DEMON WITH A GLASS HAND

Trent è un uomo che non ricorda i suoi ultimi 10 giorni. La sua mano è stata sostituita con una di solo due dita, artificiale e trasparente, ma che è in realtà una specie di computer che gli comunica che solo aggiungendo le altre tre dita avrà le informazioni di cui ha bisogno. Ma queste dita sono in possesso di un gruppo di alieni, detti Kyben, che lo inseguono per ucciderlo. Solo sopraffacendoli, Trent può ottenere queste dita e scoprire la verità. Rifugiatosi in un palazzo abbandonato insieme a una donna incontrata per caso, Consuelo, Trent poco alla volta scopre una verità da cui può dipendere non solo la sua sopravvivenza, ma quella del genere umano…

The outer limits è una serie televisiva antologica, sulla falsariga di Ai confini della realtà, prodotta dal network americano ABC dal 1963 al 1965. Demon with a glass è il quinto episodio della seconda stagione, trasmesso per la prima volta il 17 ottobre 1964 e nasce dall’incontro di due talenti spiccati e singolari: lo scrittore Harlan Ellison e il regista Byron Haskin.

Il primo era un giovane scrittore di fantascienza di belle speranze, che aveva già scritto la sceneggiatura di un precedente episodio di The OuterLimits, intitolato Soldier.

Trent è un tipico alienato personaggio alla Ellison, più che fuori luogo, fuori universo, al punto da non sapere neanche quale sia il suo. Tutto il copione ha una struttura solida e avvincente, una costruzione sapiente e una suspense crescente. Ma non avrebbe la stessa efficacia senza l’ispirata regia di Byron Haskin.

Haskin è uno di quei registi solitamente classificati come “mestieranti”, magari di serie B. All’epoca però aveva già diretto tre film per il produttore George Pal, specializzato nella fantascienza, e ne avrebbe diretto in quarto nel 1969. Con Demon with a glass hand, Haskin sa dare un piglio espressivo di grande forza e personalità. Alle immagini in bianco e nero dà una luce di sapore persino espressionista, creando finezze stilistiche di grande effetto e soprattutto un’atmosfera allucinata e tesa, angosciosa ma anche ispirata e intensa. Il film è in gran parte girato al Bradbury Building, un palazzo gotico di Los Angeles, i cui interni sono sfruttati al meglio, diventando quasi un personaggio a sé, misterioso e avvolgente. Per inciso, è lo stesso palazzo che vediamo nel finale di Blade Runner.

Non mancano le goffaggini tipiche dei telefilm d’epoca: nelle scene di lotta Trent sconfigge i suoi avversari con disarmante facilità e l’aspetto di questi – occhi gonfi di mascara e calza di nylon in testa – non è certo nè futuribile nè inquietante.

Indimenticabile il finale, sia per il colpo di scena ideato da Ellison, sia per le impressionanti scelte visive di Haskin, come la splendida inquadratura delle mani che si ritirano o l’immagine di Trent fisso come una statua in cima alle scale.

Un simile risultato da parte di un regista di solito considerato di serie B non sorprende chi conosce e ammira la forza drammatica di La guerra dei mondi (“The war of the worlds”, 1953), la ricchezza pittorica di La conquista dello spazio (“Conquest of space”, 1955), le atmosfere allucinate di La forza invisibile (“The power”, 1969).

Il protagonista è Robert Culp, un attore di cui Harlan Ellison era amico personale e fu lo scrittore a volerlo per la parte di Trent. Di lui Ellison disse che era molto più intelligente di gran parte degli attori.

Mario Luca Moretti