ALBERTO DE STEFANO… E LA MASCHERA E LA SPADA

Con “La maschera e la spada”, romanzo fantasy pubblicato da  Armando Curcio Editore nella collana “Electi fantasy”, Alberto De Stefano torna alla grande a regalarci una nuova epopea del fantastico: «Come un antico bardo, Alberto De Stefano vi aprirà le porte di un mondo incantato, in cui nulla è come sembra e tutto può accadere…», ha detto in merito Fabiana Redivo, autrice di “Derbeer dei Mille Anni”, mentre Alessandro Iascy, direttore di Truefantasy.it, si è espresso scrivendo che «ancora una volta, De Stefano riesce a sorprendere per il suo talento nel creare storie fantasy che catturano il lettore e lo ammaliano sino all’ultima pagina».

Abbiamo già avuto in passato il piacere di ospitare sulle nostre pagine l’autore. Ora che Alberto è tornato, abbiamo pensato di fare ancora quattro chiacchiere con lui. Ecco cosa ci ha detto.

COM’È NATA L’IDEA DEL LIBRO, A COSA SI È ISPIRATO?

Avevo appena finito di scrivere Il ritorno degli dei e sentivo un profondo cambiamento dentro di me, quindi ho pensato a una storia un po’ più complessa, che potesse analizzare la condizione umana all’interno di un contesto fantasy. Un giorno ho rivisto delle vecchie foto e mi è tornata alla mente una maschera d’argilla costruita da un mio amico, così la storia è venuta da sé e con la verve datami da una persona speciale ho trovato la forza e la motivazione per lanciarmi in una nuova avventura.

QUALI SONO I PUNTI DI FORZA DI QUESTO ROMANZO?

Mi piace pensare che sia proprio il tema classico rivisitato e stravolto, oltre al fatto che non ci siano personaggio prettamente buoni o cattivi. Infatti tutti i protagonisti della storia perseguiranno i loro scopi in modi più o meno onesti, più o meno malvagi o buoni. In questo romanzo ci sono odio, vendetta, senso di appartenenza ma soprattutto ambizione, il vero filo conduttore di tutto. Nella vita di ogni giorno l’ambizione è ciò che spinge l’uomo o la donna a raggiungere i propri obiettivi. L’ambizione è sana, ma non sempre lo sono i metodi che vengono utilizzati per provare a realizzare ciò che si desidera. Direi che l’animo umano è la forza del libro in sé.

COSA DIFFERENZIA LA MASCHERA E LA SPADA DA ALTRI LIBRI FANTASY CLASSICI?

Come dicevo, non c’è un personaggio prettamente malvagio, e il fatto che “la profezia” del quale si parla per tutto il romanzo potrebbe anche essere un mero tentativo di sviare i destini dei personaggi. Soprattutto non c’è un predestinato. La spietatezza non manca di certo e il fatto di aver usato pochissime creature fantastiche può essere uno stimolo per il lettore a scoprire qualcosa di nuovo.

PERCHÉ LA MASCHERA E LA SPADA È IMPORTANTE? QUALE MESSAGGIO VUOLE DARE AI SUOI LETTORI?

Credo che il messaggio del libro sia la cosa davvero nuova. Trovare la propria strada, perseguirla e cercare di realizzarsi nella vita e, soprattutto, provare a essere un po’ più furbi degli altri potrebbe essere un valido aiuto. Attenzione però, quando si sale una piramide si incontrano diverse persone sul cammino che non possono essere ignorate, anche perché prima o poi ci sarà una discesa dalla scala che porta in cima…

E SE VOLETE UN ASSAGGIO DI QUELLO CHE CI HA APPENA RACCONTATO ALBERTO, SBIRCIATE TRA LE PAGINE DEL ROMANZO CON QUESTI DUE ESTRATTI.

 

DA PROLOGO. LA PROFEZIA

«Ricorda, giovane re! Nella tredicesima notte di Evenson, nell’anno del Leone, nascerà colei che ti spodesterà e, nello stesso giorno, i due che cambieranno le sorti del tuo impero. Lei sarà figlia di Anghinton, ma degli altri non mi è dato sapere».

 

Ancora riecheggiava nelle sue orecchie la mistica profezia della veggente, una vecchia strega incontrata qualche anno prima nella città commerciale di Goloport, una delle Sette gemme della regione di Falastur. Era entrato in quella tenda attirato da una voce che neppure lui avrebbe saputo definire da dove provenisse. Wastaran Augustin non si faceva indurre in tentazione da nulla ma, quella volta, una volontà superiore alla sua fece breccia e lo condusse al cospetto della megera. La donna non si era presentata e neppure aveva salutato il sovrano di Athraviar, secondo le usanze. Le orbite vuote lo fissavano con un’intensità agghiacciante e sulla fronte faceva bella mostra il simbolo di Hanerat, il dio oscuro. Mai nella propria vita Wastaran aveva provato una tale sensazione di frustrazione e impotenza.

Mentre sedeva di fronte a lei, aveva assorbito con interesse le parole della veggente e successivamente, come avvolto da una nebbia grigia, era tornato sui propri passi. La profezia indicava tre nascituri che avrebbero minato la sua sovranità ma, cosa ancor più sconcertante, quella donna era al corrente delle sue mire espansionistiche. Dopo aver realizzato tutto questo, si volse per tornare all’interno della tenda e ucciderla ma, inspiegabilmente, non la trovò più. I neri occhi sconcertati e la folta chioma corvina scossa dal vento mostrarono il volto corrucciato a chiunque, in quel momento, si fosse voltato verso di lui. I suoi pensieri vagarono ancor più lontano nel tempo.

Hanerat, col quale aveva fatto un patto per assoggettare tutti i popoli di Falastur, lo proteggeva spesso con visioni e ammonimenti. Il talento di Wastaran per l’evocazione lo aveva posto in una posizione di prestigio. Non ricordava con esattezza come aveva richiamato il dio oscuro ma, quando l’aveva fatto, una strana forza aveva carpito il suo animo e la voce dell’essere soprannaturale gli aveva parlato. Hanerat desiderava dominare il mondo divino eppure, per farlo, doveva entrare in possesso di due oggetti presenti nella regione di Falastur. Wastaran non aveva ancora idea di cosa si trattasse, ma accettò di fare da tramite al dio, se questi gli avesse concesso la forza di conquistare le Sette gemme. Stipulato il patto, l’umano aveva perseguito la via del trionfo diventando presto re di una grande città del sud. La sua vocazione di mago lo poneva al di sopra rispetto a molti uomini e l’immancabile ambizione lo aveva portato in alto. Ora il suo nome era pronunciato con timore nella regione di Falastur.

Decise quindi di non preoccuparsi e di ricordare la data indicata dalla vecchia, ponendosi come obiettivo l’uccisione di tutti i neonati di quel giorno. Aveva un grosso vantaggio, sapeva in quale villaggio sarebbe nata la bambina, mentre gli altri due… li avrebbe affrontati a tempo debito. Non si soffermò a pensare perché qualcuno volesse intralciare le sue mire espansionistiche, poteva però capire che qualche altro dio aveva scoperto i piani di Hanerat e desiderava fermarne l’ascesa. Il tutto, ovviamente, mettendo di mezzo un “povero” mortale. Fu così che, cinque anni dopo quella profezia e dopo aver consolidato il proprio regno, arrivò il fatidico momento. Ordinò ai propri cavalieri di entrare nel villaggio di Anghinton e sterminare tutti i bambini, maschi e femmine indistintamente, nati quel giorno.

Il villaggio aveva grandi dimensioni e ci volle parecchio tempo per frugarlo tutto alla ricerca di donne incinte e pianti di pargoli. Soprattutto perché il tutto fu eseguito in gran segreto e con discrezione. Fu una notte di sangue e orrore, ma alcuni bambini vennero salvati. Affidati per tempo a nutrici o amici fidati, altri furono allontanati dalla città. Purtroppo i cavalieri del re si misero sulle tracce dei fuggitivi, raggiungendoli e sterminandoli tutti. Tutti tranne uno, aiutato nella fuga dal padre di una bimba appena nata che aveva lottato e, infine, si era immolato per permettere alla piccola di essere protetta. Simon Lockwood aveva pagato per quel terribile affronto anche perché non vi era traccia della bambina.

Come in un’antica fiaba, Wastaran temeva il peggio. Da piccolo aveva sentito molteplici volte la storia di re malvagi annientati dal potere di principesse o grandi guerrieri. Mise quindi i suoi migliori uomini alla ricerca di quella fanciulla e, nel frattempo, impose alle proprie spie di addentrarsi nei villaggi e nelle città dell’intera regione per scoprire e censire i nascituri di quella notte. Ovviamente ordinò di ucciderli, se possibile, ma doveva fare molta attenzione. I suoi obiettivi sarebbero stati messi a dura prova se qualcuno avesse scoperto il mandante di quel massacro. Per questo gli servivano i nomi delle famiglie allietate dal pianto di un nuovo nascituro. A distanza di anni avrebbe comunque potuto annientarli. La pazienza non era certo una virtù che gli mancava e, soprattutto, non desiderava correre rischi.

 

***

 

Un vagito si levò alto nella stanza portando la gioia sul volto di Hiladar, e su tutta la famiglia reale di Ecotul, città di grande magnificenza e splendore. Il piccolo strillava e piangeva dando sfogo a tutta l’aria che aveva nei polmoni. Il pargolo, piuttosto paffuto, avrebbe rappresentato con ardore la grande casata dei Kator negli anni a venire, almeno così pensava il padre Sundar an’ Kator.

Nessuno fece caso a una levatrice, mentre si dileguava dalla stanza per scrivere un biglietto frettoloso e consegnarlo a una figura scura che sparì nella notte. Quel messaggio sarebbe giunto, come tanti altri, nelle mani di un grande signore del Sud che desiderava porre i propri omaggi ai grandi signori di una delle Sette gemme. La povera nutrice non poteva immaginare quale grande errore stesse commettendo.

 

***

 

La stessa scena si ripeté in un piccolo villaggio del nord, a Harylin, dove il circo dei Gatti volanti festeggiava la nascita del figlio della più bella coppia di giocolieri che si fosse mai vista. Pareg e Salash Huntikan avevano avuto un bel maschietto che presto avrebbe appreso la difficile arte di far divertire la gente. I bambini erano presto istruiti come giocolieri e saltimbanchi per far sì che il loro corpo potesse rimanere elastico e attivo. Quale momento migliore se non quello in cui esso pare fatto di gomma? La vita al circo non sarebbe certo stata facile ma, certamente, neppure noiosa.

 

***

 

Nessuno di questi bambini poteva sapere cosa l’avrebbe atteso di lì a poche ore, mesi o anni. Neppure i loro affettuosi genitori o tutori. Nessuno avrebbe saputo dire se sarebbero diventate persone buone o malvagie, oneste o corrotte. Ma qualcuno già tramava nell’ombra per avere le loro teste e, probabilmente, le avrebbe avute tutte.

 

DA CAPITOLO X. IL GUERRIERO

Flint si accovacciò per prendere fiato. Guardò dietro di sé e vide che aveva percorso già un centinaio di metri nel labirinto di fuoco. Di fronte, a circa una ventina di balzi da dove si trovava ora, individuò un basamento più largo, con un’apertura a volta che si perdeva nella roccia. Rincuorato da quella visione e, noncurante delle goccioline di sudore che colavano sui suoi occhi, fece un nuovo salto. Questa volta calcolò male la distanza, la stanchezza aveva iniziato a compiere la sua macabra opera. Atterrò con la punta degli stivali sulla stalagmite che poteva misurare sì e no una trentina di centimetri di larghezza. I piedi scivolarono subito, proiettando in avanti il corpo del giovane. Fu la sua fortuna e la sua salvezza. Riuscì ad aggrapparsi alla roccia abbracciandola, scivolando per un paio di metri. Non fu per nulla piacevole perché la pietra ruppe le vesti sulle braccia scorticandogli la pelle. Il bruciore fu intenso. In molti avrebbero mollato la presa e si sarebbero lasciati cadere nel vuoto, per finire cotti dalla lava. Argail tenne duro ed emise un urlo soffocato.

Avvolse anche i piedi attorno alla colonna di roccia e si issò con fatica e attenzione sullo stretto basamento. Una mossa da vero circense. Giunto in cima ansimò a fondo: «Dannazione a Wastaran e alla sua giostra! Ci credo che nessuno è arrivato al termine. Spero solo che Hak e Gark ce l’abbiano fatta», pensò ad alta voce.

Riposò qualche istante ancora. Non sapeva quanto tempo fosse passato dal momento in cui era entrato. L’unica cosa di cui si rendeva conto era che, in quel luogo, regnava un silenzio innaturale. Pareti così distanti e una gola così profonda avrebbero dovuto trasmettere una grande eco. Cosa che invece non avveniva. L’aveva notato poiché ogni suo balzo non aveva emesso alcun suono. Qualcosa di magico era all’opera, lì. Decise di non curarsi più di queste cose e di proseguire. Pensare troppo avrebbe rischiato di ucciderlo.

Con coraggio e decisione, saltò le altre colonne scoprendo che le ultime due non avevano una base piatta, ma terminavano con una grezza punta rocciosa. Argail capì che per evitare di cadere o di farsi troppo male ai piedi, avrebbe dovuto compiere due balzi di fila. Trattenne il fiato e poi lo liberò. Saltò atterrando sulla gamba destra, quella più forte, e sfruttò la spinta per andare sull’altra stalagmite. Anche questa volta, riuscì nel proprio intento usando ancora lo slancio ottenuto per atterrare sul nuovo piano lavico che precedeva l’arco. Un uomo con una preparazione differente dalla sua non sarebbe riuscito nell’impresa. Gli anni passati al circo e l’esperienza accumulata stavano dando i loro frutti.

Non fu un gran salto e, per la seconda volta, si salvò per un pelo, aggrappandosi con entrambe le mani alla roccia, issando così il proprio corpo a forza di braccia. Rimase disteso diverso tempo a pancia sotto, per riprendere fiato. Guardò ancora dietro di sé e si stupì da solo di cosa fosse riuscito a compiere. Mentalmente, ringraziò Juranar Jurek e G’had Fey per tutto ciò che le loro premure gli avevano insegnato. Si alzò e sistemò per bene la spada dietro la schiena. Aveva deciso di tenerla in quella posizione, non sapendo cosa l’aspettava nella grotta successiva. La prima prova doveva averla superata ed era stata davvero dura. Chissà cosa avrebbero riservato le prossime due. Dopo il labirinto di fuoco, lo attendeva il deserto di ghiaccio. Il primo, in realtà, lo aveva spossato più per il misto di fatica e attenzione che per il caldo effettivo.

Un passo dietro l’altro, attraversò l’apertura. La temperatura diminuì improvvisamente. Uno sbalzo termico simile non era possibile in natura. Il sudore gli si gelò sulla schiena e Flint fece istintivamente un passo indietro. Di fronte ai suoi occhi si stagliava un’immensa grotta di ghiaccio che rifrangeva la luce del sole proveniente da alcuni fori nel soffitto, alto più di dieci metri. Un’improvvisa folata di vento lo colse ancora impreparato e dei sottili, ma fastidiosi strati di ghiaccio si posarono sui suoi vestiti. Come prima cosa sfoderò la spada. Un così rapido cambio di temperatura avrebbe fatto gelare il fodero, rischiando di far incastrare la lama.

Decise di procedere di corsa. Se avesse camminato a quelle temperature così basse sarebbe certamente morto assiderato. Iniziò a correre ma, dopo pochi metri, vide un solco nel terreno largo almeno due metri e fece appena in tempo a saltare dall’altra parte. Quel luogo era pieno di crepacci. Doveva cambiare piano d’azione. Il mondo intorno a lui cambiava in continuazione e ciò turbava la sua stabilità, mettendo in gioco le sue capacità d’adattamento. Chissà cosa aveva in mente Wastaran. Cosa desiderava che dimostrassero i suoi arditi campioni? E, soprattutto, quanti ne erano morti?

Nel procedere, sentì le labbra prosciugarsi e aveva un gran bisogno di bere. Non si azzardava a toccare la neve, però, perché i suoi polmoni sarebbero ghiacciati in un attimo. Fu proprio mentre pensava a come fare per dissetarsi che vide il cadavere. Uno solo, ma ben conservato dal ghiaccio. Armato fino ai denti, il viso reso inespressivo dal freddo e girato sulla schiena. Ebbe un moto d’esultanza interiore nel non riconoscere uno dei suoi amici. Non si vergognò di questo, chi aveva deciso d’intraprendere quelle prove sapeva a cosa poteva andare incontro. Non esultò troppo, però, Hak e Gark potevano anche non essere arrivati fin lì. Magari giacevano per sempre nel fondo lavico alle sue spalle. Scacciò subito quel pensiero e sperò che i gemelli lo stessero aspettando alla corte di Wastaran Augustin, pronti a confrontarsi con lui al termine di quell’insidiosa giostra.

Quel calvario infine terminò. Ancora una volta trovò ad attenderlo un’apertura nella roccia. Questa però aveva una forma a dir poco particolare, somigliava a una grande bocca con denti acuminati, pronta a chiudersi su di lui. Non stette molto a riflettere. Con la spada in mano, varcò l’antro e subito fu investito da aria calda, soffocante. Argail cadde a terra stremato. I cambi di temperatura così improvvisi lo fecero vacillare e, lasciando andare la spada, che sferragliò a terra, iniziò a vomitare. Fu la sua unica debolezza e il primo vero errore.

Non si accorse dell’essere sbuffante di fronte a sé che lo colpì violentemente, mandandolo a sbattere contro la parete di roccia. Flint boccheggiò, stordito dall’attacco, esausto per le prove appena superate e sorpreso da quel nemico inaspettato. Perdeva sangue dal fianco sinistro e, probabilmente, aveva un paio di costole incrinate. Il colpo era stato davvero duro. Riuscì per un secondo a puntare lo sguardo in direzione del proprio avversario e sgranò gli occhi. Fece appena in tempo a buttarsi di lato per evitare il nuovo attacco, che l’avrebbe certamente ucciso. La spada si trovava ora a quattro braccia di distanza e risultava impossibile da recuperare, al momento. L’enorme creatura si frapponeva fra lui e la sua arma. Argail, avendo capito di cosa si trattava, evitò di fissare l’essere negli occhi. Cosa alquanto difficile giacché avrebbe dovuto affrontarlo e ucciderlo. Il figlio del diavolo… che strano nome per la prova finale che riguarda il confronto con un basilisco.

 

SODDISFATTI? BEH, BUONA LETTURA ALLORA E NATURALMENTE IN BOCCA AL LUPO AD ALBERTO.

Davide Longoni