STRADE PERDUTE NEL RACCONTO (DI GENERE) CONTEMPORANEO

Da leggere ascoltando Bitches Brew e

Get up with it e Godard/Spillane di Zorn

Vorrei riprendere alcune considerazioni scritte negli ultimi articoli.

Mi riferisco, in particolare, a quelle contenute ne IL PUBBLICO DELL’ORRORE.

Vorrei metterci sopra il cappello.

Si diceva.

Cosa abbiamo visto di nuovo in questi ultimi dieci anni?

Negli anni zero?

In questo incipit di anni dieci?

A mio avviso, pochissimo.

E quel poco di originale, sempre a mio modesto avviso, presenta caratteristiche comuni.

Ne IL PUBBLICO DELL’ORRORE si parlava di Rob Zombie e del suo I reietti del diavolo.

Si parlava anche del noir.

Quello francese.

Film come L’ultima missione.

Altrove, ESTASI DEL PECORECCIO, ho aggiunto un film come Gozu di Mike Takashi, oppure il bruttissimo (e interessantissimo) Corpses are forever dello sconosciuto Jose Prendes.

Adesso potrei aggiungere un’altra manciata di titoli.

Non è un paese per vecchi dei Cohen.

Strade perdute (o Mulholland Drive, ma preferisco parlare del primo) di Lynch.

Cos’anno in comune questi lavori?

Il non essere (più) facilmente etichettabili.

Di non essere più rinchiudibili dentro una etichetta, dentro un genere prestabilito.

Questi testi mescolano i codici, gli archetipi e finiscono per perdersi dentro se stessi.

Molti di questi testi sono aperti, non chiudono, non si esauriscono alla percezione dello spettatore.

Molti di questi testi non sono facilmente interpretabili, o forse non lo sono affatto.

Molti tra questi testi giocano a forzare i confini di appartenenza, quasi sempre il noir e l’horror, due generi che finiscono per deragliare l’uno dentro l’altro.

Noir e horror.

Noir, come genere mutante, ibrido, forse il più sfumato, inafferrabile tra i generi e, per questo, uno dei più interessanti e fecondi.

Strade perdute di Lynch è stato un testo capitale, così Mulholland Drive.

Lasciamo perdere i significati (se ce ne sono).

Guardiamo (o leggiamo) questi testi col cuore più che con la mente.

Assaporiamone le sensazioni.

Noir e horror.

Perché questo binomio?

Il film noir è un tipo di discorso definito più dal tono che dal genere, più dal modo in cui si racconta che da quel che si racconta. Contrariamente a quel che si pensa, non è necessario parlare di gangster americani per avere un racconto noir. Noir è Flannery O’Connor. Noir è certo esistenzialismo francese. Noir/horror è Gli Incendiati di Antonio Moresco, romanzo al di là delle definizioni e degli editing. Noir/horror è Oceania Boulevard di Marco Galli. Noir/horror è Partenze Notturne di Stephen Wright. Il noir classico ha preso influenza/ascendenze dall’horror espressionista degli anni ‘20, dall’horror americano degli anni ‘30 e dal surrealismo. Noir e mutamenti economici (le grandi depressioni della storia, le grandi crisi) per disegnare i contorni di un sentimento sotterraneo fatto di incertezza e precarietà (il ‘29, come questi anni). La messa in scena del noir è simile a quella dell’horror (l’uso delle ombre, le riprese angolate, il contrappunto musicale a sottolineare i vari momenti del racconto, la camera in movimento): l’atmosfera onirica del noir (e del terrore) spinge sul verosimile, restringendolo, portando l’identificazione dello spettatore in un territorio dominato dalle tensioni e dai simboli psicanalitici (traumi, perturbante) – allo stesso modo, l’horror può anche essere scevro da queste pulsioni del sub-cosciente e presentare una sintassi emozionale minima, giocata sulla superficialità dei significati, penso al Corpses di Prendes, follia visionaria collassata tra un hard boiled alla Chandler e uno zombie movie alla Romero.

Il noir (e certo horror atmosferico) trova nel sogno una griglia narrativa che lo allontana dalla concretezza dell’action e dalle sue conseguenze (razionalità, logica, un colpevole da inchiodare, un senso che deve tornare, un messaggio – pensiamo a Lynch, autore che, nell’ultimo, grande!, segmento della sua carriera ha girato le sue opere più libere e totali, dei film sperimentali di massa, lontanissimi dal pubblico dei popcorn movie; pensiamo anche ai Cohen di Non è un paese per vecchi, noir sul destino, imprevedibile, sfuggente, poco conciliante). L’architettura del noir classico era già cosi, voglio dire, non è che Lynch, da questo punto di vista, abbia inventato nulla. Il noir degli anni ‘40, quello americano, era pura astrazione della forma, una rarefazione semantica tra la veglia e il sonno, tra il giorno e la notte. Film come Lo sconosciuto del terzo piano, La settima vittima (già lynchiano, già ibrido horror/noir, già oggetto non identificato), Detour, La notte ha mille occhi, sono tutti film in cui la sospensione del tempo e dello spazio narrativo è pienamente realizzata. Il tempo che scorre confondendo i piani della narrazione (flashback, lunghe attese affinché capiti qualcosa, racconti compressi in un arco temporale che spesso ricalca le 24 ore della giornata, oppure le trascende, scivolando in un inland empire della mente) e fabbricando uno spazio claustrofobico e opprimente. I boulevard del noir sono popolati da un universo mutante di personaggi simili a quello dell’horror (ovvero doppi, menzogneri, traditori). Mentre i luoghi privilegiati di questi boulevard sono i bar, le strade mal illuminate, i crocicchi, i non luoghi anonimi di passaggio come le eterne pompe di benzina nel deserto o nel cuore della City o in una provincia sperduta.

In fondo, il noir è un viaggio-archetipo che ha più direzioni e che, al contempo, non porta necessariamente ad alcuna destinazione (ancora Lynch o l’ondivago e durissimo L’ultima missione di Oliver Marchall). I temi del noir (e dell’horror?) sono (copio dal bellissimo libro della Taschen curato da Silver & Urini, Noir) appunto: il fantasma del passato, ovvero un ricordo, una colpa, un trauma rimosso che torna a galla e ci rovina la vita (Cornell Woolrich, in questo, è stato ciò che Lynch è stato per il cinema contemporaneo – e che dire di Jim Thompson e del suo immenso Notte selvaggia, testo sfuggito di mano al suo autore, post noir/horror che deflagra nel finale in una specie di Beckett d’incubo afasico e disarticolato); il fatalismo, la casualità degli eventi (e qui l’horror ne ha poco, visto che tende a essere più squadrato e prevedibile, con la solita verginella degli slasher che si salva dal maniaco calvinista di turno e la puttanella che finisce affettata dal fallo-coltello); la femme fatale, la donna Lilith disposta a tutto pur di non giocare un ruolo subalterno rispetto al maschio – è la femmina predatrice, bramosa di potere, dotata di una irresistibile capacità ammaliatrice (di queste figure, doppie, ne è pieno anche l’horror e il thriller).

I testi (filmici) che abbiamo citato sopra, sostanzialmente, operano una fusione tra questi due generi, generando dei percorsi narrativi degeneri, alternativi, se vogliamo, spiazzanti, inconcludenti. Per tornare all’inizio, e al PUBBLICO DELL’ORRORE, credo che il poco di nuovo che si è prodotto nell’ultimo decennio, abbia a che fare con questo discorso, con questo tentativo di sabotare (e allargare) i confini dei generi, forse per superarli definitivamente.

In futuro avrà ancora senso chiedersi se un film è un horror o un noir o un poliziesco? Forse. Certo, lavori come Gozu, Strade perdute, I reietti del diavolo, Non è un paese per vecchi non se lo sono posto. Poi, se vogliamo, possiamo anche accontentarci e vederci l’ennesimo reboot o remake dell’ennesimo film anni Settanta di Craven, Cronenberg, Carpenter, Hooper e Romero. A ognuno la sua strada. Io preferisco quelle perdute. Preferisco le deviazioni, i detour, le fughe, i falconi, i boulevard. Preferisco l’incertezza e la provvisorietà, perché mi raccontano più del citazionismo tarantiniano, più del buonismo delle fiction, più del presuntuoso cinema d’autore.

Preferisco l’incertezza e la precarietà, perché mi ricordano il mondo nel quale vivo.

Un mondo in cui le ingiustizie hanno vinto e a noi non resta altro che portare a termine l’ultima missione, consapevoli che non basterà per aggiustare le cose, consapevoli che sarà solo un fuoco di paglia.[1]

Un detour prima della partenza finale.

Una partenza notturna con della buona musica jazz in sottofondo e la sola striscia bianca della carreggiata illuminata dai fari dell’auto…

Davide Rosso (con la collaborazione amichevole di Daniele Vacchino)


[1] …quanto alla strage degli Ugonotti, metterò in lista tre libri da leggere. Ora mi interessa ben altro. L’ozio è il grande tema che serve alla società di oggi. Ho trovato finalmente autori che mi fiancheggiano nelle mie teorie anti lavorative e anti societarie. Il tema del lavoro, lo ridico, è il vero cuore per la nostra società. Mai adeguatamente affrontato, mai sufficientemente deriso. Lafargue e il suo diritto alla pigrizia lo trovo uno dei capolavori della saggistica dell’ttocento. Dei classici ammiro l’assenza di forma e il coraggio per tirare dritti all’idea. La costruzione dei personaggi, i generi, la moralità diffusa sono ossessioni ottocentesche che il mondo capitalistico, la struttura cattolica e la morale cristiana hanno imposto, fronte società, Manzoni e i veristi – romantici hanno assunto a dogma, lato letteratura. Il mondo classico è invece fortemente pre-aristotelico, se ne fotte della verosimiglianza, delle congiunture spazio temporali, dell’adesione al canone. Quel che conta sono le idee. La capacità di andare dritti al punto.

Paradossalmente, il mondo post moderno da Gozzano e Montale in poi ha saputo riprendersi dai fiumi di pagine di Balzac e Manzoni, ha fatto riconfluire la forma letteraria sotto l’egida dell’esigenza ideologica. Merimee, gli va dato atto, era un precursore, un letterato capace di sfuggire alle lungaggini borghesi. E’ poi con i post moderni però che si giunge alla complicazione dell’astratto semplicistico e geniale classico. Calvino destrutturerà la forma classica per far subentrare il dubbio contemporaneo. Con lui Buzzati e tutta la linea dei post che arriva, a mio avviso, fino a Tiziano Sclavi e al suo diario psichico – resoconto di omicidio.

Dobbiamo tornare al pamphlet e al racconto breve, recuperare la sintesi del mondo classico, bruciare le pagine inutili e, soprattutto, RIFIUTARE LA STRUTTURA IPERPRODUTTIVA DEL ROMANZO BORGHESE, copia della sovrapproduzione capitalistica e della dispersione di significato. No al romanzo fiume, no ai generi codificati.

Ho finito la mia predica da pazzo invasato.