LE METAMORFOSI DELLA STREGA DI BLAIR

Ultimamente sto cercando qualcosa, anche se non saprei dire cosa.

Credo, tuttavia, che sia un buon criterio quello di non abbandonarsi a un metodo retrospettivo e continuare a provare soluzioni in assoluta libertà.

Mi riferisco alle ultime cose mie apparse sulla Zona.

Articoli in cui provo a trovare un filo (personalissimo e parziale) in ciò che ho/abbiamo visto (e letto) negli ultimi dieci/quindici anni; un filo che possa servirci per capire cosa ci riserverà il futuro.

Ripercorrendo la strada di quegli ultimi articoli, mi accorgo di aver tralasciato importanti direzioni, ahimé.

Un sentiero su tutti è quello di La strega di Blair, film di Daniel Myrick & Eduardo Sanchez.

Cominciamo andando a rileggere alcune note sul film contenute in una monografia dedicata al cinema in “POV (Point of View)” pubblicata dalla rivista “Nocturno” e scritte dal critico Davide Pulici: “The Blair Witch Project è un film epocale. La rivoluzione del cinema alle soglie del terzo millennio. (…) Gran parte del cinema che oggi si fa, in America o nel resto del mondo, dipende in ultima analisi da questo mockumentary”.

Potrebbe bastarci.

Se in Strade perdute, Lynch tracciava un percorso troppo personale (sul quale nessuno lo avrebbe seguito, tranne forse il Rob Zombie dell’ultimo cupissimo Le streghe di Salem), la strega di Blair è veramente alla base degli ultimi 15 anni di cinema mondiale. Personalmente tralascio completamente la strategia (geniale) di marketing. Ciò che mi interessa è l’archetipo alla basa del film, perché c’è ancora molto da spiegare sulla strega prima che il mondo abbia delle idee chiare in proposito. L’archetipo, ossia il manoscritto originale della strega.

Myrick & Sanchez, squisiti fantasmi dell’autorialità, bucano il loro film con una presenza/assenza potentissima e stordente. Lo ricordo sulla pelle, quando, in sala, al cinema Viotti di Vercelli, lo stesso del kolossal dopato Rocky IV, la visione della pellicola ci incollò alle poltrone, scorticandoci l’anima, incuneando nel profondo una paura magica e irrazionale (avevo già i miei bei 25 anni) che è la prima consapevolezza della cruda verità nascosta nelle fiabe.

I due registi americani capiscono come Val Lewton che non mostrare nulla è più terrificante di qualunque mostro di gomma o CGI. I due americani sono come Lovecraft, si limitano a darci un’idea della direzione presa; la libertà assoluta a cui ci abbandonano è la Fata Morgana della paura, una parentesi che ognuno di noi riempirà con la sua sensibilità. Il film (o tutti i film) sono teatro. E il teatro è gioco, ossia allusione laica al rito, ai riti antichi. E ogni rito è un tentativo di metamorfosi, ossia cambiamento e trasformazione di uno stato dell’essere, fuga, ribellione da ciò che è impossibile sconfiggere. Quindi mimesis del gioco. Gioco, danza. La danza del quotidiano di Heather, Joshua e Mike (i tre personaggi-attori del film) comincia nei loro appartamenti, anonimi e piatti come le loro personalità. Scorci appena intravisti, gestualità consumate come quel salutare sulla soglia la propria madre (Mike), come la spesa standard (marshmallows) nel market. Poi, la danza del film, al posto della lira, dei cembali, propone Coffinrock, la leggenda dei bambini sgozzati, i corpi decapitati. Il corteo (i risolini nel dietro le quinte) di Heather, Mike e Joshua, la loro turbolenta gazzarra scortica i nervi del paesino provinciale (identico a quell’altra provincia lynchiana). Volti borghesi (il vecchio, la donna con la bambina, la vecchia pazza, il ragazzo, l’operaio, la commessa) disturbati dal komos del corteo bacchico di Heather, cocciuta cacciatrice di fantasmi e dicerie/pettegolezzi. Poi il corteo dei tre riprende e ruzzola ai margini della provincia, scivola verso il niente del bosco, verso un mare vegetale indifferente e ostile ai canti osceni della vita. La physis è tutta qui. L’illuminazione è data dalla capacità di cogliere il fallimento dello sguardo contemporaneo sulle nostre paure più ancestrali. Tutti i primi minuti, gai, si sciolgono con l’impatto del mare vegetale, una realtà fisica e mentale che subito ci connette col mondo oscuro, ctonio, delle fiabe. Il bosco è chaos ribollente, magma di folklore, scena pre-umana della superstizione pagana. La nuova skené ingoia e occupa lo schermino. Una soglia da e per il nulla.

L’aspetto sapienziale del film è quello del filosofo conscio dell’ineluttabilità del male. Il corteo dei tre smette i versi acustici della gazzarra e sprofonda nel chaos primordiale. La testa di Heather che si confessa e smoccola dal naso è una maschera (incorporata a una videocamera) e le maschere sono (per gli antichi) teste di morto, teste di morto che parlano. La sapienza della morte, nel film, è la strega, ovvero colei che vive oltre l’umano e che non possiamo capire e nemmeno percepire, vedere, forse solo immaginare (i racconti di coloro che l’hanno intravista appena). Luoghi di passaggio (simbolici) scandiscono la linearità narrativa del film, luoghi (la skené del bosco, la casa diroccata, il cimitero, i trulli) in cui il mondo semi-reale e il mondo semi-immaginario si toccano e si confondono. La maschera (del film) ci connette col mondo dei morti, dicevamo. La casa finale nel bosco è il limen terminale, casa collocata ai bordi tra il territorio divino e il territorio umano. E il luogo in cui si coagulano le figure di tutte le tragedie. Il tiranno, l’eroe, il vecchio. Oltre la soglia è nascosto il tesoro sapienziale. Sotto i tenebrosi recessi della terra, tra le sue spire immense sono custodite le pecore tutte d’oro. Heather, Joshua e Mike inseguono il corteo dionisiaco. Provano a travestirsi, evocano un rito di passaggio e il film, il cinema è il loro lamento. Alla fine resta l’amara, atroce conferma della loro (della nostra) condanna. Lo schermo traballa, il rec si rompe, la luce in sala ci inonda e noi muti respiriamo con dolore. Il teatro/film è finito, l’illusione spezzata: l’unica possibile libertà che ci resta è la più feroce da accettare… Sileno/Blair, maschera del non detto, del nascosto, ghigna beffardo: ogni metamorfosi, ogni fuga è impossibile. La strega (o un chupacabras?!?), prima o poi, ci prenderà con sé. Faccia al muro.

Davide Rosso