RANPO, CHRISTIE, CARRISI E DE GOTHIA

Nel racconto di Edogawa Ranpo La camera rossa (1), Tanaka manda un autista con un ferito in gravissime condizioni dal medico sbagliato, causandone così remotamente – e involontariamente – la morte. In un’altra occasione, gridando “Attenta!” a una vecchia che attraversa la strada mentre un tram sta arrivando a gran velocità, la fa confondere e fermare, indecisa se avanzare o indietreggiare, provocandone così questa volta volontariamente l’investimento e l’uccisione. Un massaggiatore cieco, che per testardaggine fa sempre l’opposto di quello che gli viene consigliato, è ammazzato da Tanaka che lo invita a spostarsi sulla sinistra per evitare di cadere in una buca (che ovviamente si trova alla sua destra).

Nella lettera finale di Sipario, l’ultima avventura di Poirot il celebre investigatore ci consegna alcune pagine memorabili su quello che è il “criminale perfetto: X aveva inventato una tecnica per cui non avrebbe mai potuto essere accusato d’omicidio”(2). Dopo aver preso in esame due criminali dalle mani pulite in campo artistico, Iago e Clutie John, le sue riflessioni concernono un aspetto non proprio edificante della natura umana, ovvero il desiderio di uccidere che ognuno di noi prova in alcuni, e sia pure rarissimi, momenti della propria vita: ciascuno, perlopiù, viene trattenuto dalla volontà. Ma cosa accadrebbe se invece esistesse chi, nell’ombra, “usando le parole opportune, le stimolazioni adatte”(3), ci invitasse al crimine in maniera sempre più irresistibile? “L’arte di X non consisteva nel risvegliare il desiderio di uccidere, ma nel far crollare la barriera dell’autocontrollo […] X conosceva la parola adatta, la frase, l’intonazione giusta per fare pressione su un punto debole. Era una cosa possibile, e la vittima non s’insospettiva neppure.”(4). “Naturalmente […] aveva bisogno di un punto di partenza sul quale lavorare. Si può far crescere una pianta soltanto se esiste il seme. Prendiamo, ad esempio, l’Otello: ho sempre avuto la convinzione che il Moro considerasse, forse giustamente, l’amore di Desdemona per lui come la passione fanatica per un guerriero famoso, e non come l’amore equilibrato di una donna per l’uomo Otello. Probabilmente pensava che Cassio fosse il compagno più adatto a lei e che Desdemona prima o poi se ne sarebbe resa conto”(5). Per formulare una provvisoria conclusione astratta “potremmo perciò dire di trovarci di fronte a un fenomeno di catalisi, ossia al verificarsi di una reazione chimica tra due sostanze solo in presenza di una terza, che non prende parte alla reazione e resta inalterata.”(6). La terza, ovviamente, è l’assassino non imputabile.

Nelle ultime pagine de Il suggeritore, Donato Carrisi parla per bocca della protagonista Mila di criminali piuttosto particolari: mandanti che per uccidere utilizzano il plagio diretto dei loro sicari, come nel caso di Charles Manson, e soprattutto di altri, come Fujimatzu o Rudolf Migby, che usano mezzi come le chat, il telefono e la suggestione ipnotica (forse) per indurre all’omicidio, quando non alla strage, i loro esecutori. Ma andiamo con ordine. Manson fu condannato a diversi ergastoli con l’accusa di aver spinto i membri della sua “Family” a macchiarsi di due massacri nella ricca zona di Bel Air: nel suo caso i killer erano persone che vivevano con lui, quotidianamente sottomesse ai suoi desideri e voleri, che egli studiò a piacimento nei tratti più riposti del loro carattere e in tutte le loro debolezze; gente che aveva bisogno di avere un capo almeno quanto Manson aveva necessità di esercitare il proprio desiderio di sottomettere. La scelta, in altre parole, fu reciproca, e stupisce solo fino a un certo punto che la “Family” abbia accettato di trasformarsi in banda criminale. Decisamente più inspiegabile appare il caso del già citato Fujimatzu che con l’aiuto della tecnologia riuscì a convincere ben 18 persone a suicidarsi; le aveva conosciute attraverso la chat e a quanto pare erano individui di sesso diverso così come di età e condizione economica differenti, senza problemi particolari (oserei aggiungere: solo all’apparenza). Ancora più curioso appare il caso del sedicente Rudolf Migby, mandante dell’omicidio di sei donne di Akron (Ohio) nel 1999, almeno secondo le dichiarazioni dell’assassino, tale Roger Blest; se la storia finisse qui sarebbe solo relativamente strana, ma il fatto è che nel 2002, in Nuova Zelanda, un operaio analfabeta, tale Jerry Hoover, uccide sei donne su suggerimento di… indovinate un po’? Rudolf Migby, ma è ovvio! Che esiste davvero, è un compagno di lavoro dell’operaio e che soprattutto, come scopre il solerte e documentatissimo psichiatra dell’accusa, viveva ad Akron proprio all’epoca delle malefatte di Roger Blest. Dice ancora Mila: “Un killer subliminale non commette materialmente il crimine. Non è imputabile, non è punibile. Per processare Charles Manson ricorsero a un artificio giuridico, tant’è che la condanna a morte venne derubricata in vari ergastoli… Qualche psichiatra vi definisce sussurratori per la vostra capacità d’incidere sulle personalità più deboli. Io preferisco chiamarvi lupi… I lupi agiscono in branco. Ogni branco ha un capo, e spesso gli altri lupi cacciano per lui”(7). Ma lasciamo la parola direttamente a Carrisi: “La letteratura criminologica ha cominciato a occuparsi dei suggeritori in relazione all’evolversi del fenomeno delle sette. Un argomento ostico, che solleva molteplici problemi. La difficoltà maggiore è proprio quella di fornire una definizione di suggeritore che sia spendibile ai fini processuali, perché investe direttamente le categorie dell’imputabilità e della punibilità. Infatti, laddove non esiste un nesso causale fra l’attività del colpevole e quella del suggeritore, non è possibile ipotizzare un qualche tipo di reato a carico di quest’ultimo. Il ricorso alla figura dell’istigazione a delinquere in molte situazioni è risultato troppo debole per impartire una condanna. Perché nel caso dei suggeritori si va al di là di un semplice plagio. L’attività di questi individui concerne un livello subliminale di comunicazione che non aggiunge un intento criminale alla psiche dell’agente, semmai fa emergere un lato oscuro – presente in maniera più o meno latente in ciascuno di noi – che poi porta il soggetto a commettere uno o più delitti. E’ emblematico, a tale proposito, il caso Offelbeck del 1986: la casalinga che riceve chiamate da un anonimo telefonista e che poi, di punto in bianco, un giorno stermina la famiglia somministrando nella minestra veleno per topi. A ciò bisogna aggiungere che chi si macchia di crimini efferati spesso tende a spartire la responsabilità morale con una voce, una visione o con personaggi di fantasia. Per cui risulta particolarmente arduo distinguere quando tali manifestazioni siano il frutto di comportamenti psicotici e quando, invece, sono realmente riconducibili all’opera occulta di un suggeritore”(8).

Forse è possibile andare ancora oltre nello sfumare la materia di cui ci stiamo occupando fino a renderla ancora più sottile (nel senso alchemico del termine) mediante la completa spersonalizzazione del suggeritore. Per farlo, ci avvarremo dell’interessante articolo di Davide Rosso su De Gothia(9). Ne Il sentiero non battuto quest’ultimo incentra il proprio lavoro sui delitti del mostro di Firenze a partire dal 1981 mettendo a fuoco il background culturale popolare dell’epoca e più in particolare il trailer di Maniac che veniva passato e ripassato (cosa sulla quale torneremo) dalle tv locali toscane dell’epoca. Esso era incentrato sulla sequenza in cui una coppietta appartata vicino al ponte di Verrazzano viene prima spiata e poi massacrata da un maniaco. De Gothia cerca di provare una sorta di collegamento diretto fra la pellicola di Lustig e i delitti, come se fosse addirittura essa a scatenarli. Intendiamoci: non c’è nessun puritanesimo o intento censorio nascosto nell’autore de Il sentiero non battuto né in Rosso, si tratta semmai di individuare, o meglio ragionevolmente ipotizzare, “risposte” omicide alle stimolazioni filmiche da parte di una mente malata, senza che ciò ingeneri inopportune cacce alle streghe verso il regista, tanto più che la visione di Maniac o semplicemente del suo trailer avrebbe soltanto “riattivato la memoria” del criminale a proposito di un suo delitto già commesso (e sepolto) nel 1974, spingendolo – questo sì –  a compierne altri. Ancora più interessante è la problematica ricerca di De Gothia d’un minuscolo e velocissimo frammento del trailer in cui il cutter dell’assassino si posa sulla pelle della vittima femminile prima dell’escissione (frammento che esiste davvero, come dice Rosso): tale “spezzone subliminale” poteva dunque essersi piantato nel cervello del killer seriale in maniera talmente profonda da indurlo alle stesse azioni di chirurgia criminosa messe in atto dal protagonista di Lustig. E’ interessante il fatto che l’omicida neanche avrebbe dovuto vedere l’intero film (“ricordiamo che alla data del primo delitto del 1981 il film non era ancora uscito nelle sale”, dice Rosso): bastavano – o forse erano proprio necessarie – solo distrazione e ripetizione… insomma i pilastri fondamentali dei meccanismi della pubblicità! A questo punto potremmo ipotizzare quanto segue: data l’atmosfera profondamente nera di buona parte della cultura popolare nell’Italia degli anni ’70 opportunamente ricordata da Rosso (dai fumetti ultraviolenti di Barbieri & Cavedon ai fotoromanzi porno di Supersex, dai morbosi thriller di Martino a quelli di Lenzi e molti altri), che formava una specie di basso continuo, un sottofondo che abituava all’idea del sesso innanzitutto come violenza o al minimo come prevaricazione, l’omicida che avesse rimosso un delitto di cui si era già macchiato potrebbe avere abbassato la propria guardia critica (per semplice distrazione, inevitabile in ogni essere umano di fronte a tanta ripetizione del trailer) e proprio in quel momento avere recepito senza rendersene conto (come un bambino che non ha ancora capacità di riflessione e dunque è molto più facilmente traumatizzabile dell’adulto) le suggestioni confezionate dai frammenti di Maniac continuamente iterati dalle tv locali (non il film, troppo lungo per venire “imparato a memoria” dall’inconscio e legato alla decisione volontaria – per semplificare un po’ diciamo psicologica e non psicanalitica – di andare a vederlo): proprio questi episodi, ma soltanto in stretta connessione con una mente psicotica, avrebbero potuto condurre il nostro ipotetico killer ad agire di nuovo, ma, ribadiamolo ancora, senza possedere nessuna coscienza di ciò che lo aveva spinto a riprendere le proprie attività criminose; se si fosse reso conto del proprio suggeritore, anzi, forse esso non avrebbe sortito alcun effetto per il semplice motivo che sarebbe passato al vaglio della riflessione cosciente(10).

Gianfranco Galliano

NOTE

(1) E. Ranpo, L’inferno degli specchi, Mondadori, pagg. 135-158

(2) A. Christie, Sipario, l’ultima avventura di Poirot, Mondadori, pag. 139.

(3) Ibidem, pag. 141.

(4) Ibidem, pag. 140.

(5) Ibidem, pag. 142.

(6) Ibidem, pag. 139.

(7) D. Carrisi, ll suggeritore, TEA, pag. 447.

(8) Ibidem, pag.459.

(9) D. Rosso, “Il sentiero non battuto (1994) – Attraverso gli anelli di 12 scuri (2004) – I fotoromanzi porno del mostro di Firenze e altri fantasmi del desiderio”, LA ZONA MORTA, 04/04/2018.

(10)A proposito dell’attivazione di meccanismi involontari dentro di noi in relazione a determinati stimoli, ecco una storiella certamente meno drammatica e allarmante (se non dal punto di vista ideologico) di quelle narrate nell’articolo: A. dà un’occhiata a “Stasera in tv” per trovare qualche film da vedere la sera. Su “Giallo” trova una minuscola foto che pubblicizza l’episodio settimanale di “Grantchester”, serie che ha sempre evitato come la peste ritenendola una sorta di “Padre Brown” riveduto e corretto (male). L’immagine già vista e rivista, sulla quale non si sofferma neanche in questa occasione, presenta tre individui: uno a mezzobusto inquadrato di spalle, con la testa che s’intuisce bassa, incassata fra le spalle; un altro, anch’esso a mezzobusto, è lievemente piegato in avanti verso il primo personaggio, con lo sguardo su di lui (questo secondo uomo è sulla cinquantina, il volto rugoso); infine il terzo, a destra, è un giovane biondo, tiene la testa alta, le mascelle contratte e le braccia conserte; la camicia col collarino che lo identifica come un prete, con le maniche rimboccate, lascia intuire due avambracci muscolosi. Dietro di lui s’intravede il dettaglio d’una porta chiusa. Di seguito, A. vaga con lo sguardo distratto sulla brevissima trama del film proposto da Rai3: Hours. Protagonista è il padre di una neonata nell’incubatrice (la madre è morta nel darla alla luce) che deve salvarla – nell’ordine – dall’uragano Kathrina, da una banda di saccheggiatori e da un black-out che “lo costringerà ad affrontare una lunga e disperata corsa contro il tempo”. Giorni dopo, A. chiama nel suo ufficio un impiegato al quale ha deciso di dare una lavata di testa proprio quel giorno, quando potrebbe benissimo farlo l’indomani. Lo invita rudemente a sedersi, chiude la porta e troneggia in piedi su di lui, ritrovandosi con le mascelle contratte e a braccia conserte, le maniche della camicia rimboccate. Non ha molto tempo: di lì a dieci minuti dovrà rabbonire un cliente per una fornitura in ritardo e immediatamente dopo telefonare al magazzino – ha già provato, ma spesso il personale, ridotto all’osso, è fuori – per vedere che fine hanno fatto i pezzi dello stesso cliente col quale ha l’appuntamento… ah, già, sta scordando che se non mangerà al volo il panino che si è portato da casa salterà il pranzo: non può certo mancare alla riunione di inizio mese. Infine, dovrà correre a prendere sua figlia al corso di nuoto, ma solo se le cose s’incastreranno a dovere riuscirà a essere puntuale, anche se di sicuro trafelato. Be’, pensa, dopotutto è normale.

Sull’analisi dei meccanismi pubblicitari profondi mi permetto di rinviare al testo LE IMMAGINI PUBBLICITARIE: CASI E INDAGINI, da me curato e facilmente reperibile in rete.