UNO SMARTPHONE PER HITLER

Il terzetto

Difficile che qualcuno oggi non sappia cos’è un telefonino: forse qualche Tarahumara, chissà… È molto probabile invece che ben pochi sappiano chi sono Martin Cooper e Frank Canova (proprio come me prima di scrivere questo articolo, ma si sa, i nomi degli inventori si dimenticano tanto velocemente quanto vengono ricordati per sempre quelli delle loro invenzioni): eppure si tratta nientemeno che dei creatori rispettivamente del cellulare e dello smartphone! E’altrettanto probabile che i due non abbiano mai letto il romanzo “Heliopolis” di Ernst Jünger. Soldato di carriera prima nella Legione Straniera, quando ancora era minorenne, e quindi nella Wermacht, divenne infine uno dei maggiori scrittori del ‘900 e dubitiamo che esso per parte sua abbia mai conosciuto il nome di Cooper o di Canova nonostante abbia vissuto una lunghissima esistenza (1895 – 1998). Eppure i tre personaggi hanno qualcosa di molto importante in comune…

Ma partiamo dalla fine

Alle soglie degli anni ’90, l’ingegnere Frank Canova (1956) si rese conto che la tecnologia chip e wireless stava diventando abbastanza piccola da poter essere utilizzata nei dispositivi portatili e di conseguenza ne tentò l’impiego sui cellulari. Il primo dispositivo disponibile in commercio che poté correttamente venir definito come “smartphone” fu un prototipo sviluppato da Canova nel 1992 mentre lavorava presso IBM. Lo stesso anno fu presentato alla fiera del settore informatico di Las Vegas, dove riscosse un successo immediato. Solo diversi anni dopo arrivarono BlackBerry, iPhone (2007), Samsung, Huawei ecc. In sostanza, Canova contribuì in maniera decisiva a rivoluzionare il mondo della comunicazione avvicinando e trasformando quanto più era possibile il cellulare in un pc.

Due parole su Martin Cooper, ora. Classe 1928, viene considerato il padre della telefonia mobile sia come inventore che come imprenditore. Fu proprio lui la prima persona ad aver effettuato una chiamata con un prototipo di cellulare il 3 aprile 1973, di fronte a giornalisti e passanti, immaginiamo esterrefatti, in una via di New York: ancor più sorpreso, ma spiacevolmente, dev’essere stato l’uomo all’altro capo del telefono, poiché si trattava del suo principale concorrente. L’apparecchio si chiamava Dyna-Tac, anche se familiarmente veniva soprannominato il “mattone” o il “telefono della scarpa”, e come testimoniano simili nomignoli non mancava di diversi difetti oggi, come ben sappiamo, tutti felicemente superati: pesava 1,5 kg e aveva una batteria che durava 30 minuti, ma che sfortunatamente impiegava 10 ore a ricaricarsi. Quella prima telefonata, indirizzata al capo della ricerca ai Bell Labs, rappresentò tuttavia il momento fondamentale del passaggio tecnologico mai abbastanza sottolineato quando si parla della telefonia mobile: l’aspetto “intimo” del cellulare. Fu il prodotto di una concezione della comunicazione senza fili di tipo individuale e portatile, ben distinta da quella per le automobili, in fin dei conti nient’altro che delle case viaggianti, per così dire. In seguito Cooper raccontò di come l’idea ispiratrice gli fosse venuta dalla visione del telefilm “Star Trek” in cui il Capitano Kirk usava un dispositivo analogo, o almeno così affermò il giornalista Lance Laytner. In seguito, in un’altra intervista, lo stesso Cooper avrebbe cambiato versione affermando che ebbe l’illuminazione decisiva osservando la radio da polso di Dick Tracy. Chissà, magari prese spunto tanto dall’uno quanto dall’altra. O magari da nessuno dei due, utilizzati tanto per fare un po’ di colore. Suggestioni – o meno – a parte, secondo le sue stesse parole l’obiettivo era che il cellulare dovesse essere “qualcosa che avrebbe rappresentato un individuo in modo da poter assegnare un numero non a un posto, non a una scrivania, non a una casa, ma a una persona”. Tutte cose oggi divenute moneta corrente, ma che all’epoca suonavano come concetti e obiettivi inauditi. E anche un tantino inquietanti.

Intermezzo

Da diverso tempo in rete circola la foto di un soldato tedesco con un cellulare in mano. Niente di strano, se non fosse che il militare indossa una divisa della Wermacht (esercito sciolto dopo la Seconda Guerra Mondiale) e sembra esser stata scattata durante l’occupazione hitleriana di Praga. Prove alla mano, Juanne Pili dimostra però che si tratta semplicemente dell’immagine di una comparsa durante la pausa di lavorazione d’un film del 2016, e non di un viaggiatore nel tempo…

Profezia tecnologica

Al contrario, arrivando a Jünger ci troveremo di fronte a un vero crononauta: la sua articolata profezia sulla telefonia mobile, infatti, è datata 1949. Né Cooper né Canova furono i primi a pensare al cellulare o allo smartphone: essi diedero “soltanto” alla luce tecnologica ciò che l’autore europeo aveva già concepito intellettualmente per filo e per segno, con precisione tutta teutonica, nel romanzo “Heliopolis”: anzi, per essere precisi fino all’acribia, il romanzo venne scritto dal 10 gennaio 1947 al 14 marzo 1949 e pubblicato nell’autunno dello stesso anno, quindi l’invenzione del phonophore – questo il nome scelto da Jünger per il suo smartphone – va ulteriormente retrodatata fino a sfiorare l’epoca nazista. “Dal punto di vista delle scoperte tecniche in generale, l’universo di Heliopolis offre, mescolati a tratti arcaici, una panoplia d’invenzioni tecniche futuriste che ricordano la voga romanzesca della s.f. a quell’epoca” (J. Hervier): in realtà il 1949 è soprattutto l’anno di pubblicazione di un grande classico, “1984”, ma in effetti anche quello di “Lezione di storia” di Clarke con il radiofaro (dispositivo per localizzare asteroidi), “Abisso” di Heinlein con la sua società dalla lingua riservata a una casta di individui superiori (una sorta di mandarino), “La corsa della regina rossa” di Asimov, testo che ipotizza un metodo per far viaggiare all’indietro nel tempo gli oggetti (di cui a suo modo si ricorderà fra gli altri King in “22.11.63”) e “Il triangolo quadrilatero” di Temple con un duplicatore grazie al quale viene imperfettamente clonata una ragazza (tema ripreso da “L’invasione degli ultracorpi” di Finney)… Per limitarci al nostro autore, in seguito avrebbe proseguito con le sue innovazioni tecnologico-fantascientifiche scrivendo “Le api di vetro” (1957) ed “Eumeswil” (1977), romanzo attraverso il quale approderà infine a internet (il “luminar”), che qui non prenderemo in considerazione perché i primissimi studi su di esso datano anni ’60 e quindi forse lo scrittore potrebbe averne avuto qualche vaga conoscenza anteriormente all’elaborazione della sua opera. Ma torniamo a “Heliopolis”. È stato notato come, grazie a una coincidenza che neppure sembra tale, il “comunicatore universale” di Ernst Jünger abbia essenzialmente lo stesso nome del prodotto di Steve Jobs: il phonophore (che nella traduzione italiana di Quirino Principe del 1972 suona invece meno efficacemente “pantofono” o “radiotelefono”). Il sito “Ernst Jünger – Anarch” precisa: “l’unica cosa che non era prevista nella visione di Jünger era la capacità visiva di smartphone, iPad ecc. – I flussi di informazioni del fonoforo sembrano essere mediati solo tramite la voce”, proprio come l’onnipervasiva propaganda hitleriana ben nota al romanziere di Heidelberg utilizzava la radio. “Ma in termini di funzionalità, praticamente tutto ciò che conosciamo e amiamo in iPhone4 è presente in iPhonophore – anche l’aspetto dello status è presente in “Heliopolis”, sebbene sia uno status più ufficiale. E ci sono funzioni che potrebbero ancora venire, come il voto. * * Postscript: due settimane dopo aver originariamente scritto questo blog, l’Estonia è stato il primo paese europeo a tenere un’elezione che ha permesso il “voto della carta SIM”. Il nuovo primo ministro apparentemente ha votato con il suo telefono” (2005). Come tutti gli inventori, Cooper e Canova sentivano il cellulare o l’iPhone come il monco sente il proprio arto fantasma, può vederlo e toccarlo senza che ci sia, mentre Jünger, da artista, sembrava conoscere già ogni implicazione sociale di tale membro mancante senza neppure la necessità di averlo mai posseduto, se non mentalmente. Come scriveva Borges, infatti, l’intellettuale prepara la realtà: “Hitler, orrendo per palesi eserciti e segrete spie, è un pleonasmo di Carlyle (1795 – 1881) e anche di J. G. Fichte (1762 – 1814); Lenin una trascrizione di Karl Marx”. Poiché la cultura occidentale quanto a innovazioni tecniche è sempre stata essenzialmente bellica, forse non è un caso che proprio un soldato sia potuto arrivare a tanto almeno idealmente. La comunicazione, prima durante e dopo una battaglia, è di vitale importanza soprattutto quanto all’aspetto della velocità: pensiamo ad alti gerarchi che debbano prendere decisioni impreviste e improvvise da trasmettere il più velocemente possibile ai propri sottoposti… Forse Jünger immaginò per la prima volta il cellulare come lontano parente dei telefoni da campo che saranno certo caduti sotto la sua percezione, periferica o meno, durante la Prima o la Seconda Guerra Mondiale… chissà, potrebbe aver visto quei monumentali mezzi di comunicazione e averli ridotti nel momento stesso in cui li riproduceva nella propria mente sfruttando la sua tipica capacità di esser contemporaneamente razionale e creativo. Quanto conta è che egli ci offrì una piccola filosofia delle comunicazioni tecnologiche e soprattutto delle sue ricadute sociali che per molti aspetti regge ancora oggi.Tra breve verremo a un’analisi dei punti che riguardano la profezia contenuta in “Heliopolis”, nel quale sono evidenti gli aspetti di saggio d’anticipazione più ancora che quelli del canonico romanzo d’anticipazione, sulla scia dei grandi narratori di scuola tedesca, da Thomas Mann all’austriaco Musil. Proprio a questo proposito ancora alcune precisazioni: nonostante quanto afferma uno dei più celebri biografi di Jünger, il già citato Julien Hervier, e cioè che questo libro immobile “è un lungo romanzo utopico che si situa sulla stessa linea de “Le scogliere di marmo” [la più celebre opera dello scrittore di Heidelberg], ma senza averne la concisione né l’impatto emotivo”, per il lettore non si tratta di un estenuante tour de force alla maniera, per esempio, del “Triton” di Delany dove i lunghi tratti saggistici dell’eterotopia mal s’incastrano con il dinamismo di una narrazione in fin dei conti tradizionale, ben poco “aliena” nella forma; al contrario, nel testo dell’autore germanico è l’azione stessa a essere costruita con la medesima durata distesa delle parti riflessive, quindi al lettore non resta che lasciarsi cullare da un tempo certamente diverso dal nostro, ma identico tanto negli eventi che nelle parentesi filosofiche: un tempo fantascientifico.

Fantascienza e realtà

Per venire ora alle sorprendenti rassomiglianze fra romanzo e realtà e alle stimolanti riflessioni jüngeriane, il phonophore era usato da tutti a Heliopolis, ma non tutti ne utilizzavano uno stesso tipo (descritto come “un piatto astuccio” che stava dentro una tasca): ce n’erano di più o meno potenti a seconda del livello della scala gerarchica che gli individui occupavano. Esso aveva un valore meritocratico-militare, aristocratico in senso stretto, e per questo non si poteva semplicemente acquistarlo. Al contrario, nella realtà dei giorni nostri è soltanto una questione di denaro a stabilire non lo status sociale reale di chi lo possiede, ma in molti casi quello immaginario. Infatti, il tipo di smartphone non caratterizza affatto la classe di chi lo ha perché tutto sommato è effettivamente il solo oggetto di lusso che chiunque può acquistare con un accettabile esborso. Una democratizzazione della ricchezza che è anche una delle ragioni del suo successo planetario. Ma torniamo allo strumento immaginato da Jünger. Con esso “la libertà era svanita; si era dissolta in uguaglianza. Gli uomini si assomigliavano come molecole che differiscono solo nel grado del movimento”. Ovvero, tutti erano tecnicamente evoluti, potevano usare il phonophore in milioni, miliardi di modi differenti, da quelli più standardizzati a quelli più stravaganti, ma ciò che importava veramente era che essi utilizzassero quello strumento di comunicazione e non – per fare un esempio solo all’apparenza bizzarro – i “pizzini” dei mafiosi. Ciò che vi si metteva dentro in fin dei conti non poteva essere in nessun caso espressione di libertà: l’uguaglianza ne era il semplice miraggio. La vera creatività stava molto prima del suo uso, stava nell’averlo inventato. Così esso era divenuto “lo strumento ideale della democrazia planetaria, un medium che collegava tutti invisibilmente, l’uno con l’altro. La civiltà dell’antico raduno popolare, del mercato, del foro si estendeva sul pianeta, anzi al di là di esso. Il radiotelefono era soprattutto uno straordinario oggetto semplificatore. Da quando esso era giunto alla perfezione, il referendum e la consultazione popolare erano divenuti facilissimi tecnicamente; la volontà, l’umore delle grandi masse potevano essere saggiati e misurati, quasi con la forza del pensiero. Nell’Ufficio di Coordinamento era installata una di quelle macchine che facevano calcoli straordinari” – evidentemente gli algoritmi – “Il sì, il no, l’indecisione delle folle si sommavano in quella macchina con fiumi di scintille, e in un attimo poteva essere letto il risultato”: pollice in alto/pollice in basso, Sì/No, 0/1, ovvero, in fin dei conti il linguaggio binario dell’informatica. Il tutto, naturalmente, aveva delle immediate ripercussioni politiche in senso stretto: “Dominava una uguaglianza passiva […] Le antiche finzioni del diritto elettorale si ripetevano nel nuovo stile automatico”: la croce sul partito che si desiderava votare, spia di un analfabetismo assai diffuso all’epoca in cui nacque, si era trasformata nell’ignoranza del linguaggio della programmazione, un tempo rappresentata dai geroglifici degli scribi o dal cinese mandarino: ogni società è analfabeta a proprio modo, egizia, cinese antica o di massa che sia. Si usava il phonophore e tanto bastava, ben pochi ne conoscevano i segreti politici. A tutti esso diceva: avete un’identità. Pensate a cosa significhi oggi non possedere un cellulare, che secondo quanto ritiene anche Cooper ci deve individuare come persona. Più o meno questo: “all’antica soppressione della rispettabilità borghese corrispose, in questa realtà [Heliopolis], il ritiro del radiotelefono e la cancellazione del suo antico proprietario dal sistema di coordinate. Insieme con le cifre si perdeva anche il volto”. E ancora: “Lo strumento della comunicazione assoluta che funziona in tutte le direzioni rimpiazza nei fatti più o meno l’identità di ciascuno. Non ci si può impedire d’interpretare il phonophore come l’espressione della riduzione concreta degli individui a dei numeri che si confondono”. Naturalmente esistono corposi vantaggi – le più svariate app a noi ben note – che confidando nel desiderio di sicurezza e nella pigrizia dell’essere umano ne consigliano l’uso fino a renderlo indispensabile: il dispositivo “comunica in ogni momento ora locale e astronomica, longitudine e latitudine, situazione e previsioni del tempo. Sostituisce carta d’identità, passaporto, orologio, meridiana e compasso, attrezzatura nautica e meteorologica. Comunica automaticamente la precisa posizione di colui che lo porta rispetto a tutti i possibili luoghi di salvataggio, in caso di pericolo sulla terra, sull’acqua e nell’aria […] Segnala anche la situazione del conto corrente […] e sostituisce […] il libretto di assegni […] e, in luogo del pagamento in contanti, i biglietti su tutti i mezzi di trasporto […] Riceve i programmi di tutte le stazioni radio e delle agenzie d’informazioni […] può essere usato come giornale, mezzo d’informazione, biblioteca e dizionario […] Può essere localizzato”. Insomma, in una sola parola, è animato come una sorta di essere vivente dalle mille vite. Ma poco dopo l’interlocutrice del protagonista giustamente insinua: “Deve essere uno spirito volgare quello che ha inventato questa macchina per la distruzione della solitudine” […] “Ecco che lei ha fatto sua, per forza d’intuito, la maggiore obiezione. Inoltre c’è anche una difficoltà tecnica irrisolta, e cioè che, fin tanto che lei riceve o parla, può essere isolata dal circuito. Il luogo nel quale lei si trova è sempre identificabile. Ciò è prezioso per la polizia […] Questa è la ragione per cui noi ci serviamo anche dei vecchi telefoni che si possono schermare meglio. Quanto più si estende la potenza, tanto più aumenta il numero dei punti deboli: questa è una legge matematica”: una riflessione che precede ogni possibile teoria complottista odierna con grande preveggenza e raffinatezza, degna di chi ha conosciuto nel profondo una società interamente costruita sulla paranoia come quella hitleriana. Così si torna al massimo della rozzezza per non essere intercettati, ai già citati “pizzini” (quelli sono il vero dark web) da far sparire definitivamente, bruciandoli o ingoiandoli una volta che siano stati letti. A un passo dal totalitarismo, la comunicazione totale ha bisogno di una via di fuga che riproponga un imperfetto – e dunque a suo modo perfetto per le nostre necessità di privacy – strumento del passato. Cosa ancor più interessante è l’ipotesi di Jünger a proposito del fatto che gli sviluppi della tecnica ne prefigurino di simili nel profondo degli esseri umani. In altri termini, la nostra comunicazione sempre tecnologicamente mediata è un’immagine di mutamenti culturali che emergono come se invece fossero del tutto naturali nell’individuo: per esempio, si pensi al fatto che l’invenzione della stampa, eliminando i libri manoscritti, diede letteralmente lo stesso punto di vista a coloro che si accingevano a leggere la medesima Bibbia: niente più differenze nella calligrafia, niente più errori dei copisti o censure maldestre, bensì assoluta identità di caratteri e della loro disposizione nel testo… e tutte le persone sempre un po’ più uguali fra loro (Mc Luhan). Per Jünger, in fin dei conti, la tecnologia si trasforma in (apparente) magia, il phonofore anticipa nuove forme di telepatia. Se consideriamo le sue ipotesi di futuri sviluppi tecnologici quasi miracolosi alla luce di fatti recentissimi (uno strabiliante doppio trapianto di polmoni, per esempio), chi può dire che si tratti di semplici deliri artistici? Come venne osservato, un aereo raggiunge una velocità apparentemente impressionante sulla pista, ma tutto cambia quando si alza d’improvviso in aria: entra in una nuova dimensione per la quale l’accelerazione sulla pista di decollo era – sorprendentemente – solo la preparazione.

Notarella

Buona parte della sterminata bibliografia di Jünger è stata pubblicata in traduzione italiana. Tale ricchezza, che comprende anche diverse opere meno rilevanti, ne testimonia la fortuna in Italia nel corso dei decenni. Non mancano neppure studi sulla sua opera e sulla sua figura. Sul web si trovano addirittura diversi video che analizzano lo scrittore di Heidelberg o ne introducono la figura.

Quanto agli inventori, triste destino il loro!, purtroppo su Martin Cooper e Frank Canova si trovano soltanto brevi biografie e interviste in rete.

Gianfranco Galliano