IL (NEO)NOIR NEL XXI SECOLO, APPUNTI SMEMBRATI

Veleggiammo verso la Walpurgisnacht

J. Ellroy

Neo.

Post.

Outside.

Hotel Room.

Gente di notte.

Lost.

Highway.

Polifonie divagatorie & mosche da bar.

Flash-back, flash forward.

Fughe psicogene.

Smarrimenti.

Precarietà.

Ansietà.

Incertezza.

Dominio flessibile.

Azienda totale.

Precariato totale.

Il noir (classico) era un impasto di espressionismo tedesco anni ’20, realismo poetico francese anni ’30 e gangster/horror movie hollywoodiani anni ’40.

(Era tutte queste cose insieme più un quid indefinito, perché ognuna di queste cose da sole non fa noir.)

Il noir fin da subito come un ibrido di generi – oltre le etichette – inclassificabile, difficile da afferrarne la matrice originale, il tratto distintivo o unificante.

Una manciata di pellicole e poi diventa un’altra cosa, magari somigliante, magari opposta.

Il noir come manierismo angosciante, ossia più affine alla creazione che alla riflessione, al film tesi.

Un nuovo mondo (d’incubo) più che un riflesso sociologico sul/dal reale.

Il noir (degli anni ’40 americani) era forma sul contenuto, era rottura sperimentale dell’illusione (sempre consolatoria) della formula hollywoodiana del film come racconto riconciliatorio col reale, identificativo, mimesi del quotidiano.

Il noir rilancia(va) sulla complessità e imperscrutabilità del mondo, di un mondo popolato da ombre proiettate su highway (dark passage) esistenziali (Camus & Sartre? O Jim Thompson e la poetica dei freaks?) piene di buche, deragliamenti, detour, paure, incubi, dubbi.

Ciò che si smarrisce è l’identità.

Più volte messa in crisi, ridiscussa.

Persa per sempre.

Il detective, l’uomo comune, il fuggiasco, il precario dell’outlet ne sono un esempio.

Il noir, proprio perché mutaforme, è inclassificabile.

Il genere, per questo, più bello e difforme.

Sulla Repubblica di venerdì 18 Luglio, Sepulveda parla dell’ucronia del noir, ossia della sua capacità intrinseca di frugare nelle pieghe del reale e portare a galla il marciume, i significati nascosti sotto il tappeto. Rolo Diez. J.P. Manchette. Henning Mankell. Paco Taibo II. Fred Vargas. Stieg Larsson. Jo Nesbo.

Questa la squadra di Sepulveda.

Il noir come politica messa a nudo da Montalban.

Il noir nell’Europa stritolata dalla Germania.

Personalmente

La

Vedo

In

Modo

Diverso.

Il noir, col reale, centra poco, nulla.

Lo spazio e il tempo del noir sono quelli del sogno.

Dell’incubo.

Della perdita dei confini.

E di tutte le certezze.

Detour.

Lo sconosciuto del terzo piano.

La settima vittima..

Dementia di John Parker, il più bello assieme a quello di Ulmer e di Lynch, poi.

Per questo, intimamente, è un genere non delimitabile.

Negli anni ’50 e ’60, il noir divenne più realistico.

Fu un passaggio.

Un modo come un altro.

Ma la polpa era tutta in quella dozzina di pellicole del decennio precedente.

Per fare un noir non serve la mafia, un detective, un gangster o una pistola.

Il noir è una forma che sopravanza sul contenuto.

Lo mette in secondo piano.

E la forma è un’atmosfera.

Una sensazione.

In letteratura sarà espressa da descrizioni.

Aggettivi più che nomi.

Avverbi più che verbi.

Ambienti.

Denis Johnson di Jesus’ son.

Steven Wright di Partenze notturne.

Lello Voce di Cristo elettrico.

Alexander Trocchi de Il libro di Caino.

Barry Gifford di Port Tropique.

Paolo Caredda, In un’altra parte della città.

Per fare nomi di oggi ed evitare i soliti, conosciuti.

Al cinema possiamo usare il buio per pennellare il quadro, annegare le figure, i personaggi, le storie.

Oggi è la tecnologia digitale a prenderci per mano.

Montaggi frenetici, commistione tra animazione e riprese dal vero.

Il contenuto spinge sull’autoparodia, la consapevolezza dei generi e delle loro regole, sempre frangibili, superabili, riscrivibili.

E’ l’epoca del post, del global.

Del consumo.

Eppure il noir ha saputo esprimere meglio di altri generi il presente e la sua rarefazione nelle pieghe del sogno.

Meglio dell’horror, ormai privo della sua carica eversiva, ormai troppo commerciale, rassicurante, prevedibile.h

Su questa autoparodia, dicevo, collasso dei generi gli uni dentro gli altri, pensiamo a Pulp Fiction, a Sin City.

Ma aldilà della tecnica è sempre l’atmosfera a pompare il nero dentro le storie.

Il senso assoluto di precarietà e perdita di certezze.

Oggi come nei ’40 è dietro l’angolo.

Sono personaggi smarriti quelli di Memento, di Shutter Island, del bellissimo Identità di James Mangold e di Irreversible di Noé.

Tutti alla ricerca di un brandello di reale a cui aggrapparsi per ricostruire le proprie traiettorie personali, le proprie storie. Spesso, nello smarrimento emergono dei doppi inquietanti, proiezioni inconsce del nostro bisogno di restare umani.

La lotta coi doppi è sempre mortale.

Pensiamo al Cigno Nero (il doppio viene dall’altra parte dello specchio), a Collateral (il doppio è l’altro, lo sconosciuto, il passeggero potenziale di ogni collisione metropolitana), a History of violence (il doppio viene dal proprio passato e ci presenta il conto), a Mulholland Drive (i doppi vengono da un’altra dimensione), a Scanner Darkly (i doppi sono frutto della paranoia e dell’eroina) o Inland Empire (il bisogno di sdoppiarsi per rivivere la propria vita, per migliorarla, per proiettarsi altrove).

E quello che non si portano via le ombre o i buchi della memoria finisce in pasto alle sabbie mobili dell’inazione.

Rosicchiati dal tempo dell’azienda totale, ai nostri eroi non resta altro che un ultimo balbettio prima dell’afasia finale. Afasico è il pilota di Drive, noir beckettiano losangelino.

Smarrito nelle proprie maschere interiori il Batman de Il cavaliere oscuro – Il ritorno di Nolan (autore di cui raccomanderei la filmografia completa per una psico-geografia del perturbante contemporaneo).

Nel noir di oggi è impossibile raccontare una storia linearmente.

Il tempo è una finzione esplosa.

Salta, procede avanti e indietro.

Eternamente riavvolgibile.

Il tempo de Il capitale umano di Virzì.

Di Femme fatale di De Palma.

Di Niente da nascondere di Haneke.

Ognuno di noi è in balia di un destino senza senso, come Non è un paese per vecchi.

Rimane un amaro in bocca.

Un’aria scura, nera, appunto noir.

Neo.

Post.

Outside.

Una brezza leggera che fa ondeggiare l’erba alta.

Dietro l’erba intravediamo fast-food senz’anima, pompe di benzina, campi di roulotte, caravan, fabbriche dimesse, ruggine. Plastica, muffa, mutui.

I veri boschi e le vere paludi (della morte) non esistono più.

Solo la mezzeria illuminata dai fari di un’automobile.

Stiamo viaggiando lungo una vecchia strada a due corsie che attraversa un paesaggio desertico.

Un paesaggio da antropologia neo-liberista che ci riguarda tutti, producendo individualismi aggressivi, competizione tra i più deboli, solitudini rabbiose, abissi di patriottismi condominiali e indifferenza a pacchi.

Questa inquietante soggettiva è la nostra.

Questa strada è quello che vi aspetta.

Davide Rosso