TERZO DAL SOLE – SOGNI E SPERANZE DELL’ANIMALE UOMO ALLA RICERCA DELLA VITA 15

CAPITOLO XV: TELESCOPI ORBITALI

Hubble

Mentre stiamo tentando di avvisare mezzo universo su dove ci troviamo, chi siamo e cosa facciamo. In aiuto all’astronomia, a parte le fotografie e i dati rilevati dalle varie sonde, un grosso e vitale contributo ci è stato offerto dal porre nello spazio degli strumenti di ricerca astronomica.

Il lancio di Hubble nell’orbita terrestre, il 24 aprile 1990, fu salutato come la soluzione a un problema che da sempre affliggeva gli astronomi: quello della distorsione atmosferica, l’interferenza delle turbolenze dell’atmosfera terrestre che disturba la visuale degli osservatori terrestri (lo stesso motivo per cui, quando guardiamo le stelle da Terra, ci sembrano pulsare).

I moderni telescopi terrestri hanno superato il problema grazie a specchi adattivi che, grazie a una deformazione controllata, compensano le turbolenze atmosferiche, restituendo un’immagine nitida di fonti luminose distanti. Ma non c’è modo, per gli osservatori “bloccati” sul nostro pianeta, di indagare nelle lunghezze d’onda, come ultravioletti, raggi gamma e raggi X, bloccate o assorbite dall’atmosfera. La soluzione più efficace è andare oltre questa barriera. O meglio, spedire un telescopio spaziale a 569 km dalla superficie terrestre. Hubble ha un’accuratezza di puntamento tale che riuscirebbe a colpire con un laser una monetina a 320 km di distanza.

Il primo a concepire l’idea di un telescopio che potesse guardare al di là dell’atmosfera terrestre fu, nel 1923, il fisico tedesco Hermann Oberth, che suggerì di spedire un osservatorio in orbita sfruttando i razzi. A raccogliere e sviluppare l’idea, nel 1946, fu l’astrofisico americano Lyman Spitzer, il primo a proporre la costruzione di un simile telescopio in un articolo scientifico. Spitzer avrebbe trascorso i successivi 50 anni della sua vita a lavorare perché il progetto si avverasse.

La dedizione e l’esperienza di Spitzer portarono la Nasa ad approvare il progetto del Large Space Telescope (questo il nome originario del telescopio) nel 1969, l’anno dell’allunaggio. Nel 1974 fu suggerita l’idea di un osservatorio costituito di pezzi intercambiabili da trasportare in orbita con gli Space Shuttle. Nel 1975, l’Agenzia Spaziale Europea affiancò la Nasa accollandosi il 15% dell’oneroso progetto (oltre un miliardo di dollari all’epoca), e aggiudicandosi in cambio almeno il 15% del tempo di ricerca. Dopo il benestare del Congresso allo stanziamento dei fondi, nel 1977, presero avvio i lavori di costruzione dello specchio principale del telescopio, di 2,4 metri di diametro. Contemporaneamente iniziò l’addestramento di astronauti in vista delle missioni di riparazione del telescopio, lungo 13,3 metri (come un grosso autobus) e pesante (a terra), poco più di 12 tonnellate, quanto due elefanti africani. Le operazioni dello Space Telescope Science Institute (STScI) trovarono un quartier generale nel campus della John Hopkins University a Baltimora (USA) e il telescopio fu ribattezzato Hubble Space Telescope in onore di Edwin Powell Hubble, l’astronomo statunitense che postulò l’omonima legge e gettò le basi per la formulazione della teoria del Big Bang. Tutto sembrava procedere a gonfie vele. Nel 1985 il telescopio era pronto, ma il disastro dello Shuttle Challenger, esploso in volo a un minuto dalla partenza il 28 gennaio 1986, impose una brusca battuta d’arresto. Il lancio fu posticipato di un paio d’anni finché, il 24 aprile 1990, Hubble non raggiunse finalmente l’orbita terrestre a bordo di uno Shuttle Discovery. I tecnici della Nasa invitarono la comunità scientifica ad ammirare le foto scattate dal telescopio, ma dalle prime immagini sgranate del 25 giugno 1990 fu subito chiaro che qualcosa non andava.

Certo, le immagini di Hubble erano più chiare di quelle catturate dai telescopi terrestri, ma insolitamente sfocate (soprattutto per un progetto faraonico che era costato tempo, fatica e denaro, tanto denaro). Le prime verifiche rivelarono che lo specchio primario di Hubble era stato levigato eccessivamente e risultava appiattito di 2 millesimi di millimetro di troppo. Più o meno un cinquantesimo dello spessore di un foglio di carta, ma abbastanza per far rimbalzare la luce incidente leggermente fuori fuoco. La soluzione, COSTAR (Corrective Optics Space Telescope Axial Replacement), ossia una serie di piccoli specchi correttivi usati per intercettare la luce riflessa dallo specchio e correggere il difetto, si tradusse in una delle più complicate missioni spaziali di riparazione mai tentate fino a quel momento. In cinque giorni di passeggiate spaziali compiute dal 2 al 9 dicembre 1993, 7 astronauti addestrati appositamente per 11 mesi ripararono il guasto. Fu un successo: il 13 gennaio 1994, Hubble pubblicò le prime immagini ottenute dopo la riparazione. Foto bellissime e incredibilmente nitide. Una promessa finalmente mantenuta.

Ogni 97 minuti, Hubble completa un’orbita intorno alla Terra, muovendosi a una velocità di circa 8 chilometri al secondo (sufficiente ad attraversare gli Stati Uniti da parte a parte in 10 minuti).

Durante questo incessante viaggiare, la luce colpisce lo specchio primario (2,4 m); da qui viene riflessa su uno specchio secondario, nella parte anteriore del cilindro metallico che costituisce il telescopio, e rispedita indietro attraverso un foro nello specchio primario che la indirizza ai vari strumenti scientifici. Fotocamere e sensori analizzano la luce nelle sue varie componenti e lunghezze d’onda, e un’antenna trasmette i dati a Terra.

I telescopi non lavorano ingrandendo gli oggetti che osservano, ma raccogliendo molta più luce di quella che può raccogliere l’occhio umano. Più grande è lo specchio primario, maggiore sarà la quantità di luce raccolta; lo specchio di Hubble può apparire piccolo rispetto ai 10 metri di diametro raggiunti da qualche osservatorio terrestre. Ma la sua posizione esterna all’atmosfera ne fa il più fedele scrutatore di stelle e pianeti. I vari strumenti di Hubble (Wide Field Camera 3; Cosmic Origins Spectrograph; Advanced Camera for Surveys ; Space Telescope Imaging Spectrograph e Near Infrared Camera and Multi-Object Spectrometer) sono specializzati nell’analisi dei diversi tipi di radiazione luminosa. Un insieme di sensori monitora le “stelle guida” e mantiene Hubble correttamente allineato ai suoi obiettivi. Mentre due enormi pannelli fotovoltaici garantiscono tutta l’energia necessaria. Dopo la défaillance iniziale Hubble ha subìto altre manutenzioni periodiche, l’ultima delle quali nel 2009. Ma la tragedia dello Shuttle Columbia, disintegratosi al rientro in atmosfera il 1 febbraio 2003, ha segnato la fine del programma Shuttle (decretando, di fatto, anche la futura fine di Hubble). Le possibili soluzioni pensate per estenderne la vita, missioni robotiche di salvataggio o un sistema di ottiche correttive da 80 milioni di dollari, sono decisamente inabbordabili in tempi di tagli al bilancio aerospaziale e la soluzione più ragionevole che si prospetta è quella di far precipitare il telescopio con una caduta controllata, tra qualche anno, quando non sarà più in grado di funzionare correttamente.

Intanto sulla Terra fervono i lavori di costruzione del suo erede James Webb Telescope, un telescopio spaziale molto più potente di Hubble e di Kepler, che avrà anche il compito di cercare pianeti simili alla Terra. Lo farà orbitando a una distanza di 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, e lavorando nel campo dell’osservazione infrarossa. Il suo lancio, per ora, è previsto per il 2018.

Quali sono stati i migliori risultati di Hubble? Gli scienziati che hanno presentato i risultati ne hanno scelti tre. Il primo viene per così dire dal passato: quattro galassie che dovevano essere incredibilmente luminose un bel po’ di tempo fa. 13 miliardi di anni, per l’esattezza, come hanno rivelato dati congiunti provenienti da Hubble e da Spitzer, il telescopio lanciato nel 2003 che osserva nell’infrarosso. La più luminosa delle galassie individuate è in grado di formare nuove stelle con una velocità 50 volte superiore rispetto alla nostra Via Lattea. Insieme alle altre tre, contiene circa un miliardo di stelle, un numero altissimo rispetto alla media spaziale.

Questa è la prima volta che gli scienziati sono stati in grado di misurare la massa di un oggetto celeste a una distanza così grande”, ha commentato Pascal Oesch dell’Università di Yale. “È una dimostrazione fantastica della sinergia tra Hubble e Spitzer”. Infatti le galassie sono state prima individuate da Hubble, le cui immagini hanno permesso agli astronomi di misurare le dimensioni delle stelle e la loro velocità di formazione. Successivamente, con Spitzer, sono arrivati anche i risultati sulle masse stellari a partire dalla luminosità delle galassie: ecco che il quadro era completo.

E a proposito di quadri, si arriva al secondo premio nella classifica di Hubble. Che va a una delle più affascinanti fotografie del cielo mai scattate prima: il telescopio ha ottenuto una dettagliatissima immagine di un ammasso di galassie, grazie a un ambizioso progetto chiamato “The Frontier Fields”.  Un mosaico composto da quasi 3.000 galassie, alcune delle quali risalgono a 12 miliardi di anni fa, non tanto tempo dopo il big bang. L’immagine verrà utilizzata dalla NASA per indagare l’origine e l’evoluzione delle galassie e dei loro inseparabili compagni, i buchi neri.

Infine arriviamo alla terza scoperta sul podio di Hubble: una popolazione di 58 galassie, questa volta giovanissime, che probabilmente sono responsabili della maggior parte delle stelle che vediamo oggi. Normalmente troppo poco luminose per essere rilevate da Hubble, queste galassie sono state scoperte grazie alla lente gravitazionale (ovvero il fenomeno di deflessione della luce a causa di una massa tra la sorgente e l’osservatore) dovuta a un ammasso di galassie chiamato Abell 1689, nella costellazione dell’Orsa Maggiore.

Queste galassie più tenui potranno ora fornire fondamentali informazioni su oggetti celesti mai osservati prima. “Le galassie più luminose rappresentano solo la punta dell’iceberg” ha commentato Brian Siana dell’Università della California. “Ma noi crediamo che la maggior parte delle stelle si trovino in galassie che normalmente non siamo in grado di vedere. Ora che abbiamo trovato queste galassie nascoste, siamo fiduciosi di poter scoprire il resto dell’iceberg”.

Spitzer

Spitzer fu lanciato nel 2003 e ha sondato per 10 anni lo spazio profondo sulle frequenze dell’infrarosso a caccia di stelle, comete, pianeti e altri corpi celesti.

Diverse sono state le osservazioni del SST degne di nota: una delle più rilevanti fu nel 2005, quando per la prima volta fu direttamente catturata la luce di due pianeti extrasolari, i giganti gassosi HD 209458b e TrES-1b. Prima di allora, la presenza di pianeti era stata dedotta solo dal comportamento della stella e delle variazione della velocità radiale. Sempre nel 2005, il telescopio Spitzer scoprì un disco circumstellare attorno alla giovane stella T Tauri CoKu Tau/4. Inoltre in quell’anno, 400 ore di osservazioni con Spitzer, permisero agli astronomi di affermare che la struttura della Via Lattea è più marcatamente barrata di quanto creduto in precedenza.

Nel maggio del 2007 grazie a Spitzer, gli astronomi hanno mappato per la prima volta la temperatura atmosferica di un esopianeta, il gioviano caldo HD 189733 Ab, rilevando tra l’altro molecole di vapore acqueo.

Nell’agosto del 2009, rilevamenti del telescopio Spitzer attorno alla stella HD 172555 e al suo disco circumstellare, permisero di scoprire che in passato era avvenuta una catastrofica collisione al alta velocità tra due pianeti rocciosi, delle dimensioni di Mercurio e della Luna, che ha portato alla vaporizzazione del più piccolo e notevoli danni al più grande, formando il disco di detriti attorno alla stella.

Nell’ottobre del 2009, il telescopio Spitzer ha individuato l’anello più grande del sistema solare appartenente al pianeta Saturno.

Nel 2012, Spitzer ha catturato direttamente, per la prima volta, la quantità di luce infrarossa emanata da una super Terra, 55 Cancri e.

Dopo 120 mesi di onorato servizio il telescopio ha esaurito le scorte di gas necessario a raffreddare le strumentazioni di bordo e così i tecnici dello Sptizer Science Center di Pasadena, in California, hanno deciso di modificarne la configurazione per trasformarlo in un formidabile cacciatore di esopianeti, pianeti cioè ubicati al di fuori del nostro sistema solare. Anche questi corpi celesti emettono luce nello spettro dell’infrarosso, che dopo aver attraversato gli strati di gas e polvere spaziale più densa, viene catturata dagli occhi ipersensibili di Spitzer. La vista a infrarossi del telescopio consente agli scienziati di guardare all’interno delle nursery stellari, là dove si formano i pianeti. Spitzer è anche in grado di catturare le mini-eclissi generate dal transito dei pianeti di fronte alla loro stella e questo permette agli astronomi di calcolarne le dimensioni con un notevole margine di precisione. Non solo: l’analisi dell’emissione dell’infrarosso consente di ricavare dati sulla composizione dell’atmosfera dei pianeti, sulla loro temperatura e sulle variazioni climatiche stagionali.

Tutto questo è stato reso possibile dalle eccezionali capacità tecnologiche di Spitzer, che pur progettato nel 1996, era stato equipaggiato con apparecchiature molto più potenti di quelle necessarie per la sua missione iniziale, cioè la caccia alle stelle in formazione. In realtà a quell’epoca nessuno riteneva possibile poter osservare gli esopianeti nelle frequenze della luce infrarossa. Ciò che permette a Spitzer di essere ancora operativo è la geniale idea dei suoi progettisti, che decisero di equipaggiarlo con un sistema di raffreddamento passivo indipendente dalle scorte di gas refrigerante caricate alla partenza e ormai esaurite. Si tratta di un semplice sistema di radiatori dipinti di nero e posizionati nella parte del telescopio non esposta all’irraggiamento solare. Questo permette a Spitzer di dissipare nello spazio il calore prodotto dalle strumentazioni e di mantenerle alla temperatura operativa di -29°C. Nel 2010 i tecnici della NASA sono inoltre riusciti a migliorare la stabilità del telescopio che una volta ogni ora subiva una piccola oscillazione causata dall’accensione di un riscaldatore. Per quanto di ampiezza modesta, questa vibrazione era sufficiente per compromettere l’osservazione di corpi celesti distanti migliaia di anni luce. Gli ingegneri sono quindi riusciti a modificare dalla Terra i tempi e le modalità di accensione del riscaldatore, riducendo sensibilmente gli scossoni. Però gli scienziati non erano ancora soddisfatti, e così nel 2011 si sono dedicati alla ricalibrazione del sensore di puntamento del telescopio: si tratta di un dispositivo che convoglia la luce catturata da Spitzer in uno spettrometro e che permette di effettuare le regolazioni di routine necessarie per poter inquadrare e seguire correttamente i corpi celesti. Grazie a questa modifica oggi i ricercatori sono in grado di effettuare il puntamento con una precisione di un quarto di pixel. Questi interventi hanno migliorato sensibilmente la stabilità di Spitzer, trasformandolo così in un fenomenale cacciatore di esopianeti… e la storia continua.

Chandra

Chandra è un telescopio orbitale della NASA per l’osservazione del cielo nei raggi X. Il telescopio è conosciuto anche col nome AXAF, Advanced X-ray Astrophysics Facility.

Portato nello spazio il 23 luglio 1999 a bordo dello Space Shuttle Columbia, fu messo in un’orbita insolita per un telescopio spaziale. Rispetto al telescopio spaziale Hubble, che ha un’orbita bassa, Chandra ha un’orbita ellittica che lo porta, nel punto più lontano, a 138mila chilometri dalla Terra e nel punto più vicino a 9.600 chilometri.

Il telescopio Chandra prende il nome dal fisico statunitense di origine  indiana Subrahmanyan Chandrasekhar (1910-1995).

Grazie al potente telescopio a raggi X, formato da quattro specchi, che fornisce immagini di definizione almeno 25 volte maggiori dei precedenti telescopi a raggi X, nei primi cinque anni di attività, Chandra ha fornito una grossa quantità di dati. Le scoperte fatte grazie alle osservazioni di questo potente telescopio riguardano una maggiore comprensione delle supernove, dei buchi neri, degli ammassi stellari e delle galassie.

Nel 2006, Chandra ha evidenziato le prime prove dirette dell’esistenza della materia oscura. Il satellite ha individuato anche l’eco prodotto dal buco nero al centro della Via Lattea. Quando del gas cade in un buco nero genera delle forti emissioni di raggi X. Le radiazioni originarie hanno raggiunto la Terra 50 anni fa ma una parte delle radiazioni sono state riflesse nello spazio e hanno preso un percorso più lungo arrivando sulla Terra 50 anni dopo e venendo rilevate dal satellite Inoltre Chandra ha evidenziato la presenza del buco nero più giovane mai osservato, SN 1979C, il quale possiede solamente 30 anni. L’attuale direttore di Chandra è l’astrofisico italiano Riccardo Giacconi, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 2002.

(15 – continua)

Giovanni Mongini