TERZO DAL SOLE – SOGNI E SPERANZE DELL’ANIMALE UOMO ALLA RICERCA DELLA VITA 10

CAPITOLO X: I NUOVI METODI

I Radiotelescopi

Un radiotelescopio è un telescopio che, a differenza di quelli classici che osservano la luce visibile, è specializzato nel rilevare onde radio emesse dalle varie radiosorgenti sparse per l’universo, generalmente grazie ad una grande antenna parabolica, o più antenne collegate.

Il campo dell’astronomia che si occupa della banda radio è detto, appunto, radioastronomia.

Allo scopo di poter captare le onde molto brevi, quelle ad altissima frequenza quali potrebbero essere i raggi X o Gamma, si è dovuta attendere la ricerca spaziale perché queste emissioni sono bloccate dall’atmosfera. La cosiddetta “finestra radio” che si estende, in lunghezza d’onda, da un millimetro a dieci metri, si è potuta rilevare solo da una cinquantina d’anni con l’avvento del radiotelescopio; per cui un radiotelescopio è, in linea di principio, costituito da un collettore di onde radio o più semplicemente antenna e da un rilevatore opportunamente inserito in quello che viene chiamato “il fuoco” del collettore ed è lo stesso principio del telescopio ottico il cui collettore è l’obiettivo e da rilevatore l’occhio munito da oculare o da un rilevatore fotografico o elettronico. Il collettore o l’antenna del radiotelescopio può essere composto da un gruppo di dipoli che altro non è che un’apparecchiatura molto simile a quelle che sono usate nelle comuni antenne TV ed è costituito da due bracci uguali aperti realizzati con un conduttore elettrico lineare su cui scorrono le correnti elettriche che irradiano il campo elettromagnetico a distanza, ma può anche essere un paraboloide metallico o, anche se più raramente, una superficie sferica o cilindrica. Ora, data la certezza che le onde elettromagnetiche “non vedono” buchi di dimensioni inferiori alla loro lunghezza d’onda, un’antenna per un tipo di onde decimetriche (300 MHz) o metriche (30MHz) può anche essere un traliccio con maglie convenientemente larghe. Talvolta il traliccio si trova in pieno Sole e i paraboloidi sono per lo più montati equatorialmente  il che, in pratica, vuol dire che si tratta di una montatura o sostegno di un telescopio che consente con un unico movimento, manuale o motorizzato, di “inseguire” l’oggetto o il segnale desiderato .Le montature equatoriali si dividono in più categorie. Quelle più grandi, invece’ hanno una montatura altazimutale e, per chiarire, in questo caso si tratterebbe di un sistema meccanico, in genere riferito ai telescopi, che sostiene lo strumento e permette di puntarlo seguendo movimenti paralleli all’orizzonte (azimut) e oggi è un computer che calcola, in base alle coordinate equatoriali e al tempo siderale, l’altezza e l’azimut del nostro obbiettivo e poi imprime, istante per istante le necessarie velocità di rotazione attorno al proprio asse in modo da poter seguire il movimento diurno della sfera celeste.

La potenza di questi strumenti cresce in modo direttamente proporzionale alla superficie del collettore. I radiotelescopi possono essere molto più grandi dei comuni telescopi perché occorre una ben diversa lavorazione per la superficie riflettente e la precisione che serve può anche essere ottenuta anche su un centinaio di metri di diametro.

Le radioonde non possono essere fermate da nubi e nemmeno intaccate dalla luce diffusa. I radiotelescopi funzionano perfettamente con un cielo con o senza nuvole e anche in pieno Sole.

Il radiotelescopio più potente è quello di Arecibo (Portorico) che ha un collettore sferico di 305 metri (abbiamo avuto modo di vederlo nel film Contact) ed è stato collocato dentro una conca naturale, invece il più grande paraboloide orientabile, cento metri di diametro, si trova a Effelsberg, in Germania. Nel 1972 tolse il primato a un radiotelescopio diventato famosissimo, quello di Jodrell Bank, che ha un diametro di 76 metri ed entro in funzione nel 1957 all’inizio della corsa allo spazio. Tutti questi colossali strumenti orientabili sono a montatura altazimutale e questo perché non sarebbe del tutto impossibile, ma sarebbe un’impresa costosissima, far ruotare questi giganti attorno ad assi obliqui rispetto al piano orizzontale.

Quindi possiamo dire che la radioastronomia, negli ultimi cinquant’anni, è stata in grado di mostrarci una nuova immagine del cielo che ci circonda ed è stata la principale protagonista di un’evoluzione nella conoscenza del cielo. Dobbiamo alla radioastronomia il rilevamento dei bracci a spirale della Galassia, la scoperta dei quasar e delle pulsar. Abbiamo avuto la possibilità di osservare il centro della Galassia che è sempre nascosta all’osservazione ottica, scoprendo in essa, come in altre, un buco nero. Sono stati scoperti alcuni dei segreti delle grandi nubi molecolari che popolano i bracci a spirale, trovandovi la presenza di numerose molecole organiche. I radiotelescopi a onde millimetriche hanno permesso, a loro volta, la scoperta di molecole come l’ossido di carbonio, l’acido cianidrico, l’alcool metilico e tante altre.

Le Nuove Frontiere della Fotografia Astronomica

Un sensore a “stato solido” è il nuovo protagonista della normale fotografia astronomica. Si tratta del CCD (Charge Coupled Device e cioè Dispositivo a scorrimento di Carica).

Il CCD è costituito essenzialmente da una piastrina di silicio ricoperta da uno strato isolante sul quale è stato tracciato un reticolo di conduttori e questo reticolo suddivide la piastrina in tanti reticoli detti pixel, ordinati per righe e colonne di una matrice. Quando la luce cade su un pixel viene assorbita e all’interno del silicio si generano degli elettroni in un numero che è esattamente proporzionale alla quantità di luce. Ora, questi elettroni restano imprigionati nel pixel per un certo periodo poi gli elettroni cominciano a scorrere da un pixel all’altro raggiungendo un’uscita dove vengono contati uno ad uno. A mano a mano che il conteggio procede, un registro elettronico, memorizza perfettamente il numero degli elettroni e la loro posizione sulla piastrina e con tutti questi dati, ordinati con precisione assoluta, abbiamo l’immagine memorizzata che il nostro obbiettivo aveva formato sul CCD e un computer la può ricomporre come se fosse un mosaico le cui tessere sono costituite da pixel. L’immagine può essere riprodotta su un monitor o anche su carta fotografica.

L’immagine che viene fornita dal CCD è in bianco e nero ma non è un grosso problema perché poi, usando la tricromia si possono ottenere i colori naturali usando tre esposizioni con filtri di colori diversi. Qualcosa di simile veniva fatto per i primi film a colori dove venivano unite tre stampe di colore diverso. In questo modo si possono costruire anche immagini in falsi colori che servono per evidenziare meglio dei particolari.

Il CCD possiede indubbiamente dei vantaggi a fronte del normale procedimento fotografico; infatti la fotografia rivela non più di due o tre fotoni ogni cento, mentre il CCD può rivelarne fino al 70/80% e per ottenere questo risultato ci vorrebbero ore di pose mentre, con questo nuovo sistema, bastano pochi minuti. La taratura dell’intensità della luce è automatica e precisa e inoltre, con questo sistema, la riproduzione ha un’intensità migliaia di volte maggiore. In altre parole è estremamente più nitida ed ha una sensibilità cromatica molto più estesa.

Sin dalla sua nascita il CCD ha avuto largo uso in campo astronomico, dimostrando subito le enormi potenzialità rispetto alla fotografia tradizionale. Gli osservatori astronomici si sono dotati di questo strumento anche per velocizzare e rendere più precise le osservazioni astronomiche; anche l’immagine catturata dallo specchio di 2,4 m di diametro del Telescopio Spaziale Hubble viene focalizzata su un CCD di 8 MPx. Il telescopio Pan-STARRS sviluppato per individuare i potenziali asteroidi in rotta di collisione con la Terra ha una serie di 60 CCD che generano 1,4 Gpx e quindi ha il CCD con più alta risoluzione del pianeta.

L’abbattimento dei costi, inizialmente molto alti, ha permesso negli ultimi anni la diffusione dei CCD anche in campo amatoriale. Sempre più astrofilisi dotano di un CCD per le riprese, consentendo risultati in passato impensabili per un non professionista. Per ottenere le immagini desiderate, il dispositivo viene applicato al fuoco del telescopio.

Il CCD per uso astronomico, contrariamente ai CCD utilizzati per le videocamere, webcam, macchine fotografiche, deve avere, causa le lunghe esposizioni, il minimo rumore di fondo e quindi ridurre la sua componente più importante: il rumore termico. Per ottenere tale risultato è necessario utilizzare CCD con elettronica progettata appositamente per tale scopo, con la possibilità di potersi interfacciare ad un dispositivo di raffreddamento (normalmente è una cella di Peltier), che consente di mantenere il dispositivo ad una temperatura molto bassa. Quando il sensore CCD è mantenuto ad una temperatura più bassa, la qualità delle immagini migliora, in quanto si riduce il rumore termico generato all’interno del dispositivo stesso.

Negli ultimi anni si è venuta ad affermare un’altra tecnica di utilizzo del CCD in astronomia per oggetti non troppo deboli, come la Luna ed i pianeti. Questa tecnica prevede di eseguire una lunga serie di riprese del soggetto, e successivamente, con appositi software, sommare tali riprese in modo che il rumore di fondo vada a scomparire (in quanto casuale) e venga esaltata l’immagine del corpo celeste ripreso. Questa tecnica ha di fatto permesso ai modesti strumenti amatoriali di ottenere riprese di grande qualità, confrontabili, qualche volta, con quelle prodotte dagli strumenti professionali.

L’Astronomia Spaziale

Attraverso i secoli l’esplorazione della volta stellata ha avuto principalmente tre esploratori: gli occhi degli studiosi che durante lunghe notti e lunghi giorni scrutavano lo spazio infinito per cercare di capire quale fosse il vero significato di quei punti nel cielo e la vera natura del Sole e della Luna. Al di là di ogni tentativo di deificazione gli antichi furono gli scopritori di quei pianeti che conoscevano fin dall’antichità: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Gli unici, in effetti che potessero essere visibili ad occhio nudo.

Le osservazioni più antiche del pianeta Mercurio di cui si ha traccia storica sono riportate nelle tavole MUL APIN, eseguite probabilmente da astronomi assiri intorno al XIV secolo a.C. Il nome utilizzato per designare Mercurio in tali testi, redatti in scrittura cuneiforme, è trascritto come Udu. Idim. Gu\u4.Ud, cioè “il pianeta saltellante“. Le registrazioni babilonesi risalgono al I millennio a.C. I Babilonesi chiamarono il pianeta Nabu (o Nebo), dio della scrittura e della saggezza nella loro mitologia

Il nome Mercurio deriva dalla mitologia romana, e sebbene fosse di derivazione etrusca (Turms), era il corrispondente del dio greco Ermes, che secondo la mitologia greca era nato da una relazione fugace tra Zeus e Maia, la più bella delle Pleiadi. Solitamente rappresentato come un giovane snello e atletico con in capo un elmetto alato, simbolo di velocità; era infatti considerato il veloce messaggero degli dei, così come il pianeta è il più rapido nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole. Mercurio ruota infatti attorno alla nostra stella in appena 88 giorni, e per la sua vicinanza al Sole può essere osservato solo per brevi periodi all’alba o al tramonto. Nella mitologia romana Mercurio possedeva caratteristiche simili a Hermes, e inoltre era il protettore del commercio e dei ladri, nonché simbolo della medicina. Dato il suo veloce movimento apparente in cielo Mercurio rimane solo 7,33 giorni in ogni costellazione dello zodiaco e astrologicamente è il pianeta dominante del segno dei Gemelli (domicilio diurno) e della Vergine (domicilio notturno). Esso governa la comunicazione, la razionalità, la rapidità, l’astuzia, l’intelligenza e l’apprendimento rapido. Nell’astrologia cinese, Mercurio domina l’acqua, uno dei 5 elementi essenziali assieme a legno, fuoco, terra e metallo e che simboleggia la vita e la purificazione.

Da quando cominciò l’esplorazione dello spazio e cioè nel 1957 con il lancio del primo Sputnik Sovietico, Mercurio è stato visitato da alcune sonde spaziali che hanno ottenuto, risultati impensabili con i normali mezzi sulla Terra e questo vale per tutto il sistema solare mai così ben conosciuto come oggi…e non è finita.

Mercurio è stato visitato per la prima volta nel 1974 dalla sonda statunitense Mariner 10, che ha teletrasmesso a terra fotografie registrate nel corso di tre successivi sorvoli. Concepito per l’osservazione di Venere e Mercurio, il Mariner 10 venne lanciato il 3 novembre 1973 e raggiunse il pianeta nel 1974. La sonda statunitense si avvicinò fino ad alcune centinaia di chilometri dal pianeta, trasmettendo circa 6.000 fotografie e mappando il 40% della superficie mercuriana.

La NASA ha lanciato nel 2004 la sonda Messenger, il cui primo passaggio ravvicinato di Mercurio, avvenuto il 14 gennaio 2008, è stato seguito dal fly-by dell’ottobre 2008 ed è stato replicato il 29 settembre 2009 prima dell’ingresso in orbita attorno al pianeta: il 18 marzo 2011. In seguito al primo fly-by di Mercurio, la sonda Messenger ha inviato a terra le prime immagini dell’emisfero “sconosciuto” di Mercurio. Per il 2017 è invece previsto il lancio, da parte dell’ESA, della missione spaziale Bepi Colombo, così battezzata in onore dello scienziato, matematico e ingegnere Giuseppe Colombo (1920-1984), volta esclusivamente all’esplorazione del pianeta più interno

A causa della sua totale mancanza di atmosfera il cielo del pianeta è sempre nero, illuminato da un sole cocente grande tre volte quello da noi visto sulla Terra. Le escursioni termiche sono tra le più violente del Sistema Solare e quindi le possibilità di vita su questo, piccolo, butterato mondo calcinato dal Sole e spaccato dal gelo e con molti crateri da impatto, è pari a zero.

Non è una meta per l’uomo, non per l’uomo di domani, comunque, forse di dopodomani.

Essendo uno degli oggetti più luminosi nel cielo, Venere è conosciuto sin dall’antichità e ha avuto un significativo impatto sulla cultura umana. È descritto dai Babilonesi in svariati documenti in scrittura cuneiforme, come il testo detto la Tavoletta di Venere di Ammi-Saduqa. I Babilonesi chiamarono il pianeta Ishtar, la dea della mitologia babilonese (connaturata con la dea Inanna dei Sumeri), personificazione dell’amore ma anche della battaglia. Gli Egizi identificavano Venere con due pianeti diversi, e chiamavano la stella del mattino Tioumoutiri e la stella della sera Ouaiti. Allo stesso modo, i Greci distinguevano tra la stella del mattino Φωσφόρος, o Phosphoros, e la stella della sera Ἓσπερος, o Hesperos; tuttavia, nell’epoca Ellenistica, si comprese che si trattava dello stesso pianeta. Hesperos fu in seguito tradotto in Latino come Vespero e Phosphoros come Lucifero “portatore di luce“, termine poetico in seguito utilizzato per l’angelo caduto allontanato dal cielo.

Gli Ebrei chiamavano Venere Noga (“luminoso”), Helel (“chiaro”), Ayeleth-ha-Shakhar (“cervo del mattino”) e Kochav-ha-’Erev (“stella della sera”).

Venere era importante per la civiltà Maya, che sviluppò un calendario religioso basato in parte sui suoi movimenti, e si basava sulle fasi di Venere per valutare il tempo propizio per eventi quali le guerre. Il popolo Maasai definì Venere Kileken, e ha una tradizione orale, incentrata sul pianeta, denominata “Il bambino orfano“. Venere ha un ruolo significativo nelle culture degli australiani aborigeni, come i Yolngu nell’Australia del Nord. Gli Yolngu si radunavano per aspettare la comparsa di Venere, che chiamavano Barnumbirr, e che, secondo la tradizione, permetteva di comunicare con i propri cari morti.

Nell’astrologia occidentale, influenzata dalle connotazioni storiche legate alle divinità dell’amore, si riteneva che Venere influenzasse questo aspetto della vita umana. Nell’astrologia indiana del Veda, Venere è nota come Shukra, ovvero “chiara, pura” in Sanscrito. Gli antichi astronomi cinesi, coreani, giapponesi e vietnamiti chiamavano il pianeta “la stella (o astro) d’oro“, collegandolo al metallo nella teoria dei cinque elementi cinesi. Nella spiritualità Lakota Venere è associata con l’ultima fase della vita e con la saggezza.

A dispetto di alcune somiglianze per cui era stato chiamato “il gemello della Terra, ne rappresenterebbe, forse il suo futuro. Le condizioni sulla superficie venusiana sono molto differenti da quelle terrestri a causa della spessa atmosfera di anidride carbonica, la più densa tra tutti i pianeti terrestri: l’atmosfera di Venere, infatti, è costituita per il 96,5% da anidride carbonica, mentre il restante 3,5% è composto soprattutto da azoto. La notevole percentuale d anidride carbonica è dovuta al fatto che Venere non ha un ciclo del carbonio per incorporare nuovamente questo elemento nelle rocce e nelle strutture di superficie, né esistono organismi (come le piante sulla Terra) che la possano assorbire in biomassa. È proprio l’anidride carbonica ad aver generato un potentissimo effetto serra, a causa del quale il pianeta è divenuto così caldo che si ritiene che gli antichi oceani di Venere siano evaporati, lasciando una asciutta superficie desertica con molte formazioni rocciose. Il vapore acqueo si è poi dissociato a causa dell’alta temperatura e a causa dell’assenza di una magnetosfera, il leggero idrogeno è stato diffuso nello spazio interplanetario dal vento solare.

La pressione atmosferica sulla superficie del pianeta è pari a 92 volte quella della Terra ed è dovuta per la maggior parte all’anidride carbonica e ad altri gas serra. Il pianeta è inoltre ricoperto da un opaco strato di nuvole di acido solforico, altamente riflettenti che, insieme alle nubi dello strato inferiore, impediscono la visione della superficie dallo spazio. Questa impenetrabilità ha originato molteplici discussioni, perdurate fino a quando i segreti del suolo di Venere non furono rivelati dalla planetologia nel ventesimo secolo.

La mappatura della sua superficie è stata possibile attraverso i dati forniti dalla sonda Magellano tra il 1990 e il 1991. Ne è risultato un suolo con evidenze di estensivo vulcanismo; anche la presenza di zolfo nell’atmosfera poteva essere un indizio di eruzioni recenti. Però l’assenza di flussi lavici accanto alle caldere visibili rimane un problema.

Il pianeta mostra pochi crateri da impatto, il che depone a favore di una superficie relativamente giovane, sui 300-600 milioni di anni. La mancata evidenza di attività tettonica viene collegata alla notevole viscosità della crosta, dovuta all’assenza dell’effetto lubrificante provocato dall’acqua, il che rende più difficile la subduzione, cioè si tratta un fenomeno geologico che ha un ruolo chiave nella teoria della tettonica delle placche. Ci può tuttavia essere una perdita di calore interno in seguito a importanti eventi periodici di affioramento.

È oggi noto che Venere possiede una superficie rovente sulla quale insiste un’atmosfera corrosiva con un’altissima pressione. In passato questi dati erano tuttavia sconosciuti e ciò lasciò campo aperto a qualsiasi ipotesi. Carl Sagan teorizzò, per esempio, che Venere fosse coperta da un oceano non di acqua, ma di idrocarburi. Altri studiosi ritenevano che il pianeta fosse ricoperto da paludi mentre altri ancora ipotizzavano un mondo desertico. Gli scienziati sovietici delle missioni Venera erano così propensi ad aspettarsi un oceano che sulla sonda Venera 4, lanciata nel 1967, installarono un morsetto fatto di zucchero bianco raffinato che, a contatto con l’acqua (o un altro fluido dotato della giusta composizione e temperatura), si sarebbe sciolto facendo scattare l’antenna che con questo stratagemma si sarebbe salvata dall’affondamento della sonda. Ma su Venere la sonda Venera 4 non solo non trovò un oceano, ma non raggiunse neppure la superficie. Smise infatti di trasmettere quando la pressione atmosferica superò le 15 atmosfere, soltanto una frazione delle 93 atmosfere presenti sulla superficie del pianeta. Si trattava, comunque, di un risultato straordinario: per la prima volta un veicolo costruito dall’uomo aveva comunicato dati relativi all’analisi delle condizioni di un ambiente extraterrestre. I sovietici studiarono quindi una sonda più resistente. Il team di V. G. Perminov ipotizzò dapprima che tale sonda dovesse resistere a una pressione di 60 atmosfere, quindi di 100 e infine di 150 atmosfere. Per tre anni, il team di Perminov testò le sonde in condizioni estreme e, per simulare l’atmosfera di Venere, costruì la più grande pentola di Papin del mondo: in pratica una pentola a pressione gigantesca in cui le sonde venivano immesse finché non si schiacciavano o fondevano. Venera 7 fu costruita per sopportare una pressione di 180 atmosfere, e lanciata il 17 agosto 1970 il 15 dicembre dello stesso anno trasmise il segnale tanto atteso. La prima sonda costruita dall’uomo era atterrata su un altro pianeta e aveva comunicato con la Terra. Nel 1975 i sovietici inviarono la sonda Venera 9 equipaggiata con un disco frenante per la discesa nell’atmosfera e di ammortizzatori per l’atterraggio, che trasmise immagini in bianco e nero della superficie di Venere, mentre le sonde Venera 13 e 14 rimandarono le prime immagini a colori di quel mondo.

Nel 1978 gli statunitensi lanciarono diverse sonde separate verso Venere, nell’ambito del progetto Pioneer Venus, per lo studio in particolar modo dell’atmosfera venusiana. Negli anni Ottanta i sovietici proseguirono invece con le sonde Venera: le Venera 15 e 16 lanciate nel 1983 e dotate di radar ad apertura sintetica, mapparono l’emisfero nord del pianeta rimanendo in orbita attorno ad esso. I sovietici lanciarono anche, nel 1985, le sonde Vega 1 e 2, rilasciarono moduli sulla superficie, prima di andare verso l’incontro con la cometa di Halley, l’altro oggetto di studi di quelle missioni. Vega 2 atterrò nella regione Aphrodite raccogliendo un campione di roccia contenente Anortosite-troctolite, materiale raro sulla Terra ma presente negli altopiani lunari

Nel 1990 la NASA, utilizzando lo Space Shuttle, lanciò verso Venere la Sonda Magellano, dotata di radar che permise una mappa quasi completa del pianeta, con una risoluzione nettamente migliore rispetto alle precedenti missioni, lavorando per ben 4 anni prima della caduta e della conseguente distruzione nell’atmosfera venusiana, anche se qualche frammento potrebbe essere arrivato in superficie. Negli ultimi decenni, per risparmiare combustibile, Venere è stato spesso usato come fionda gravitazionale per missioni dirette verso altri pianeti del sistema solare, come nel caso della Galileo, diretta verso Giove e le sue lune, e la Cassini-Huygens, diretta all’esplorazione del sistema di Saturno e che effettuò due fly-by con Venere tra il 1998 e il 1999, prima di dirigersi verso le regioni esterne del sistema solare.

Venus Express, lanciata nel 2006, ha eseguito una mappatura completa della superficie, e nonostante fosse inizialmente prevista una durata della missione di due anni, essa è stata estesa fino al dicembre del 2014.

Siamo nel campo delle ipotesi e, grazie a queste la scienza può postulare forma di vita anche in un mondo infernale come il pianeta Venere. Infatti alcuni ricercatori dell’università del Texas hanno studiato i dati riportati sulla Terra dalle sonde Venera (russa) e Pioneer Venus e Magellano (statunitensi) e sono giunti alla conclusione che la concentrazione di alcuni composti dello zolfo (solfuro di idrogeno e biossido di zolfo) nelle nubi di Venere possa essere dovuta alla presenza di organismi viventi che li producono. Inoltre fanno osservare che nell’atmosfera di Venere non esiste quasi monossido di carbonio, e che forse gli organismi viventi sul pianeta lo utilizzano per il loro metabolismo. Nati quando le condizioni su Venere erano migliori, questi organismi si sarebbero rifugiati in “nicchie” particolari una volta iniziato il terribile effetto serra che ha ridotto il pianeta a un inferno bollente.

Missioni attuali e future

Planet-C, o Venus Climate Orbiter, è una sonda giapponese che, seguendo la tradizione nipponica, è stata ribattezzata dopo il lancio col nome di Akatsuki ed è stata lanciata il 20 maggio 2010 dal Tanegashima Space Center. Avrebbe dovuto entrare in orbita attorno a Venere nel dicembre del 2010, con lo scopo di studiare la dinamica dell’atmosfera venusiana, ciononostante, a causa di un problema col computer di bordo, la manovra fallì. Non avendo subito gravi danni la sonda è riuscita ad entrare in orbita attorno al pianeta nel dicembre 2015.

Tra le missioni candidate per il decennio 2013-2022, nell’ambito del Programma New Frontiers della NASA, la Venus In-Situ Explorer era una delle candidate possibili da scegliere, tra vari progetti esplorativi proposti. La missione comprendeva lo studio chimico-fisico della sua crosta e l’analisi della sua atmosfera, con campioni del suolo venusiano da prelevare e studiare sul posto, visti gli alti costi che comporta riportare sulla Terra eventuali campioni. Inizialmente programmata per essere lanciata nel 2013, venne poi data la priorità alla missione OSIRIS-REx, che sarà lanciata nel 2016 e si dedicherà all’esplorazione degli asteroidi.

Venera-D è un progetto dell’Agenzia Spaziale Russa, che inizialmente prevedeva l’atterraggio di un lander sulla superficie nel 2014. Tuttavia in fase di riprogettazione della missione, dopo i fallimenti delle sonde Phobos, il progetto perse priorità rispetto ad altre missioni, all’interno del programma spaziale russo e, dopo che il lancio è stato rimandato al 2024, nell’agosto del 2012 si è deciso di posticipare la missione al 2026. Il 26 novembre del 2013 la NASA ha lanciato anche il Venus Spectral Rocket Experiment (VeSpR), un telescopio spaziale in orbita attorno alla Terra per lo studio dell’atmosfera di Venere nell’ultravioletto, non possibile dalla Terra in quanto l’atmosfera terrestre assorbe la maggior parte dei raggi UV.Lo scopo degli scienziati è individuare la quantità di atomi di idrogeno e deuterio rimasti nell’atmosfera venusiana, per ricostruire la storia del pianeta e capire se effettivamente esisteva una grande quantità di acqua nel passato come gli astronomi ipotizzano.

Quindi dai dati raccolti anche qui le possibilità di vita di qualunque tipo devono considerarsi zero. Malgrado questo gli uomini hanno preparato dei piani per il futuro.

Considerando le sue condizioni estremamente ostili, una colonia sulla superficie di Venere è fuori portata con le attuali tecnologie e anche la sola esplorazione umana è più ardua rispetto a quelle sulla Luna e su Marte, anche perché Venere è stato meno studiato: in superficie calore e pressione non hanno permesso a sonde spaziali di funzionare che per brevi periodi, ma non si conoscono bene nemmeno i dettagli del suo strato atmosferico situato a 50 chilometri d’altezza, dove la pressione atmosferica e la temperatura sono simili a quelle terrestri.

In passato sono state avanzate varie teorie, come quella della terra-formazione, eliminando l’anidride carbonica dell’atmosfera per diminuire l’effetto serra, oppure tramite uno scudo solare, entrambi metodi per diminuire la temperatura in superficie, mentre per il problema dell’acqua, è stato proposto come fattibile con l’introduzione di grandi quantità d’idrogeno, che si legherebbe all’ossigeno formando acqua. Un’altra teoria prevede l’esistenza di città galleggianti e habitat aerostatici, come proposto da Geoffrey A. Landis, approfittando del fatto che l’aria respirabile, costituita da ossigeno e azoto, è più leggera dell’atmosfera venusiana e produrrebbe una spinta verso l’alto, mantenendo in sospensione una cupola abitata. Come detto mancano però studi sull’alta atmosfera, in quanto a quelle altezze la quantità di acido solforico presente potrebbe essere particolarmente dannosa.

Ora prima di procedere nella nostra missione per la ricerca della vita, torniamo indietro, molto indietro nel tempo. In principio…

(10 – continua)

Giovanni Mongini