UBIK & ASSOCIATI

Difficile trovare un libro che, almeno all’epoca della sua pubblicazione inserito nel mare magnum della letteratura di genere, sia stato capace di offrirmi una reale percezione della morte, come pochi romanzi con la “R” maiuscola sono stati in grado di fare. Anzi, a dirla tutta, per me nessuno c’è mai riuscito meglio, perlomeno non nel restituirmi la materialità dell’evento finale approfittando con astuzia del semplice invecchiamento, iperbolicamente riveduto e corretto per fini letterario-filosofici.

Al problema centrale e inconcepibile Ubik (di Philip K. Dick, ndr) arriva con la leggerezza tipica del genere d’intrattenimento, talvolta scherzando col lettore, per esempio quando tratteggia gli abiti di alcuni personaggi forse per stemperare una tensione sempre più palpabile nel testo mano a mano che procede: “Tozzo e panciuto come un mattone di campagna, con indosso il suo vecchio poncho di pelo di capra, un feltrino color pesca calato sul capo, calzettoni tirolesi e pantofole persiane costosissime”; o anche: “Indossava calzoncini alla zuava verde pisello, calzettoni grigi con nappine, una camicia senza collo in pelle di tasso, ed un paio di scarpe da ballo alla Fred Astaire”; e infine: “Elegante nei suoi calzoncini in scorza di betulla, un cappio di forca per cintura, e un berretto da capostazione in testa, autentico”. Come possono risultare tragici agli occhi del lettore dei tizi conciati in questo modo? Ve li vedreste voi a monologare col teschio di Amleto in mano, magari con indosso un paio di mutande di foca sintetica? Al massimo possono toccare le vette del grottesco!

Altro metodo utilizzato da Dick per mostrarci l’assurdo, ma questa volta direi proprio quello che riguarda specificamente gli USA, è la satira. Una porta parlante (come se ne possono trovare nei cartoni animati) non si apre argomentando il suo rifiuto con un discorso economico vero e proprio, in tutto e per tutto umano. L’incredulo interlocutore, Joe Chip, si rende conto che “il contratto [d’affitto] parlava chiaro; l’uscio doveva essere pagato ogni volta che si apriva o si chiudeva, era un preciso obbligo contrattuale, non una mancia”. Lo stesso accade anche con la porta di un frigo e con una stanza da bagno che non vuole lasciar scorrere l’acqua gratuitamente… e non mancano neppure armadi funzionanti a monetine: Conapt, questa sì che è domotica d’avanguardia! Una critica all’America fatta da un americano che sembra riprendere la stessa che a suo tempo fece Stendhal: a differenza di quanto accade in Europa, negli Stati Uniti si paga proprio tutto – alla lettera (a dire il vero, da diversi anni a questa parte anche il Vecchio Continente non scherza: per esempio, se non hai soldi, in certe stazioni ferroviarie neppure puoi servirti della toilette… e Stendhal, poi, difendeva la mentalità aristocratica, non certo il welfare). La satira contiene anche un esempio in positivo, diciamo pure “socialista”, nel quale si respira tutta l’aria della data di pubblicazione di Ubik, il 1969, con le sue comuni di giovani figli dei fiori (che purtroppo nel medesimo anno troveranno un’indesiderata pubblicità in negativo con la famigerata Family di Charles Manson e i suoi delitti): “- Lo sa che al Kibbutz è tutto gratis? – rispose Pat. – Gratis! Ma che dice? Questo non è possibile dal punto di vista economico. Che cosa può funzionare su queste basi? Nulla, per più di un mese! – […] – I nostri stipendi vengono versati al Kibbutz, e noi otteniamo crediti in compenso del nostro lavoro. L’insieme di tutti i profitti consente poi al Kibbutz di far prosperare la comunità. Attualmente il Kibbutz di Topeka è in attivo, e da parecchi anni; noi, come membri della comunità, forniamo ben più di quello che ci serve per i nostri consumi, perché ci accontentiamo di poco”. Senza parere, insomma, fin dal principio veniamo addestrati all’assurdità dell’universo di Ubik.

Il mondo di Glen Runciter, come quello di Joe Chip e dei suoi colleghi, ha incominciato un’inarrestabile decadenza e il simbolo di essa è il cambiamento della moneta originaria: si poteva forse trovare qualcosa di maggiormente satirico per criticare il paese più adoratore del denaro in un mondo di adoratori del denaro? La geniale metafora dei soldi ormai fuori corso, oltre essere un trasparente ricordo del mondo antico con i suoi riti funebri che prevedevano due monete sugli occhi delle salme per pagare il traghettatore che avrebbe trasportato le anime dei defunti nell’aldilà, esprime alla perfezione come la nostra mente, piuttosto di piegarsi all’idea che stiamo perendo, ci faccia pensare che siano gli altri a essere morti. Nello stesso tempo, però, ci indica con una censura – per non spaventarci troppo – quello che sta accadendo davvero. Il tutto viene preparato accuratamente lasciando cadere durante l’intero corso del romanzo parecchi indizi sui quali ci soffermeremo più avanti. Adesso però torniamo al nostro dollaro, centro di ogni metamorfosi che compare nel testo: “Mi dispiace signore, ma non posso accettare monete fuori corso – disse il videotelefono, con tono disgustato. – Ma che state dicendo? Da quando una moneta degli Stati Uniti del Nordamerica è fuori corso? – protestò Joe, recuperando la moneta con difficoltà. – La moneta che lei ha tentato di rifilarmi non è un quarto di credito della zecca degli Stati Uniti Nordamericani, ma un reperto fuori commercio coniato a Filadelfia negli Stati Uniti d’America. Ha solo un interesse numismatico – replicò con un certo sfoggio di cultura il videotelefono. Joe guardò la moneta. Sulla superficie ossidata, vi era il profilo a sbalzo di un certo George Washington. E la data, poi! La moneta era di quarant’anni prima. Roba fuori commercio anzichenò”. Ma come dicevamo più sopra, il nostro cervello escogita metodi raffinati per permetterci di continuare con le nostre fantasie: “Posso aiutarla, signore? – chiese un dipendente del Moratorium avvicinandosi con circospezione. Ho visto che il videofono ha espulso quella moneta: posso guardarla? – e tese la mano, dove Joe fece scivolare il quarto di dollaro. – Se vuole vendermela, le posso offrire dieci franchi svizzeri di nuovo conio. La macchina può accettarli -. – Ah, la ringrazio – fece Joe, effettuando il baratto”. Quasi inevitabile, per noi italiani (e senza presumere improbabili filiazioni dirette), il ricordo della magnifica novella di Pirandello “Una giornata” (1935) costruita su di un meccanismo molto simile a quello che regola Ubik sia in superficie che in profondità: “Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise. […] Con maraviglia, anche qui [in una trattoria] mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io sono trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente. Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lì presso. Ci vado, e tutti anche in quella banca mi si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso”. Come nel romanzo di Dick, anche nel caso dell’anonimo io narrante pirandelliano la moneta fuori corso è il fatto macroscopico che indica un’accelerazione della realtà pronta ad accentuarsi sempre di più almeno dal punto di vista del protagonista, mentre la buona disposizione degli altri personaggi nei suoi confronti (nel caso di Ubik il dipendente del Moratorium) appare come una maniera escogitata dall’inconscio per permettergli di continuare a vivere senza eccessivi timori un sogno che ben presto si trasformerà nel mistero per eccellenza (l’interrogativo sul senso della vita).

Non a caso la novella è scritta in prima persona, omaggiando così il relativismo culturale che fu uno dei pilastri filosofici fondamentali dell’autore siciliano: all’epoca, in effetti, era il solo escamotage stilistico possibile, sia pure a livello di agguerriti lettori avanguardisti, per rendere accetta la novità della personalità molteplice. Ubik, invece, è in terza persona, ma il filtro di continuità attraverso il quale la storia viene sostanzialmente interpretata è Joe Chip poiché è il personaggio, insieme a Runciter, attraverso il quale le vicende si svolgono ricostruendosi nella loro (ambigua) interezza.

Il suo capo è apparentemente vivo, impegnato nel compito di entrare in comunicazione con lui e i suoi colleghi, mentre Joe è semivivo, o viceversa, ma l’inversione dei ruoli non cambierebbe nulla poiché in ogni caso essi sono – alla lettera – due facce della stessa medaglia, o – forse meglio – della stessa moneta. Sia pure di rado, con ogni probabilità per evidenziare come tutti i punti di vista siano solipsistici (tratto che in Pirandello rappresenta il culmine del relativismo), entrano in gioco personaggi secondari e comprimari. Quanto al primo tipo possiamo citare come esempio il caporeparto del laboratorio della Runciter & Associati: “Magari Baltimora esiste soltanto quando uno di noi decide di andare a Baltimora”, un’affermazione che suona anche come una frase a metà strada fra la battuta e la constatazione di un solipsismo sociale generalizzato, ormai acquisito e pacifico nel 1969. Fra i comprimari ricordiamo Al, quando lui – e lui soltanto – vede un ascensore ormai decisamente desueto invece di uno in linea coi tempi che sta vivendo. Allo stesso modo, sono di certo soggettivistiche le parti del testo legate all’interiorità a partire dal momento in cui avviene l’esplosione sulla Luna, sottolineate in particolare da Runciter quando offre una sigaretta a Joe e questi scopre che finalmente il sapore di essa è normale: “– Puoi scommetterci, le ho appena comprate dal tabaccaio. Ne abbiamo fatto di strada, dalle sigarette ammuffite e dal latte andato a male – sogghignò Runciter. – È una strada interiore però. Non esterna. È questa la maledettissima differenza – aggiunse col volto cupo”. E siamo daccapo… Possiamo metterla come vogliamo, ma il mondo di fuori esiste al di là di quanto ci piaccia o dispiaccia. E ancora: alla domanda “che cos’è la realtà?” viene data una risposta che la svela a strati: la storia di Ubik appartiene al genere tragico nel senso della retorica medievale, perché parte da una situazione positiva, di apparente chiarezza, per giungere a un gigantesco punto interrogativo ancor più complicato di come ce lo aspetteremmo. “All’inizio i personaggi sono apparentemente vivi sulla Terra. Partono per la Luna dove Runciter muore in un’esplosione. Tuttavia, nei capitoli successivi, il lettore scopre che non è questi ad aver perso la vita, bensì Joe Chip e i suoi colleghi anti-telepati. Lo scrittore confonde ulteriormente le carte in tavola nelle righe finali del romanzo, suggerendo”, attraverso la moneta già citata, ma questa volta decorata con il profilo di Joe, “che Runciter è morto fin dall’inizio. In effetti, nell’ambiente incerto creato da Dick, il lettore può arrivare a chiedersi se i personaggi sono da collocarsi nella semivita e se sono sempre stati parte del mondo di Jory [l’antagonista]. Il lettore può tornare indietro nel libro e trovare diversi indizi che vanno in questa direzione. Per esempio, gli anti-telepati sognano personaggi chiamati Matt e Bill e soprattutto al termine del romanzo Jory dice che il mondo intorno a lui è un prodotto della sua immaginazione e lo prova facendo sparire un personaggio (il dottore)” (Ubik/Guide Study). Se prendessimo per buona quest’ultima ipotesi, torneremmo ancora una volta a Pirandello e ai suoi innumerevoli protagonisti libreschi che possiedono un livello di realtà e di esistenza paragonabile a suo modo a quelli in carne e ossa. Per far due esempi, essi campeggiano tanto ne “La tragedia di un personaggio” (1911) col dottor Fileno, quanto in “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921) con la Famiglia che è protagonista del dramma.

Per riandare invece al dilemma Joe vivo/Joe morto… Runciter vivo/Runciter morto…, Ella dice al primo: – Farai della semivita la tua vita normale. – Se tutta la vita è semivita, in fin dei conti la realtà è ancor più inconoscibile di quanto credevamo e la sua ambiguità è sterminata… Siamo vivi/siamo morti? L’unica cosa veramente certa è che i due mondi – da chiunque siano composti – vogliono mettersi disperatamente in contatto fra loro: “Al – Noi siamo semivivi, Joe. Probabilmente siamo ancora a bordo del Pratfall II. Stiamo tornando sulla Terra dalla Luna, dopo che l’esplosione ci ha uccisi tutti quanti… noi, non Runciter. Lui starà tentando di raccogliere i nostri protofasoni, di convogliarli in flussi. Finora non ce l’ha fatta: lui sta nel suo mondo e noi nel nostro. Sta cercando di raggiungerci, Joe! Ovunque, troviamo le sue tracce, in luoghi scelti a casaccio. La sua presenza-assenza è ovunque e in nessun luogo. […] Runciter, vivo dopo l’esplosione, ha fatto collegare fra loro i cervelli dei componenti della spedizione sulla Luna mantenendoli in uno stato di semivita nel tentativo di contattarli. Tutto fa parte del normale processo di decadimento della semivita”. Quest’ultima riflessione è molto simile alle idee di Julius Evola, che interpreta le cosiddette “presenze” come “forme di vita residuali, destinate esse stesse ad estinguersi a più o meno breve scadenza” (proprio come sta accadendo a Ella) e spiega in questa maniera la percezione di “spiriti” da parte dei medium durante le sedute spiritiche (Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, 1932). Ma lasciamo ancora la parola al narratore dickiano: “La deteriorazione così regressiva del mondo è un’esperienza normale per i semivivi, specialmente negli stati iniziali della semivita, quando cioè i legami empatici con la realtà materica sono ancora fortissimi. L’universo in ritardo, viene catturato dalla mente del semivivo come un residuo di realtà, e tutto viene vissuto come un’esistenza reale, immersa in un ambiente profondamente instabile, a causa di un mancato sostegno energetico delle strutture portanti, specialmente quando molti sistemi mnemonici risultano fusi tra loro come nel vostro caso”, nello stesso modo in cui le mani dei partecipanti a un rito di evocazione si intrecciano su di un tavolo. Non ci pare azzardato, a questo punto, interpretare Ubik come una sorta di seduta spiritica, sia pure tecnologizzata. Gli stessi personaggi di Ella e Jory si possono agevolmente rintracciare nella spiegazione che Evola dà delle porte dell’oltremondo inconsapevolmente abbattute e delle entità altrettanto involontariamente convocate dai medium in balia tanto di spiriti positivi, la moglie di Runciter, che negativi, Jory. Il filosofo romano inoltre sottolinea il fatto che, proprio come accade a quest’ultimo (in grado di interferire con le comunicazioni di Ella perché il “segnale” vitale della donna è più debole rispetto al suo), l’ingresso di entità malvagie nel nostro mondo – con tutte le conseguenze negative che ne derivano anche in termini storici – è fatto tutt’altro che impossibile, naturalmente per chi condivida questa visione metastorica della storia. Con questi motivi, Dick si avvicina a grandi passi agli aspetti gnostico-mistici, peraltro ricorrenti qua e là in tutta la sua esistenza e la sua opera, che in seguito troveranno espressione compiuta nella trilogia di Valis.

“Le mie sigarette con la muffa. Le Pagine gialle vecchie di due anni. La panna che sembrava colla. Il caffè andato a male. I soldi fuori corso. E adesso lei [il cadavere decomposto di Wendy]. Tutta roba vecchia. Il filo comune è la vecchiaia. […] In una sola giornata, siamo passati da una discrepanza temporale di due anni, ad una di quaranta”, come testimoniano anche i videotelefoni ritornati telefoni in bachelite, gli aerei supersonici ridivenuti a elica e le auto del presente rimpiazzate da quelle degli anni Trenta. Così, “domani potremmo trovarci di fronte ad una discrepanza di un secolo”: allo stesso modo, in “Una giornata” troviamo tutti gli elementi che costituiscono e circondano lo smemorato protagonista in preda a un’accelerazione sfrenata (come solo si può ritrovare in 2001: Odissea nello spazio di Clarke, 1968): in un’esistenza all’insegna dell’oblio, la moglie scompare letteralmente dalla sera alla mattina, lui subisce un processo di decadimento fisico immediato nello stesso torno di tempo, ha dei figli (dei quali non conosceva l’esistenza, o forse l’aveva scordata), è molto ammalato ma se ne rende conto soltanto quando sono loro a dirglielo, quei figli che a una seconda occhiata appaiono già invecchiati, sono divenuti genitori e nell’arco di un millisecondo i nipoti si trasformano in ragazzi… mentre il vegliardo, un attimo dopo, è già nonno moribondo colpito da un Alzheimer metafisico. Se è vero che in Dick chi vive in uno stato di semivita vede il mondo intorno a sé deteriorarsi, le basi furono già poste fin dal 1935, anno di pubblicazione del testo pirandelliano.

E Ubik? Come definire evitando le tautologie ciò che si trova dappertutto, ciò che è qualunque cosa (si ricordino i messaggi pubblicitari posti all’inizio di ciascun capitolo)? Demiurgo suona un po’ troppo generico e ieratico, mentre caffè olio lametta da barba sonnifero ecc. ecc. sono definizioni senza dubbio precise ma decisamente riduttive. Forse questo elemento rassomiglia un po’ alla scatola nera così come viene descritta nella teoria dei sistemi di von Bertalanffy: una tale sorta di Proteo non può essere esplorato e forse, anche potendo, non sarebbe necessario. Allo stesso modo del parallelepipedo di 2001, siamo in grado di interpretarlo esclusivamente grazie all’osservazione dei suoi effetti pragmatici di deus ex machina che all’improvviso sfonda le porte in esergo ai capitoli – proprio come uno spirito abbatte le soglie dell’oltremondo – per venire in aiuto al protagonista: nella sua forma di elisir spray è l’unico antidoto contro il decadimento delle persone – e anzi rigenera esse e il mondo. O/E forse è anche un koan che Dick pone sulla nostra strada interpretativa. Completo di annuncio pubblicitario non per renderlo ridicolo, ma realista (ieri in rapporto alla società americana, oggi a tutto il mondo occidentale) e insieme assurdo. Impoetico e inammissibile, per le anime belle, che gli dei siano contemporaneamente dei brand, quando invece per ogni azienda l’ideale ultimo, l’utopia commerciale somma, sarebbe quella di arrivare a far sì che il suo nome evocasse nel consumatore – un consumatore fidelizzato [sic] al punto da esser del tutto dimentico nel profondo di ogni aspetto commerciale della ditta – un simbolo civile e religioso in senso stretto: “Se gli stemmi gentilizi sugli scudi dei due guerrieri non sono agli occhi degli spettatori che i loghi delle marche Kekkoman e Yanmase, questi rappresentano per gli interessati i simboli del loro paese, le sei virtù di Domina o i tre peli del Buddha (mihotoke). Questi clown grotteschi s’impegnano con la più grande serietà in un combattimento mortale in nome dell’amor di patria. Il divario fondato sull’ignoranza [degli attori in rapporto agli spettatori] fa torcere dalle risa coloro [gli spettatori] che vedono questi duelli per quello che sono” (S. Numa, Yapou, bétail humain, 1956): un gigantesco scherzo commerciale chiamato universo.

Gianfranco Galliano