cristalli che egli usa per produrre una particolare luce azzurrina per illuminare il soggetto da fotografare la evidenziano, la focalizzano, la imprigionano nella realtà fisica. Convinto di aver scoperto la scorciatoia per l’immortalità, Cunningham si sottopone a un drammatico esperimento, legandosi su una sedia elettrica e aspettando che lo spirito si manifesti. Il figlio, secondo le istruzioni ricevute, illumina il laboratorio con i particolarissimi cristalli e immobilizza l’evanescente figura allontanando per sempre la morte dal destino del padre. Forte del successo conseguito, Cunningham prova con la figlia: la colloca sotto una ghigliottina, scatta la fotografia nel momento cruciale, ma, pur imprigionando il suo Asphyx, non riesce a evitare che un malfunzionamento della macchina la decapiti. Anche suo figlio adottivo muore in un analogo esperimento, anzi si lascia morire sabotando il macchinario perché innamorato della figlia dello scienziato. Roso dal rimorso Sir Hugo si condanna a vagare tra gli uomini, immortale, preda di una folle disperazione. Un film, con lo stesso titolo, è uscito nel 2011.

Da qualche tempo, però, a interessarsi al fenomeno della morte e della sua possibile funzione come passaggio verso un nuovo stato di vita, c’è anche la scienza, in particolare quella disciplina definita come “fisica quantistica”, una branca della fisica che studia il comportamento delle particelle a livello atomico e subatomico.

Tra i ricercatori più appassionati della questione vi è il professor Robert Lanza, direttore scientifico presso l’Advanced Cell Technology e professore aggiunto presso la Wake Forest University School of Medicine. Come ricercatore ha pubblicato centinaia di articoli scientifici e numerose invenzioni e ha scritto, fino ad ora, più di 30 libri, tra i quali “Principles of Tissue Engineering” (Principi di ingegneria dei tessuti) ed “Essentials of Stem Cell Biology” (Fondamenti di biologia delle cellule staminali), due pubblicazioni che sono riconosciute come riferimenti definitivi in campo scientifico.

Lanza sostiene la Teoria del Biocentrismo, secondo la quale la morte come noi la conosciamo non sarebbe altro che un’illusione generata dalla nostra coscienza. “Ci hanno insegnato a pensare che la vita sia solo l’attività generata dalla combinazione del carbonio e di una miscela di molecole, che vivremo per un certo tempo e che poi finiremo per marcire sottoterra”, scrive Lanza sul suo sito web. “In effetti, noi crediamo nella morte perché ci è stato insegnato che moriremo, o più specificamente, ci hanno insegnato che la nostra coscienza è un fenomeno associato al nostro organismo e che questa morirò con esso”.

La sua Teoria del Biocentrismo, però, afferma che la morte non può essere l’evento terminale che pensiamo che sia. Il Biocentrismo si attesta come la teoria del tutto e mette la vita al centro e all’essenza dell’attività dell’Universo. Lanza spiega che la vita e la biologia sono il centro dell’esistenza. Anzi, è la vita stessa a creare l’Universo e non il contrario.

Ciò significa che è la coscienza della persona a determinare la forma e la dimensione degli oggetti nell’Universo. La filosofia realista di provenienza greca ha sempre affermato che la realtà esiste di per sé, a prescindere dall’esistenza dell’osservatore.

La fisica quantistica, invece, ha scoperto che l’osservatore è determinante nella formazione della realtà. In effetti, la realtà che noi percepiamo con i nostri sensi è l’incontro tra il “funzionamento di base dell’Universo”, che potenzialmente può assumere infinite forme, e la “presenza dell’osservatore”, che ne determina con la sua coscienza la forma.

Praticamente, la realtà è come la pensiamo! Lanza fa un esempio sul modo in cui percepiamo la realtà intorno a noi: “una persona percepisce il cielo come di un certo colore, e gli viene insegnato che quel colore si chiama blu. Ma le cellule del cervello di un’altra persona potrebbero percepire un colore diverso, che chiamerebbe sempre blu, ma che potrebbe corrispondere al mio verde”.

Lanza pone questo postulato alla base della sua teoria: tutto ciò che percepisci del mondo non può esistere senza la tua coscienza, la nostra coscienza è alla base della realtà. Ponendo questo postulato nell’osservazione più generale dell’Universo, significa che lo spazio e il tempo non si comportano in maniera “dura” e “veloce” come ci sembra di percepire. In sintesi, essi non esistono di per sé fuori di noi, ma sono un prodotto della nostra coscienza!

Nella presentazione della sua teoria biocentrica, Lanza ha citato il famoso esperimento della doppia fenditura, a fondamento delle sue affermazioni. L’esperimento ha mostrato che quando un osservatore guarda passare una particella attraverso due fenditure poste in una barriera, la particella si comporta come un proiettile, passando attraverso una delle due fenditure. Tuttavia, se l’osservatore smette di guardare la particella, questa inizia a comportarsi come un’onda, riuscendo a passare attraverso entrambe le fenditure nello stesso tempo.

Questo significa che la materia e l’energia possono presentare le caratteristiche sia delle onde che delle particelle e che il loro comportamento dipende dalla percezione e dalla coscienza di un osservatore.

La fisica quantistica sembra confermare le teorie dei filosofi idealisti, i quali hanno sempre pensato che la realtà fosse un prodotto della mente dell’uomo. Una volta che spazio e tempo vengono accettati come costrutti della nostra mente, significa che la morte, e l’idea di mortalità, sono anch’esse un fenomeno legato all’esperienza sensoriale della nostra coscienza. Con la morte del nostro organismo, la nostra coscienza entra in una condizione dove non esistono più confini spaziali e temporali: l’eternità!

Secondo Lanza, la vita è un’avventura che trascende il nostro modo ordinario di pensare. Quando moriamo, non entriamo nel mondo caotico del non-essere, ma torniamo alla matrice fondamentale dell’Universo: “con la morte, la nostra vita diventa un fiore perenne che torna a vivere nel multiverso”, il luogo delle possibilità infinite. Se non sapessimo che si tratta di uno scienziato, penseremmo di ascoltare un uomo di religione.

Ma Robert Lanza non è l’unico scienziato a ritenere che la fisica quantistica giustifichi l’esistenza della vita eterna. Un medico americano, il dottor Stuart Hameroff, e un fisico quantistico inglese di fama mondiale, Sir Roger Penrose, hanno sviluppato una teoria che potrebbe dimostrare definitivamente l’esistenza dell’anima.

Secondo la Teoria Quantistica della Coscienza elaborata dai due scienziati, le nostre anime sarebbero inserite in microstrutture chiamate “microtubuli”, contenute all’interno delle nostre cellule cerebrali.

La loro idea nasce dal considerare il nostro cervello come una sorta di “computer biologico”, equipaggiato con una rete di informazione sinaptica composta da più di 100 miliardi di neuroni. Essi sostengono che la nostra esperienza di coscienza è il risultato dell’interazione tra le informazioni quantiche e i microtubuli, un processo che i due hanno definito “Orch-OR” (Orchestrated Objective Reduction). Con la morte corporea i microtubuli perdono il loro stato quantico, ma le informazioni in essi contenute non vengono distrutte.

In parole povere, la coscienza non muore, ma torna alla sua sorgente. “Quando il cuore smette di battere e il sangue non scorre più, i microtubuli smettono di funzionare perdendo il loro stato quantico”, spiega il dottor Hameroff, professore emerito presso il Dipartimento di Anestesiologia e Psicologia e direttore del Centro di Studi sulla Coscienza presso l’Università dell’Arizona.

L’informazione quantistica contenuta nei microtubuli non è distrutta, non può essere distrutta, ma viene riconsegnata al cosmo. Quando un paziente torna a vivere dopo una breve esperienza di morte, l’informazione quantistica torna a legarsi ai microtubuli, facendo sperimentare alla persona i famosi casi di premorte”.

La grande portata di questa teoria è evidente: la coscienza umana, così intesa, non è il semplice prodotto che emerge da un processo biologico, né si esaurisce nell’interazione tra i neuroni del nostro cervello, ma è un’informazione quantistica in grado di esistere al di fuori del corpo a tempo indeterminato.

Certamente la prospettiva è entusiasmante, dato che queste teorie sono in grado di dare un senso alla morte. Ma la domanda che sorge conseguentemente è questa: qual è lo scopo dell’esperienza che facciamo nello spazio e nel tempo qui sulla Terra?

(3 – continua)

Giovanni Mongini