VAL LEWTON, IL GIARDINO DELLE OMBRE

L’uomo dietro a classici film come “Il bacio della pantera” e “Il giardino delle streghe” non è un regista né uno scrittore, ma un produttore, nello specifico, uno dei più creativi e originali che il cinema abbia mai conosciuto. In meno di un decennio di attività che va dal 1942 al 1951, l’inarrivabile Val Lewton (1904-1951) ha rappresentato il vero fuoco creativo dietro a ogni progetto cui abbia messo mano, delineando una figura innovativa in cui il ruolo del regista e dello sceneggiatore si fondono con quello del producer. Un caso più unico che raro, in grado di mettere in crisi quella “politica degli autori” per cui il cineasta firmatario sarebbe l’unico artefice del film.

Di recente distribuzione, il volume “Val Lewton, il giardino delle ombre” (Profondo Rosso Edizioni) di Marco Chiani esamina la parabola di questa personalissima figura che riuscì a mettere in salvo la gloriosa RKO – in seguito al fallimento commerciale di due capolavori wellesiani come “Quarto potere” e “L’orgoglio degli Amberson” – con una manciata di pellicole a basso budget, inaugurando inoltre una nuova via al fantastico. Alla visione diretta dell’orrore dei vecchi mostri della Universal si oppone, infatti, la costruzione di un mondo fatto di sussurri e minacce, di ombre e aperture verso il baratro, sancendo la nascita di un orrore più adulto e raffinato, che nei migliori titoli – “Ho camminato con uno zombi” e “La settima vittima” – sconfina addirittura nel metafisico.

Scrive l’autore: “Ad un solo anno da L’uomo lupo (The Wolf Man, Waggner, USA, 1941), estremo e fiacco tentativo di dare una nuova direzione di rotta al genere, arriva nelle sale Il bacio della pantera.

E’ una rivoluzione. Che incupisce ancora di più l’ombra, rendendola più lunga, più sinuosa. Primo di undici titoli a basso budget messi in cantiere dalla RKO per pareggiare il bilancio della società in seguito ai fallimenti commerciali di due capolavori come Quarto potere (Citizen Kane, Welles, USA, 1941) e L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, Welles, USA, 1942), appare per più motivi come il simmetrico ribaltamento della formula horror messa a punto dalla Universal, tutta giocata sull’esteriorità e sull’effetto immediato. Nonostante – almeno nelle intenzioni del responsabile della produzione Charles Koerner – il modello da seguire dovesse essere proprio quello dei Dracula e dei Frankenstein, la pellicola è frutto di un team per nulla incline ad emulazioni di sorta, il pionieristico lavoro un’agguerrita e irripetibile squadra di registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, attori e tecnici che preferisce il sussurro al grido, camminando su un fosco sentiero fatto di suggestioni e ambiguità”.

E poi ancora: “…Lewton accumula un enorme bagaglio di conoscenze oltreché quella rimarchevole fama per cui riceverà una vantaggiosa offerta di lavoro dalla RKO, allora definita la più piccola delle majors. Per quanto riguardava le pellicole horror che il produttore avrebbe dovuto affrettarsi a mettere in cantiere con una squadra di collaboratori più o meno fissa, il manager Charles Koerner fu chiarissimo, esponendogli le limitazioni dentro alle quali avrebbe dovuto lavorare: 150.000 dollari di costo, durata non superiore ai 75 minuti, titoli scelti in base al gusto del pubblico. Al di là di ciò, la più ampia libertà.

Nasce così uno dei cicli più straordinari del cinema americano classico in cui l’horror si mischia al noir, al thriller, al mystery fino al racconto storico o di denuncia sociale. In meno di cinque anni alla RKO, Lewton rivoluzionerà per sempre la rappresentazione della paura sulla schermo, partendo da un presupposto semplice quanto geniale: l’orrore profondo è già nella mente e negli occhi di chi guarda, basta solo tirarlo fuori. E un’ombra può bastare”.

Tornando al volume, dopo una prefazione di Dario Argento e un’ampia introduzione di Rudy Salvagnini, il testo di Marco Chiani segue cronologicamente l’attività di Lewton, analizzando, nel dettaglio, ciascuna pellicola prodotta. Dal basso budget della RKO al fallimentare approdo alla serie A, si delinea la fisionomia di un autore e di un’agguerrita squadra – indicativamente nota col nome di “Snake Pit Unit” – di registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, attori e tecnici come Jacques Tourneur, Robert Wise, Mark Robson, DeWitt Bodeen, Nicholas Musuraca, Kim Hunter o Simone Simon. Completano il volume il racconto di Ambrose Bierce alla base di “Il bacio della pantera”, saggi di Luigi Cozzi, Antonio Fabio Familiari e Christian Oddos.

Da non perdere.

A cura della redazione