LA FANTASCIENZA VISTA DA UN HOBBIT – PARTE 02

Il Cinema

I ricordi nuotano nella mente a branchi serrati ma, quando li ripeschi uno ad uno più per metterli in fila, più che una schiera ti ritrovi una masnada. Non mi è possibile parlare delle rassegne cinematografiche seguendo un filone critico o temporale, ciò che la memoria mi concede sono fotografie sparse delle varie edizioni che si tennero a Ferrara.

Delle proposte e congetture su come portare la fantascienza nelle sale ricordo il primo dilemma: film nuovi o vecchi? Il cinema aveva già regalato al pubblico “2001: Odissea nello spazio”, ma di certo non ne avrebbe ceduto i diritti di riprogrammazione a poco prezzo. Leggenda narra che fu mia madre a suggerire la riproposizione di tutte quelle pellicole che avevano animato le sale negli anni precedenti, perché la novità non è una questione di tempo, ma di esperienza personale.

Lo stesso concetto lo ritrovai molti anni più tardi, scritto su un cartello in bella vista, alle Pleiadi, in quella che sarà la videoteca di Giovanni Mongini: “Il film nuovo è quello che non avete mai visto prima”. Le idee, quelle buone, sono condivise.

Fu così che molto di quello che aveva caratterizzato la SF nei cinema degli anni ’50 e ’60 tornò a nuova vita nel corso di quegli anni in rassegne settimanali realizzate a primavera inoltrata, in quella che mio padre chiamava “la settimana della fantascienza”, proiettate al cinema Embassy. Dei titoli non ricordo nulla se non “L’astronave del dottor Quatermass”, di cui per contrappasso non rammento la trama. Impressi nella memoria ho invece l’odore del chiuso, la pesantezza dei tendaggi morbidi e rossi che chiudevano la sala in cui mi era proibito entrare e da cui io sbirciavo orde di topi, formiche giganti, mosche che chiedevano aiuto e le facce degli individui sottoposti a esperimenti improbabili.

Negli anni ’70 la parola cinema a Ferrara era indissolubilmente legata a un nome: Azzalli. Questi era il gestore di un gruppo di sale di proiezione sparse per la città: Embassy, Apollo, Apollino, Alexander, Mignon. Aveva il suo studio all’Apollo, la sala in centro storico. Le piccole porte di legno e vetro si aprivano, allora come adesso, su un grande ingresso sovrastato da un’ampia scala elicoidale che nel suo percorso pareva omaggiare un immenso lampadario centrale, che dal soffitto si spingeva quasi a toccare il pavimento. Una volta percorsi gli ampi gradini mi ritrovai un giorno in questa sala dalla grande scrivania di legno attorniata da pareti con foto e manifesti di ogni dimensione che attrassero la mia attenzione, molto più che i discorsi che si tennero. Le sale che alla fine Azzalli diede ad “Altair 4” furono due: l’Embassy per le rassegne, e l’Apollo per le premiazioni.

Ferrara, più che essere coinvolta, fu letteralmente invasa. Gli abitanti di una città di provincia negli anni ’70, come la mia, pensavano all’appetibilità degli eventi a cui partecipare in base ai metri (davvero, non chilometri, metri) che separavano la manifestazione dalla Piazza, rigorosamente con la maiuscola. Come portarli all’Embassy, una sala che per i criteri dell’epoca non era proprio centrale? Fu così che una notte un gruppo di trentenni tappezzò i marciapiedi di corso Porta Po e vie limitrofe di grandi orme verdi, dalla pianta pesante e dalle poche dita, che diligentemente si fermavano davanti all’entrata del cinema. Senza nessuna autorizzazione, ovviamente, fedeli al motto di cui vi ho già parlato, e convinti che, se non fossero stati colti sul fatto, nessuno in fondo avrebbe potuto accusarli. Che dire? Incredibilmente, andò davvero così. Per pubblicizzare l’evento venne anche posizionata nella piazza centrale un’opera di Rambaldi: un’enorme mano blu con al centro un piccolo piano d’appoggio, su cui poteva stare un uomo in tuta spaziale.

Se finora vi ho tinteggiato Ferrara con i toni grigi della nebbia che le è propria, non pensate che, qui come altrove, non appaiano lampi improvvisi e magnifici di rossa goliardia. Così accadde che la grande mano si ritrovò una mattina a omaggiare i cittadini con il gesto scaramantico più comune. Ricordo che risero tutti, compreso mio padre, apprezzando l’ingegno e la tenacia di chi aveva deciso di passare una notte a segare le mastodontiche dita. Vennero preparati anche blocchetti di sconti per le entrate, da spargere un po’ in giro, verdi, come le orme. Ricordo ancora il giorno in cui entrai a scuola, alle vecchie elementari, la gioia che provai nel condividerlo coi miei compagni. La fantascienza si era già fatta strada nei loro cuori. All’interno di alcune classi, compreso la mia, era infatti partita poco prima un’iniziativa legata ad un concorso di disegno, con tanto di attestato e medaglia per il primo classificato. Bambini dagli 8 ai 10 anni si erano impegnati a realizzare robot, astronavi, mostri melmosi e pianeti, prendendo spunto soprattutto dalla propria fantasia, non avendo ancora intorno un immaginario ben definito e commercializzato a cui affidarsi. Non vinsi, ma fui contenta lo stesso: per un breve periodo i discorsi con i miei coetanei furono meravigliosamente piani e allineati.

Durante un’edizione, in cui venne premiato Rusconi per la pubblicazione de “Il Signore degli Anelli”, l’entrata del cinema Embassy si trasformò in uno scorcio della Terra di Mezzo attraverso le abili mani di Minghetti, l’artista del polistirolo. Questo materiale modificò le rientranze laterali, che stavano prima della lunga tenda rossa, in un angolo di Minas Tirith, e dall’altra parte nella grotta dove Bilbo trovò l’Anello. Da quest’antro Gollum lanciava la sfida degli indovinelli. All’epoca erano talmente poco conosciuti che venne messa in palio l’entrata gratuita ad ogni film della rassegna per chiunque li avesse indovinati tutti. Solo uno ci riuscì.

(2 – continua)

Elisabetta Marchi