PETER KURTEN: DA FRITZ LANG AGLI WHITEHOUSE

Nel 1913, il ventitreenne Fritz Lang e il trentenne Peter Kurten videro lo stesso film, Lo studente di Praga di Stellan Rye e Paul Wegener, del tutto ignari del destino che li avrebbe accomunati. Il primo ben consapevole della differenza fra arte e vita e il secondo pronto invece a eccitarsi, fatto sul quale torneremo più avanti usando le sue stesse parole, persino alla vista di primitive ricostruzioni d’incidenti che colpivano i personaggi di una pellicola. Entrambi, tuttavia, vennero sedotti, e sia pure per ragioni differenti, da uno dei temi più ricorrenti del fantastico che quell’anno per la prima volta fece la sua apparizione al cinema: il doppio, incarnato dall’immagine allo specchio che il protagonista Balduin, secondo una ricetta già ben collaudata in epoca romantica, venderà al diavolo. Nel 1931 Lang sfrutterà il concetto con una buona dose di realismo per M, il mostro di Düsseldorf, (girato tra gennaio e marzo), mentre Peter Kurten, svelato al mondo il suo alter ego di Vampiro, sarà ormai pronto per l’esecuzione capitale (che avverrà il 2 luglio). Il primo aveva concluso il suo capolavoro, il secondo la sua strage. Ma stavano fianco a fianco sulla pagina dello stesso giornale e non si sapeva bene quale dei due pubblicizzasse l’altro.

Come se fosse un estraneo a parlare con la sua voce, il camionista si lasciò sfuggire in un rauco bisbiglio: “Sì, sono io… Il Vampiro… Io, Peter Kurten…”. Poi, con voce monocorde, con la stessa espressività che si potrebbe usare leggendo un elenco telefonico, confessò di aver cominciato ad ammazzare a nove anni affogando due bambini che stavano facendo il bagno con lui nelle acque del Reno: motivi? All’inizio troppi: senza un preciso perché, per il piacere di farlo, per sapere come si sarebbe sentito dopo… ma innanzitutto, e qui veniamo al dunque, per la volontà di far paura agli altri come suo padre aveva terrorizzato lui e tutta la sua famiglia, anzi con lo scopo di diventare un mostro di dimensioni ancora maggiori. Cosa che purtroppo gli riuscirà perfettamente. Come spesso accade quando parliamo di pluriomicidi, infatti, ci troviamo di fronte a qualcuno che, subendo la violenza da bambino, proprio per questa ragione non può che reinterpretarla generalizzandola in una forma acritica: quindi non rifacendosi – o rifacendola – nel caso specifico sul proprio padre (come potrebbe accadere a un adulto dotato di capacità intellettuali rielaborative), bensì su chiunque gli capiti a tiro, sul genere umano intero come ci dicono le sue vittime, disparate per sesso ed età. Il triste canone viene rispettato anche da Peter.

La famiglia Kurten, composta da dieci persone, viveva in una baracca alla periferia di Colonia alla mercé delle violenze d’un genitore ubriacone e violentissimo, che sottoponeva a veri e propri stupri la madre dei suoi figli dinanzi a essi. L’unico a tenergli testa era Peter, fisicamente più forte dei suoi fratelli e in grado di sopportare le torture (il termine non è iperbolico) a cui veniva sottoposto, ma anche incapace di avere un modello diverso dal genitore; o peggio, l’unica forma di bovarismo che conoscerà in gioventù sarà quella di Jack lo Squartatore, l’eroe favorito delle sue letture di galeotto. Il piccolo non venne neppure favorito dalle amicizie: conobbe infatti una sorta di accalappiacani squilibrato che lo iniziò alla tortura degli animali e ai rapporti sessuali con essi. Compianto per le continue vessazioni che andava subendo in casa, a quanto pare un giorno bevve il sangue di un’anatra offertogli da una vicina venutagli in soccorso preoccupata per il suo pallore… ma la sollecitudine della donna si trasformò in ben altro: “Da quel momento la sete del sangue mi ha sempre reso febbricitante”. Per sua stessa ammissione, da allora tutto cambiò: di notte partiva alla caccia di animali, piccoli o grandi che fossero, da vampirizzare dopo averli utilizzati come oggetti sessuali. Si scoprì afflitto da vampirismo clinico (ematolagnia), parafilia caratterizzata dall’eccitazione sessuale perlopiù associata a un bisogno incontrollabile di vedere, tastare o bere sangue. A dieci anni vide per l’ultima volta suo padre, arrestato dai gendarmi per aver violentato la propria figlia. Finalmente libero, fu il delirio totale. Come primo approccio al genere femminile, Kurten violenta le proprie sorelle e quindi cerca di portarsi a letto una sua compagna quindicenne: ricevendone un rifiuto, per poco non la uccide; ritenta il giorno successivo e, quando il padre della ragazza lo affronta, gli spara cinque colpi di pistola… mancandolo incredibilmente! Il resto della sua giovinezza è un vagare, finalmente lontano dal suo quartiere, di ladruncolo e piromane recidivo che lo porta a scontare parecchi anni di prigione.

Poi arriva il 1914 e la guerra: la sorte decide di lasciare che Kurten s’imboschi nella tranquillità delle retrovie, dove resta lontano dal crimine fino al 1925. Sembrerebbe ormai un uomo nuovo: un operaio come tanti altri, ma il suo doppio vampiresco sta invece per mostrare una volta per tutte i denti acuminati. In una serata torrida, al ritorno dal lavoro vede un ragazzino addormentato: non può staccare gli occhi da quel collo che sembra offerto proprio a lui: senza esitare – senza bisogno di alcun nuovo allenamento criminale, ma obbedendo con sinistra naturalezza al suo istinto di predatore solo assopito – entra dalla finestra e lo accoltella. A questo punto della confessione, Peter diventa un fiume in piena e rivela di aver commesso ben ventinove crimini fra assassini e tentati omicidi di fronte ai quali i poliziotti restano perplessi e increduli. La serie si realizzò tra il 1929 e il 1930. Durante un furto venne sorpreso da una bambina di dieci anni e la uccise. Poco dopo, ammazzò tre uomini e un’altra ragazzina, che stuprò anche. Il giorno successivo l’uomo tornò sul luogo del delitto e lì provò orgasmi a ripetizione nella maniera più diabolica e incredibile: per raggiungerli gli fu più che sufficiente ripensare a ciò che aveva fatto. Percepire tutto il terrore e la preoccupazione tra la popolazione che proprio lui aveva causato era estremamente eccitante e lo faceva sentire onnipotente. Dio.

Nel 1930 avvennero altri due brutali omicidi di cui furono vittime due sorelle di 5 e 7 anni; erano le 22.00 e le bambine stavano tornando a casa da una festa paesana senza sapere che un’ombra nascosta tra gli alberi le stava seguendo…

Ci vorranno quindici mesi di inchiesta per verificare i suoi delitti uno a uno con puntualità ragionieristica, mesi durante i quali verranno anche reperite le armi utilizzate dal serial killer. Per tutto ha una risposta persuasiva: se aveva ucciso degli uomini, era accaduto perché, quando la crisi l’aveva colto, non c’erano donne a disposizione e quindi, in mancanza di meglio… Maria Hahn era stata uccisa e vampirizzata con voluttà (“Che volete, cara signora? – scriverà alla madre della morta –. Ho bisogno del sangue come altri dell’alcol…”), mentre alcune giovani erano state volutamente lasciate fuggire… l’ultima vittima, per esempio, venne risparmiata perché quel giorno gli erano bastati il suo pianto e la sua paura per ottenere una piena soddisfazione sessuale… e proprio lei, Maria Budlich, ricordò dove si trovava la casa di Kurten, in cui egli l’aveva portata evidentemente con l’idea di sacrificarne la vita. La lucidità, però, era venuta meno al criminale e il cambio di programma gli era stato fatale. Parliamo di “Fato” con la maiuscola degli antichi poiché “solo un’incredibile coincidenza permise di dare un volto al Vampiro di Düsseldorf. Una giovane sfuggita al killer [per l’appunto Budlich], confidò la sua tragica esperienza ad un’amica, per lettera. La missiva [era] rimasta in giacenza nell’ufficio postale [,] finché un impiegato decise di aprirla e, visto il contenuto, la consegnò alla polizia. La ragazza, così rintracciata, sarà in grado di portare gli inquirenti presso l’abitazione del suo aguzzino”. (M. Palombi). Quando si rese conto che la polizia era ormai a un passo dalla sua cattura, fu lui stesso a organizzarla pensando al futuro di sua moglie: poiché era stata messa un’ingente taglia sulla sua testa, le propose di denunciarlo in maniera tale da poter ricevere la somma di denaro: in questo modo avrebbe potuto vivere anche senza il suo stipendio. Cinismo assoluto applicato senza problemi di sorta anche a sé stesso e contemporaneamente strana forma d’affetto nei confronti della sua compagna. Gli alienisti conclusero la perizia su di lui con una sorta di scioglilingua o di aforisma psichiatrico: “Non presenta niente di anormale, ma resta anormale per un uomo normale”. In sostanza, al momento dei crimini era capace d’intendere e di volere; la sua sola scusante era una pesantissima eredità psicologica da parte paterna. Dal 13 aprile 1931, davanti al tribunale di Düsseldorf si apre il processo; uno spettatore particolarmente assiduo di esso sarà il più celebre dei registi tedeschi dell’epoca, Fritz Lang.

Meno di tre settimane dopo la morte di chi l’aveva ispirato, M apparve sugli schermi tedeschi venendo accolto in modo controverso. Una prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, della sua efficacia. Lang reagì alla pioggia di critiche umaniste, che lo accusarono di cinismo da mercante nei confronti dell’affaire Kurten, difendendosi nella sola maniera possibile, ovvero negando con decisione il rapporto del suo film col Vampiro e contemporaneamente deviando l’attenzione dei suoi accusatori su tre casi avvenuti fra il 1922 e il 1924, ormai meno caldi: quello di Fritz Haarmann, che aveva violentato, ammazzato e fatto a pezzi almeno ventiquattro giovani uomini; quello di Karl Denke, sospettato di aver trasformato in salsicce una trentina di persone (poi consumate o vendute o, infine, regalate a dei mendicanti); per chiudere con Karl Grossmann, che avrebbe ucciso una cinquantina di ragazze delle quali avrebbe utilizzato la carne per produrre i suoi würstel… è facile notare che tutti e tre i personaggi citati hanno assai poco a che fare col protagonista di M, Hans Beckert, un pedofilo eterosessuale stupratore e assassino che si avvicina maggiormente ai delitti del Vampiro, anche se Lang – senza dubbio prevedendo le possibili critiche per i suoi richiami all’attualità – lo trasforma in un archetipico orco, anonimo psicopatico borghese solitario e privo di caratterizzazioni biografiche di qualsiasi tipo (in questo senso Lecter e tutti i serial killer letterari dotati di personalità ben riconoscibile sono degli anti M).

I problemi del regista non finirono qui, anzi diciamo pure che erano soltanto all’inizio, e cominciavano con la “N” di nazismo, dal 1933 al potere. Nonostante il dottor Joseph Goebbels fosse un ammiratore di Lang, non si poteva certo dire che il regista trasmettesse un’ideologia in sintonia con quella hitleriana, tranne forse, ma in forma assai generica, con I Nibelunghi. Nonostante M fosse ufficialmente disapprovato, era privatamente apprezzato dal ministro della cultura e propaganda, che lo definì un’opera “fantastica, libera da meri sentimenti umanitari”. Il successivo Testamento del dottor Mabuse (1933) subì una sorte ancora peggiore: infatti venne sequestrato per il suo finale, almeno a sentire Goebbels. In compenso questi gli propose di dirigere la nuova industria cinematografica del Terzo Reich. Ma usiamo le parole dello stesso Lang: «Il 30 marzo 1933, il ministro della Propaganda in Germania, Joseph Goebbels, mi convocò nel suo ufficio […] e mi propose di diventare una sorta di Führer del cinema tedesco. Io allora gli dissi: “Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche” e lui: “Non faccia l’ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!”. Fuggii da Berlino quella notte stessa».

Lasciamo Lang alla più che giustificata fuga e torniamo al suo film cercando di evidenziarne alcuni aspetti sui quali la critica si è meno soffermata. In particolare, va citata la straordinaria invenzione registica rappresentata dall’uso delle vetrine dei negozi come specchio mentale simbolico: di fronte a una di esse il viso di Hans Beckert si rispecchia incorniciato dai coltelli esposti; la crisi di pedofilia criminale che colpisce l’assassino è rappresentata nel modo più astratto e contemporaneamente più grafico quando la bambina si ferma a vedere una vetrina nella quale campeggiano due giocattoli in movimento (e tenuti a debita distanza perché in caso contrario gli strali della censura vi si sarebbero di certo abbattuti): una sorta di grosso missile o proiettile che va dall’alto verso il basso con un violento moto continuo e un cerchio in movimento rotatorio che produce una sorta di seducente effetto ipnotico-psichedelico. L’allusione sessuale è greve, e greve è soprattutto la maniera in cui si fa largo in M/Becker e ci dà un’idea dei percorsi a senso unico della sua mente. La seconda e ultima evocazione erotica, la più esplicita: un pupazzo di legno snodato si muove allargando le gambe in modo provocatorio e, dato il contesto, assolutamente osceno.

Credo che l’opera musicale di cui parleremo adesso, Dedicated to Peter Kurten degli Whitehouse, sia l’ultimo messaggio artistico – tutt’altro che rassicurante, ma anzi a suo modo destabilizzante – lasciato ai nostri giorni a proposito di Kurten. Per introdurla occorre spiegare in due parole innanzitutto cosa sia il power electronics e chi siano gli Whitehouse. Il primo, almeno all’inizio (primi anni ’80) è un ambito estremo della musica industriale dove i suoni si riducono a puro rumore [noise] distorto a frequenze ultra alte o ultra basse attraverso l’uso di sintetizzatori, macchinari elettronici e campionamenti, mentre i loro iniziatori, per l’appunto gli scozzesi Whitehouse, lo imbevono di titoli e testi con espliciti e continui riferimenti a ultraviolenza, sadismo e dulcis in fundo serial killer non a scopo decorativo o per sbalordire chicchessia, bensì con il preciso scopo di usare il suono a un volume che lo trasformi in arma in senso stretto, così come può accadere con delle sound bombs in azioni belliche/di polizia o con le cannonate a salve che celebrano un’incoronazione (D. Wilson), per sottomettere con brutalità il proprio pubblico: “sono sopra di te / è l’unico modo/ sopra di te / non mi importa se è fantasia / finché sono sopra di te / sopra di te” (“On top (new version)”, Genius, genius.com).

Nel caso di Kurten è il caso di citare qua e là dalla fanzine della band, “Kata”, dove per indicare l’interesse verso di lui ne vengono semplicemente riproposte alcune parole prive di commento: “mi piacciono le pellicole di gente che cade giù dalle scogliere / quando appiccavo il fuoco agli edifici quando la gente correva urlando mi divertivo immensamente. Il brillare incandescente del fuoco a mezzanotte è eccitante. […] le grida della gente e il bagliore del fuoco mi suscitavano piacere durante i grandi incendi al punto che arrivavo sempre all’eiaculazione […] la domenica successiva ritornavo per assaporare l’effetto del mio crimine. Ascoltavo i vari racconti degli abitanti passando da un gruppo all’altro delle persone eccitate che li udivano. Questo mi dava tanto piacere come se la gradevole, luminosa domenica a Düsseldorf fosse stata distrutta da un colpo di fulmine”. La citazione si chiude con una testimonianza del boia che uccise il Vampiro: “prima della sua morte Kurten mi chiese se dalla sua testa tagliata sarebbe stato in grado di sentire lo zampillo del sangue. Il che sarebbe stato per lui il piacere di tutti i piaceri”.

L’album degli Whitehouse (1981 in vinile, rieditato in cd nel 1996), è una delle compilation più estreme di atonalità nera che si possano immaginare: una sorta di Berg e Schönberg dei poveri collassata in una galassia di muri rumoristi virtualmente illimitata dove tutto il contrario dell’armonico e dell’armonioso è vero e permesso. Il rumore come ombra, doppio della musica che di essa prende il posto (o forse tale dicotomia è un falso problema?). Si incomincia con un’introduzione tratta da un’emissione della BBC su Peter Sutcliffe (altro ben noto pluriomicida) e poi via con i fragori tutt’altro che umani della nostra epoca…! Come a contrastare una voce che pronuncia un testo totalmente urlato e quasi del tutto incomprensibile (ma che riesce tuttavia a pronunciare il termine “Second” rendendolo onomatopeico, un coltello che taglia) e ad abbassare la temperatura di funeste motoseghe pronte a esplodere a causa della stessa forza scatenata dal loro propulsore, ecco un lento e continuo scroscio d’acqua che sgorga in “On top” (new version), “Pissfun” o “Dom”. In “Rapeday”, l’unico contrappasso a tanto stridere di utensili industriali è invece il basso continuo prodotto da qualcosa che assomiglia al bruire del fuoco prodotto da una cucina a gas – o forse da una fiamma ossidrica. Il tutto – l’elemento acqua e l’elemento fuoco – mentre la vittima/il carnefice grida con quanto dolore/rabbia ha in corpo. Il carattere di prodotto puro e genuino fino in fondo dell’album viene sottolineato quando, col pezzo che dà il titolo all’album, si raggiunge una sorta di refrain, o per meglio dire di (di)sgraziata ripetizione tipica di metalli che s’incontrano e si scontrano come rime petrose in grado di risultare insopportabili, anche abbassando parecchio il volume, per tutti coloro che soffrono le rabbrividenti forchette che grattano sui piatti o i gessi stridenti sulle lavagne: qui si ricrea per via musicale – senza bisogno di testi d’alcun tipo –  tutta la sgradevolezza morale delle azioni distorte, l’uso delle cose in maniera sbagliata, come se gli Whitehouse infilassero una penna nell’orecchio dell’ascoltatore fino allo sfondamento del timpano per ricordargli in un colpo solo tutti i crimini commessi da Kurten. Parafrasando quanto dice Ligotti a proposito della “Musica di Erich Zann” di Lovecraft, gli Whitehouse non offrono traccia di lucidità o sistema di significato, le loro “note bizzarre” corrispondono al potere del disordine che dileggia il nostro mondo e ci mostra l’orrore della vita. Per esempio quella insensata di Peter Kurten, alla quale il loro power electronics senza compromessi offre un’arma in più.

Gianfranco Galliano