E POI VENNE IL COMPUTER… MA SOLO POI – PARTE 16 – ALIEN (1979)

Durante il periodo estivo e autunnale dell’anno 1978 non era possibile entrare nei famosi stabilimenti Shapperton, in Inghilterra, senza uno speciale lasciapassare perché ben quattro dei maggiori teatri di posa erano impegnati per le riprese di Alien. In essi vi erano tutti gli interni della Nostromo, compresa la complessa sala dei comandi per i quali sono occorsi i lavori di una équipe di duecento operai e tecnici con mesi di lavoro per dare una impressione credibile al tutto.

In un altro teatro di posa è stata ricostruita la superfice del planetoide illuminata da una fredda luce bluastra e composta da tonnellate di gesso, con fibra di vetro, ghiaia, pietra e… ossa.

Ogni volta che il programma di riprese della giornata prevedeva la figura dell’alieno i “pass” non valevano per nessun visitatore ma solo per i componenti della troupe che, quel giorno, dovevano occuparsi delle riprese.

Il soggetto di Alien proviene da una sceneggiatura metà scritta da Dan O’Bannon dal titolo “Memory” e, come seconda parte, da una storia ambientata nella seconda guerra mondiale circa dei sabotatori che si introducevano su un B-17 durante il conflitto e che O’Bannon modificò adattandola su un’astronave. Ma Dan era stato così impressionato dai disegni e dai dipinti di Hans Rudi Giger da pensare a lui mentre scriveva la storia di Alien. Inizialmente il titolo della storia era “Star Beast” e da principio doveva essere la storia di una piccola astronave con uno sparuto equipaggio che atterrava in un piccolo pianeta dove avrebbe trovato una piccola piramide e una creatura mostruosa ma grande come un normale essere umano: insomma la storia era pensata, come si è visto, in piccolo, per una altrettanto piccola produzione. Eppure il soggetto piacque subito in giro e le offerte furono parecchie ma O’Bannon, dopo molte esitazioni, si decise a firmare per la Brandwine Productions che era diretta da Gordon Carroll e dai due sceneggiatori e registi Walter Hill e David Giler. Il progetto decollò perché la Brandwine firmò un accordo di produzione con la 20th Century Fox ed il budget di Alien levitò fino a otto milioni di dollari. Con queste cifre non deve sembrare strano che, nei momenti di massimo lavoro, la troupe raggiungesse il numero più che rispettabile di trecento persone.

La squadra dei tecnici diretta da Brian Johnson e Nick Allder spese migliaia di ore per produrre i modellini della Nostromo. Il più piccolo di questi misurava circa 35 centimetri e si calcoli che la scala sarebbe di uno a ottocento il che, tradotto in termini più pedestri, porterebbe le reali misure della Nostromo a duecentocinquanta metri di nave spaziale, ben diversa dal “piccolo” veicolo iniziale previsto dagli autori.

All’inizio furono fatti molti tentativi su come rappresentare il mostro, nacquero così molte versioni di Alien: una specie di piovra, un dinosauro dall’aspetto piuttosto rachitico, una sottospecie di “tacchina natalizia”. Allora O’Bannon si ricordò di Giger e dei suoi dipinti e li fece vedere a Ridley Scott il quale ne fu entusiasta. E Giger si mise subito al lavoro disegnando i tre stadi della creatura aliena, la superfice del planetoide, l’astronave aliena e il pilota extraterrestre incorporato nella sua sedia.

Tornando ai modelli della astronave Nostromo fu realizzato anche un imponente modello di quattro metri, rifinito con abbondanza di particolari intorno al quale la macchina da ripresa girava attorno filmandolo. Il risultato di questo tipo di riprese è sempre quello che sembra sia l’astronave a muoversi e non la macchina da presa. Naturalmente, come era ormai diventata prassi normale, per la costruzione del modellino della Nostromo furono utilizzati parti e pezzi di carri armati, corazzate e bombardieri della Seconda Guerra Mondiale. Per rendere più credibili le torri-cisterna della nave spaziale vi furono incollati sopra una grande quantità di pezzi che sporgessero appositamente da tutte le parti. Poi furono eseguiti i lavori di rifinitura sul corpo base della nave fatto in legno e plastica. Il lavoro totale previde tre Nostromo, oltre a quella detta di trentacinque centimetri che serviva per le riprese in campi lunghi e medi e a quella gigante pesante sette tonnellate usata per le sequenze ravvicinate e le scene sul planetoide, ne fu costruita una di circa un metro e venti per le scene posteriori, quando cioè era necessario mostrare i getti di scarico dei reattori per cui gli stessi erano rivestiti di metallo perché non fondessero per il calore. I modelli venivano filmati da una cinepresa posta su rotaie che riprendeva le immagini a due fotogrammi e mezzo al secondo al posto dei canonici ventiquattro in questo modo e solo in questo modo, all’epoca, era possibile ottenere immagini nitide senza le normali sfocature che si sarebbero ottenute girando a passo normale e a distanza così ravvicinata.

Per quanto riguarda gli interni della nave, per dare un aspetto assolutamente realistico al tutto, i tecnici ricoprirono il set di tubi, fili elettrici, interruttori e qualunque cosa del genere fosse possibile trovare, il tutto fu poi verniciato di verde militare e tappezzato da iscrizione di ogni tipo. Il quadro comandi è fatto con pezzi di aeroplano con un numero incommensurabile di levette inserito in ogni dove, il tutto inondato di decalcomanie con un risultato assolutamente veritiero.

Alcuni progetti, malgrado l’ampio budget, non poterono essere realizzati proprio per i costi eccessivi. Si era pensato inizialmente, infatti, a un ponte di comando dotato di grandissimi finestroni, in questo modo, all’attivazione del computer, sarebbe stato possibile vedersi spalancare le finestre e apparire il pianeta che ruotava attorno al suo asse, ma, come detto, dati gli alti costi di una immagine simile, ci si dovette accontentare del solito, si fa per dire, schermo video. Eppure, alcune delle apparecchiature del ponte di comando funzionavano davvero come le poltrone che scivolano in avanti o all’indietro, i lanciafiamme, il bisturi laser e la fiocina. Anzi, nella scena della scomparsa di Dallas, l’attore che stringeva in mano il lanciafiamme si girava, a un certo punto, verso la macchina da presa: se avesse sbagliato i tempi avrebbe mandato arrosto Ridley Scott e l’operatore.

Un discorso a parte meritano le tute spaziali, disegnate da Moebius come se fossero armature medioevali giapponesi: per accentuarne la somiglianza furono tutte istoriate da disegni in stile nipponico. In più, per dare loro un aspetto ancora più realistico esse espellevano anidride carbonica da un’apertura posta sulla cima del casco.

L’astronave aliena, un disegno come abbiamo detto di H. R. Giger, ricordava in ogni suo punto il suo concetto di biomeccanica come lui stesso la chiamava e cioè esseri che sono metà organici e metà meccanici. Così è per la nave aliena il cui interno era alto più di dodici metri e che da solo occupava quasi tutto uno dei teatri di posa: ebbene, l’oscurità della scena non ha forse permesso di osservare bene le nervature orizzontali che ricoprono le pareti e che sono separate nel mezzo da una specie di armatura, esse ricordano volutamente le costole umane e l’armatura centrale fa pensare a una colonna vertebrale. Gli ingressi che portano all’interno del relitto ricordano molto da vicino delle vagine. Osservato dall’alto, poi, il veicolo alieno ha l’aspetto di un osso e di ossa vere è fatto l’extraterrestre incorporato nel suo sedile a cui è stata aggiunta plastilina e fibra di vetro. Il disco sul quale poggiava il suo sedile poteva ruotare su sé stesso e questo permetteva di riprendere la scena da diverse angolazioni. La lavorazione del progetto e della figura dell’alieno fu una delle più originali e, nello stesso tempo più curiose storie della cinematografia di fantascienza. Giger chiese alla segretaria di produzione di procurargli delle ossa ed essa, pur stupita della richiesta, si affrettò ad accontentarlo per cui, un bel giorno, arrivarono nello studio dei camion carichi di casse che contenevano ossa di ogni genere. I trovarobe avevano saccheggiato negozi, sanitari, ospedali, macellerie, musei e forse, erano diventati dei violatori di tombe per tutto il materiale che procurarono all’artista. Il risultato fu che gli studi furono invasi da una serie di teschi umani, da tre perfetti scheletri di rettili e persino un cranio di rinoceronte. La storia narra che l’immagine del lavoro di Giger entrò di diritto nella più allucinante filmografia dell’orrore: un uomo pallido, dai capelli neri, con gli occhi fiammeggianti e vestito di cuoio nero sommerso da ossa e da stirofene.

Durante le riprese le tre versioni dell’alieno realizzate da Giger furono battezzate: “Face Hugger” e cioè l’artiglio che si appiccica tenacemente al volto di Kane, Chest Burster”, quello che esce dal petto di John Hurt e “Grand Alien” che sarebbe l’ultimo stadio della metamorfosi. Il primo e il terzo sono stati scolpiti direttamente da lui mentre il secondo è stato realizzato dai tecnici. Per quanto riguarda la scena del “parto” è ovvio che all’attore era stato messo un petto finto mosso da pompe idrauliche. Poi il petto finto fu riempito di trippa fresca e parecchia emoglobina così che quando la scena venne girata tutti gli attori si erano fatti una poderosa e non certo piacevole doccia rossa. La scena fu giudicata esagerata con grande gioia di Veronica Cartwright che, colpita da almeno un litro di getto rosso, cadde all’indietro con la sedia e solo i suoi piedi si vedevano sul tavolo…

Il difficile a questo punto era trovare la persona adatta che potesse indossare la tuta ma la fortuna aiutò il produttore quando incontrarono, quasi casualmente, un membro africano della tribù dei Masai ma che studiava arti grafiche in Inghilterra: si chiamava Bolaj Badejo ed era alto ben due metri e quaranta! Badejo è scomparso nell’autunno nel 1997.

Fu fatto il calco in gesso della sua imponente figura e Giger si mise al lavoro usando plastilina, caucciù, tubature scanalate e filo elettrico. La testa fu realizzata in fibra di vetro. Con un complesso sistema di pistoni comandanti a distanza la testa può girarsi, sbavare e aprire la seconda bocca che è all’interno della prima, mentre la modellazione e la meccanizzazione di due teste del mostro e la seconda bocca furono opera di Carlo Rambaldi che collaborò anche alla scena in cui il robot-Ash continua a vivere e combattere con la testa semistaccata dai colpi di Parker.

Giovanni Mongini