GIOVANNI CASERTA

Nell’anno in corso ricorre il centenario dalla scomparsa di Giovanni Pascoli. Il grande poeta di S. Mauro di Romagna, allievo del Carducci (al quale com’è noto subentrò nella cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna) fu destinato, quale prima sede di insegnamento in qualità di docente di latino e greco, al Liceo ginnasio “Emanuele Duni” di Matera. In proposito la Città dei Sassi, patrimonio mondiale dell’Unesco e candidata a Capitale europea della cultura per il 2019, ha in atto una serie di iniziative tese a ricordarne la figura e l’opera.

Lo studioso Giovanni Caserta che come il Pascoli ha insegnato nel Liceo “Duni” ha approfondito quello che fu il rapporto dell’allora giovane e sconosciuto professore romagnolo con la città, le impressioni che ne ebbe nei due anni di permanenza (1882-1884), le amicizie e i rapporti che egli che coltivò. Nella convinzione che i classici della letteratura siano fonte impareggiabile di fascino e conoscenza, utile soprattutto a scrittori, appassionati e studenti – e per rievocare con il dovuto rispetto il  non dimenticato poeta – abbiamo chiesto al prof. Caserta di svelarci quanto è riuscito a raccogliere nelle sue ricerche e nei suoi studi su Giovanni Pascoli. Il lettore vi troverà aspetti poco conosciuti sul pensiero sociale ed estetico del poeta. Ma, l’intervista, è stata anche l’occasione – prendendo le mosse proprio dal Pascoli e dalla poetica del “fanciullino”- di conversare sulle origini della letteratura fantastica con particolare riferimento alle fiabe e alle favole, altre tematiche delle quali Caserta si è occupato a fondo in alcuni libri.

Giovanni Caserta, materano, come si è detto già docente di italiano e latino nei Licei, è autore di numerosi testi critici che riguardano tra gli altri Dante, Ariosto, Manzoni, Collodi, Pavese, Carlo Levi, Isabella Morra, Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli. Ma ha scritto anche racconti e raccolte di fiabe e favole. Nel 1993 ha pubblicato, per i tipi Osanna di Venosa, il volume Storia della Letteratura lucana, corposo studio che ha colmato un vuoto nell’ambito della cultura regionale. Il libro di racconti Lettere provinciali (ed. Osanna Venosa – 2011), che ha quali temi di fondo il Sud e l’emigrazione, è la sua ultima fatica letteraria. E’ Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte, con decreto del presidente della Repubblica del 9 dicembre 1996.

PROF. GIOVANNI CASERTA, QUEST’ANNO SI CELEBRANO I CENTO ANNI DALLA SCOMPARSA DEL GRANDE POETA GIOVANNI PASCOLI E LO SI FA ANCHE A MATERA, CHE, VA EVIDENZIATO, E’ CANDIDATA A CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA PER L’ANNO 2019. IL LICEO CLASSICO DELLA CITTA’ DEI SASSI, FU LA PRIMA SEDE DI INSEGNAMENTO DEL POETA. CHE COSA E’ STATO REALIZZATO AD OGGI, E QUALI SONO I PROSSIMI APPUNTAMENTI?

Posso dire con tutta chiarezza e precisione quello che mi ha visto impegnato, con grande anticipo, già a partire dal 2010, quale autore di un progetto elaborato dall’Unitep (Università della terza età e della educazione permanente), quale scrittore e quale relatore in incontri di studio. Il progetto Unitep, ora in fase di realizzazione, ha compreso le seguenti iniziative:

- 17 aprile 2012: visione di un dvd realizzato da una équipe che fa capo al regista  Pupi Avati, cui ho personalmente partecipato. Vi si percorrono opera e vita di Pascoli. Al dvd è stato dato il seguente titolo: Pascoli, pellegrino della vita, cavaliere errante dell’insegnamento.

- 20 aprile 2012: mia conferenza su Pascoli poeta latino, organizzata d’intesa fra l’Unitep e l’Aicc (Associazione italiana di cultura classica). Si è commentato il “carmen” Ultima linea.

- 28 aprile 2012: viaggio sociale e culturale dei soci Unitep a Viggiano, per partecipare al convegno sul tema: Pascoli a Viggiano, all’interno del quale sono stato relatore.

- 24 maggio 2012: incontro sul tema: Giovanni Pascoli professore a Matera: metodo didattico e progetto educativo. Introduzione  di Antonio Pellecchia, relazioni dei giornalisti Carmela Cosentino e Rossano Cervellera (entrambi ex alunni del Liceo classico materano, ndr), mie conclusioni.

- Pubblicazione del volume: G. Caserta, La città di Matera negli anni del Pascoli – preside professori alunni del Regio Ginnasio-Liceo “Duni”, Venosa, Osanna , 2012, che segue a G. Caserta, Giovanni Pascoli a Matera  (1882-1884) – Lettere dall’Affrica  – Venosa, Osanna, 2005

Alla ripresa autunnale (le date non sono state ancora stabilite) prevediamo almeno altri due incontri e una seconda iniziativa sociale:

- Pascoli poeta del “fanciullino”, con recital di poesie a cura del prof. Giovanni Caserta e del prof. Catello Chiacchio.

-  Due alunni del Liceo ginnasio “E. Duni” di Matera, particolarmente cari al Pascoli: Nicola Festa (1866-1940) e Michele Fiore (1868 -1947)”

- Viaggio sociale sulle orme del Pascoli. Visita ai due luoghi pascoliani per eccellenza: S. Mauro Pascoli e Castelvecchio.

Non so che cosa realizzerà il Comune di Matera. Finora c’è stata solo l’apertura ufficiale delle celebrazioni, con venuta del presidente del Senato, Renato Schifani. Ho personalmente invitato il Sindaco di Matera a dedicare un busto a Giovanni Pascoli, da collocare nella pubblica piazza intitolata al poeta. Per risparmiare sulle spese, gli ho proposto di fare copia del busto che il comune di Viggiano ha già ordinato a Napoli. Sembra che l’accordo sia stato raggiunto. Che altro ci sia non so. Si parla di una mostra documentaria che, allestita a Bologna, dovrebbe essere trasferita a Matera. Per una città che aspira a diventare Capitale della cultura europea  per il 2019, almeno per quanto riguarda il Comune, mi sembra sia poca cosa.   

VORREI RIMANERE SULL’ARGOMENTO CHE VEDE MATERA ASPIRANTE CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2019. SI STANNO ORGANIZZANDO MOLTI EVENTI TESI A TENERE DESTA L’ATTENZIONE A LIVELLO NAZIONALE, MA ANCHE INTERNAZIONALE. NEI GIORNI SCORSI LA CITTA’ HA RICEVUTO LA VISITA DI UNA PERSONALITA’ DELLA CARATURA DEL DALAI LAMA AL QUALE IL SINDACO, SALVATORE ADDUCE, HA ANNUNCIATO IL CONFERIMENTO DELLA CITTADINANZA ONORARIA. QUANTO E’ IMPORTANTE, IN TALE CONTESTO, RICORDARE IL RAPPORTO TRA LA CITTA’ DEI SASSI E GIOVANNI PASCOLI, CHE RIMANE UNO DEI MAGGIORI AUTORI ITALIANI CONTEMPORANEI? QUANTO PUO’ ESSERE UTILE PER IL SOSTEGNO ALLA CANDIDATURA DI MATERA VERSO UNA META COSI’ AMBITA?

Una città, che aspira ad essere Capitale europea della cultura, non può lasciarsi sfuggire l’occasione di celebrazioni che hanno carattere nazionale e possono servire a stabilire raccordi con grossi centri culturali, quali Bologna, Massa, Livorno, Messina, Pisa… Ciò è tanto più vero, quanto più si consideri che si celebra un poeta che da tutti è riconosciuto aver aperto la letteratura e la poesia italiana a temi e moduli che furono di tutta la letteratura e di tutta la poesia europea (da Rimbaud a Mallarmé, da Baudelaire a Verlaine). Non si dimentichi nemmeno che Pascoli è il più grande poeta latino dell’età moderna dopo il Rinascimento e che ben tredici medaglie d’oro egli vinse in un concorso internazionale, qual era il Certamen Hoeufftianum, celebrato ad Amsterdam. Né si può dimenticare che Pascoli fu anche grande studioso della poesia e della letteratura greca, oltre che  traduttore di poeti e prosatori greci. Se dunque, come hanno dimostrato le discussioni intorno ad una possibile Costituzione europea, è vero che la cultura e la civiltà europea prendono origine e alimento dal mondo greco-romano, è facile vedere in Pascoli il cantore e l’interprete dell’anima più autentica del nostro continente. I classici – disse lo stesso Pascoli in una prolusione agli studenti in lettere di Pisa (vedi La mia scuola di grammatica)– “sono  le nostre «Biblìa» e formano insieme il grande Testamento giapetico della nostra civiltà”.

LEI HA PUBBLICATO I SAGGI GIOVANNI PASCOLI A MATERA-1882/1884- LETTERE DALL’AFFRICA- CHE, RICORDO, PRESENTAMMO INSIEME NEL 2006 NELLO STORICO PALAZZO LANFRANCHI CHE FU PRIMA SEDE DEL LICEO “E. DUNI”, PROPRIO DOVE INSEGNO’ PASCOLI, E LA CITTA’ DI MATERA NEGLI ANNI DI PASCOLI - PRESIDE, PROFESSORI ALUNNI DEL REGIO GINNASIO LICEO “DUNI”, ENTRAMBI DEDICATI ALLA PRESENZA  IN MATERA  DEL POETA ROMAGNOLO.  CE NE VUOLE PARLARE? SAREBBE INTERESSANTE CAPIRE CON QUALE  STATO D’ANIMO IL GIOVANE PROFESSORE DI PRIMA NOMINA GIUNSE IN QUESTA PICCOLA CITTA’ DEL SUD. QUALI ASPETTI LO COLPIRONO? QUALE CONTRIBUTO DIEDE PER LA CRESCITA CULTURALE DI MATERA?

Non dirò se non quello che ho detto nella prolusione da me tenuta, in data 24 gennaio 2010, presso l’Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli. Non si vede perché Pascoli dovesse essere generoso verso la città di Matera, nascondendo la verità. Anche negli ultimi anni, del resto, non gratitudine dimostrò verso Matera, ma solo pietà, individuando in essa una “povera città di trogloditi”. A Matera arrivava malvolentieri. Giovane appena laureato col massimo dei voti, con tesi su Alceo, non aveva mai messo piede nello sconosciuto Sud. Lasciava al Nord, a Sogliano, due sorelle poco più che fanciulle, orfane, che, per una serie di vicende, erano affidate esclusivamente alle sue cure. Lasciava Bologna la dotta, fiorente per la Scuola filologica del Carducci, suo grande maestro, e lasciava un bel gruppo di giovani, “i Nuovi Goliardi”, festosi e brillanti, tutti destinati ad avere un ruolo importante nella cultura nazionale. A Matera arrivava – e lo disse – come in esilio. Il Liceo di Matera, peraltro, non era nemmeno il Liceo di Teramo, dove il Carducci avrebbe voluto che andasse. Divenuto statale nello stesso anno in cui il Pascoli vi veniva assegnato, cioè nel 1882, non aveva libri, tranne quelli che venivano dal soppresso seminario, in gran parte riguardanti vite di santi, teologia e diritto canonico. I primi libri “nuovi”, classici greci e latini di alto prestigio filologico, li fece acquistare proprio il Pascoli. Non è nemmeno da escludere che, intorno al professore venuto dal Nord, si fosse creata una cortina di diffidenza, essendosi diffusa, con ogni probabilità, la notizia che era stato socialista, vicino ad Andrea Costa, punito con alcuni mesi di carcere. Sta di fatto che, quando il Pascoli vide confermata la sua nomina a Matera per il secondo anno successivo, 1883-84, comunicò al Carducci che un altro anno della sua vita andava perduto. Si preparava – scriveva alle sorelle – un nuovo “brutt’anno di dolore”. Per fortuna, il secondo fu anche l’ultimo anno della sua permanenza a Matera. Il suo collega Restori, compagno di Università e di pensione, se ne andò addirittura dopo un anno; lo stesso preside Di Paola, così saggio e così equilibrato, non resistette più di due anni, e se ne andò col Pascoli. Insomma, era difficile rimanere e resistere a Matera. In verità, a leggere le lettere del Pascoli, si ha, a volte, l’impressione di leggere ancora le pagine di Carlo Levi, che non fu meno feroce con Matera, con i suoi funzionari e con i suoi uomini “addottorati”. Anche Levi parlò di Matera e dei suoi bambini come realtà peggiori di quelle da sua sorella conosciute in Africa. E per Levi, all’uscita del libro, ci furono rimostranze, e persino un processo per diffamazione. Oggi, però, Levi è un’icona. Così piacerebbe che, ormai, si leggesse il Pascoli, che tanto offrì alla città e ai suoi abitanti. E il più gran regalo, per quanto possa apparire paradossale, è che egli non mancò di denunziare il livello di minorità di una città, in cui il 90% degli abitanti era fatto di analfabeti, viventi, per giunta, nelle grotte. L’altro gran regalo che Pascoli fece alla città fu il suo insegnamento, pieno d’amore verso ragazzi che, avidi di sapere, potevano dargli l’immagine dei rondinini che, a bocca aperta, affamati, aspettavano la rondine-madre del X agosto, così come le sorelle del Pascoli aspettavano, dal padre, le bambole in dono. Portò aria nuova. Già socialista anarchico, fattosi poeta, ormai pensava ad una rivoluzione diversa, da realizzare attraverso un grande rinnovamento morale e spirituale, e, quindi, attraverso la poesia, la scuola e l’insegnamento, di cui, con grande efficacia e umiltà, si definiva “cavaliere errante”. Se ne accorse, con gli altri, l’alunno Nicola Festa di Matera (1866-1940) che, destinato alla cattedra universitaria di bizantino a Roma, parlando del Pascoli e del suo magistero, ricordava come egli, “col suo meraviglioso, inimitabile tocco di poeta, tramutò improvvisamente la materia opaca e inerte, di quel che suole essere l’insegnamento classico liceale, in spirito di vita”. Se ne accorse l’alunno Michele Fiore di Pomarico (1868-1947), che lo considerò quasi padre e gli rimase fedelissimo, conservandone la memoria fino alla morte. Attraverso il latino e il greco, per giunta, traducendo pagine sul Risorgimento e, facendole poi ritradurre in italiano ai suoi alunni, Pascoli faceva educazione morale e civile. “Non voglio – diceva – che i miei giovani conoscano Germanico e ignorino Garibaldi”, o, anche, che siano ”buoni latinisti” ma “pessimi cittadini”, se non “camorristi”. Un altro alunno, meno conosciuto, Vincenzo Barberio, di Laterza, divenuto medico, così, fra l’altro, scrisse al Pascoli, all’annunzio della morte del Carducci nel 1907: ”Illustre Maestro, … possa anch’io dire ch’ebbi un senso di cordoglio profondo per il Grande Estinto, e un pensiero caro per Voi, di lui affettuoso discepolo… il cui nome, ventitré anni or sono, insegnando a noialtri giovinetti nel Liceo di Matera, avevate sempre sulle labbra”. Una grande consolazione, insomma, furono i ragazzi, trentatré il primo anno, trenta il secondo anno, che, se non tutti bravi, erano almeno desiderosi di sapere e di “emanciparsi”. Appartenevano, infatti, al ceto medio-basso della città o provenivano dalla provincia. Si vuol dire che, per i ragazzi di Matera, e per le loro famiglie, a differenza dei ragazzi di Livorno e di Massa, come rilevava lo stesso Pascoli, la scuola era un veicolo di riscatto sociale, per cui valeva la pena impegnarsi.

IN PARTICOLARE, COME GLI SI PRESENTO’ MATERA E IL SUO LICEO? E I COLLEGHI DOCENTI CHE IMPRESSIONE GLI FECERO?

In parte l’ho già detto nelle precedenti risposte. A voler usare le sue parole, Matera gli apparve, il primo giorno, come “una città abbastanza bella, sebbene un poco lercia anche lei“ (come Grumo Appula, nella confinante Puglia). Non si tralasci, però, che di Matera, stando appena da un giorno, egli aveva intravisto solo il piano, che allora, come ora, era occupato da palazzi nobiliari e chiese. Via via, però, le impressioni si fecero sempre più negative. Matera apparve come un “lontano ermo paese”, in cui, nel modo di vestire, era un che di “selvatico e antiquato”. Si viveva “come in un paese conquistato”, “in un tedio doloroso”. Giorno e notte, nella sua stanza presa a pensione, forse ipogea, si sentiva “la ridda dei topi”. “Troppo caro era il vitto e l’alloggio”. Intorno si avvertiva sempre il “trombettare delle zanzare” e uno scirocco “uggioso, mollichicchio e appiccicaticcio, ma caldo”. “Matera sembrava in Affrica”; “il dialetto pareva turco”. Insomma, “non c’era nulla di buono”. Non arrivavano giornali. “Che desolazione, che deserto, che morte!”. Quanto al Liceo, si registrava, tra gli insegnanti, la presenza di ben sette preti. Non era un elemento positivo. Non c’era un buon libro – si è detto. Per fortuna c’erano colleghi, tre o quattro, venuti dal Nord come lui, e per di più da Bologna, suoi compagni di studi. E c’era un buon preside.

… E COME VISSE  QUESTA ESPERIENZA?

Nel primo anno scolastico (1882-1883) fu a pensione quanto all’alloggio. Quanto alla mensa, invece,  dopo un po’, tanto lui che il collega Restori si servirono del convitto municipale, poi diventato nazionale. In cambio si preoccuparono di inventariare i libri provenienti dal vecchio seminario, ricevendo dal Comune di Matera un compenso di quattrocento lire. Nel secondo anno (1883-1884), essendo andato via Restori, rimasto solo, Pascoli, ceduta la sua stanza ad un nuovo collega, chiese e ottenne di poter dormire e consumare i pasti presso il Convitto municipale. Insomma, pensione completa. Ciò gli facilitava notevolmente la vita e gli permetteva di risparmiare sullo stipendio e mandare qualche somma di denaro in più alle “sorelline”. Naturalmente, usciva poco per la città, tranne qualche passeggiata con i colleghi, verso la collina del castello, o nei giardini pubblici, allora ubicati là dove poi fu eretto il Palazzo della Provincia. Ciò fu motivo per cui, arrivato ragazzo biondo e mingherlino, finì con l’assumere le fattezze fisiche che avrebbe conservato per  tutta la vita, da buon fattore di campagna. Aveva  modo, naturalmente, di vivere a contatto con i ragazzi convittori, anche in ore non scolastiche. In fondo, finì col fare scuola a tempo pieno, instaurando rapporti che ne avrebbero fatto un consigliere, un fratello maggiore, se non un padre (come nel caso di Michele Fiore).

MA COSA E’ RIMASTO NELLA CITTA’ DEI SASSI  DELLA SUA PRESENZA?

Matera, voglio dire la città espressa dalla sua classe dirigente, non si accorse subito del valore del poeta e dell’uomo Pascoli, anche perché la sua fama di poeta arrivò con qualche ritardo, a partire dal 1891, anno della pubblicazione della prima raccolta di Myricae, occasionale e piuttosto ridotta. Se ne accorsero gli alunni e le loro famiglie, che persero un eccellente professore. Solo quando il Pascoli diventò poeta di livello europeo (soprattutto quale poeta latino), solo allora la città vantò il merito di averlo avuto docente nel proprio Liceo e ospite.  Nel 1912, in occasione della sua morte, fu murata una lapide-ricordo nella sede del vecchio Liceo (ora sede della Soprintendenza ai beni storici, artistici ed etnoantropologici); nel 1962, a cinquant’anni dalla morte, fu murata un’altra lapide sulla parete della odierna Prefettura, dove era ubicata la sua stanza, quando fu a pensione nel 1882-1883. Altri omaggi, nel tempo, furono l’intitolazione di una piazzetta e l’intitolazione di una Scuola media. Dovrebbe essere, questa del 2019, l’occasione per un busto in pubblico spazio.

A MATERA, ALL’EPOCA CITTA’ PRIVA DI CIRCOLI CULTURALI E GIORNALI, CON UNA CLASSE DIRIGENTE CON CUI PASCOLI NON EBBE RAPPORTI, CON UNA POPOLAZIONE CHE AVEVA PERCENTUALI ELEVATISSIME DI ANALFABETI, AL POETA NON RIMANEVANO CHE L’ATTIVITA’ DI INSEGNAMENTO E LO STUDIO. A QUESTO PROPOSITO CI PUO’ DIRE QUALE FU IL SUO METODO DI INSEGNAMENTO E QUALI I SUOI INTERESSI DI STUDIOSO?

Stando alle relazioni che, alla fine di ogni anno scolastico, il preside fece su Pascoli, se ne sottolineava la straordinaria preparazione, manifesta espressione della nobile Scuola filologica bolognese. Lo stesso preside ne predisse una bella carriera, aggiungendo che Matera non andava bene per lui. A Matera, in pratica, era un professore sprecato, anche se – diceva – mandarlo via da Matera significava fare del male a questa. Notò tuttavia una certa rilassatezza nella imposizione della disciplina. La verità è che Pascoli, a ventisette anni, arrivato con una esperienza politica da “contestatore” socialista e anarchico, non concepiva la mano forte. Ricorda Michele Fiore che non sedeva in cattedra, ma si aggirava tra i banchi, sedendo a fianco agli alunni. Con alcuni di questi viveva “cameratescamente” (anche in senso proprio), quando, come si è visto, fossero convittori. Michele Fiore era uno di questi e, il primo aprile 1884, ebbe l’ardire di mandargli un pesce da lui disegnato, cui il Pascoli, il giorno dopo, rispose con distici in greco. Era convinto che compito dell’insegnante sia quello di insegnare senza darlo a vedere. Che è sano principio pedagogico. Era anche convinto che lo studio delle lettere classiche in particolare, essendo humanae litterae, dovesse servire a trasmettere valori morali, sociali e civili attraverso la via del bello, cioè del poetico. Perciò sceglieva letture intense, che arrivassero direttamente al cuore degli alunni, coinvolgendoli emotivamente. Si creava, in quei momenti, un clima di quasi assorta religiosità. L’ha detto Nicola Festa. Per un metodo di lettura del genere, la grammatica era solo uno strumento indispensabile, come una chiave (l’espressione è del Pascoli) atta ad entrare nel testo; dopo, subentrava il momento lirico della traduzione, che doveva cercare, in tutti modi, di rinnovare la bellezza dell’originale in forma nuova. Traduzione, per lui, equivaleva a “metempsicosi”. Obiettivo finale era l’uomo buono, dotato di spirito di carità e capace di dividere l’intero per dare la metà all’altro. “La metà – ripeteva riprendendo da Esiodo – è più del tutto”. Voleva dire, da buon socialista sognatore, che dividere vale più che tenere tutto per sé. Da questo punto di vista, si può parlare di una sorta di incontro e sintonia tra l’intento educativo del Pascoli e quello di De Amicis, ambedue, del resto, fortemente “nazionalisti” e “patriottici”, oltre che socialisti. Come lo era Garibaldi, dal Pascoli definito “socialista patriottico o nazionale” e da lui assunto a mito. Intanto, mentre insegnava, affinava la sua preparazione di studioso. Arrivato a Matera senza nemmeno un vocabolario di latino e dopo aver perso alcuni anni nell’attività politica, avvertiva il bisogno di recuperare il tempo perduto. Nei due anni che fu nel Liceo “Duni”, lesse Aristofane e Platone. Forse scrisse un carmen in latino, che mandò ad Amsterdam per il certamen Hoeufftianum, andato perduto. Avviò anche studi su Saffo, lesse  molto di Orazio e cominciò a studiare la favola in Grecia e a Roma, pensando ad una antologia scolastica (che avrebbe realizzato, anni dopo, con Epos e Lyra).  Furono, insomma, mesi in cui, per dir così, affilava le armi per i suoi complessi e difficili impegni futuri, anche di educatore.

STUDIAVA LA FAVOLA A ROMA E NELL’ANTICA GRECIA, ELABORAVA LA POETICA DEL “FANCIULLINO”. SI PUO’ TROVARE IN QUESTI INTERESSI E NEL SUO PENSIERO UN LEGAME CON LA LETTERATURA PER L’INFANZIA?  NON E’ UN MISTERO, DEL RESTO, CHE I LIBRI DI SCUOLA ELEMENTARE, UNA VOLTA, ERANO PIENI DI LIRICHE PASCOLIANE. COSA C’E’ IN COMUNE TRA IL PASCOLI E, PER ESEMPIO, LA FIABA, GENERE TIPICAMENTE INFANTILE?

Il “fanciullino” è il nostro cuore. Come già si è lasciato intendere nella risposta precedente, la poesia, secondo il Pascoli, doveva puntare al cuore del lettore e, contemporaneamente, nascere dal cuore. Anzi, per dirla più chiaramente, la poesia, intanto arriva al cuore in quanto nasce dal cuore. E poiché nasce direttamente dal cuore, nasce dalla natura più schietta dell’uomo. Per questo la poesia, come l’acqua alla sorgente, è sempre pura, cioè immediata, spontanea, anche nel linguaggio. Il poeta, infatti, non ha bisogno di studiarsi le parole così come non lo fa il bambino. Non segue delle regole. E’ stato giustamente detto che, come il linguaggio del bambino, anche il linguaggio del poeta Pascoli è pre-sintattico e pre-grammaticale, ovvero impressionistico, fatto di suoni, simboli, analogie… E se è vero che la poesia nasce dal profondo dell’uomo, è anche vero che si è tutti, in certo qual modo, poeti, come tutti si è stati bambini e, in fondo, nell’inconscio, tali si rimane per sempre. A volerla dire con il Pascoli, “noi cresciamo, ed egli – il fanciullino – resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello”. Questo non significa che si è necessariamente tutti poeti. Potenzialmente, in verità, lo si è tutti; ma ci sono coloro che riescono ad esprimersi poeticamente e coloro che non arrivano a tanto, magari per difetto di cultura. Ma anche coloro che a tanto non arrivano, sono sempre  in grado di sentire la poesia e commuoversi davanti ad essa, trovandola anche nelle cose, soprattutto se myricae, cioè umili. Il poeta, infatti, come i bambini, ha una visione  animistica del mondo, nel senso che riesce a vedere  un’anima anche negli oggetti inanimati. Alle piante, agli animali, a qualunque oggetto egli parla, chiede… E una visione animistica significa, per l’appunto, una visione magica, cioè fiabesca della realtà. La fiaba, infatti, è nata come interpretazione del mondo agli albori della storia, quando esisteva una visione animistica della realtà. Le tribù primitive credettero nel dio-albero, nel dio-fiume, nel dio-monte… Videro demoni o poteri divini negli animali, che assunsero a totem. E poiché interpreta l’anima del bambino, e l’anima del bambino, a sua volta, ripete, per la legge biogenetica, l’anima delle popolazioni primitive, la fiaba raccoglie tutto l’interesse del bambino, cui si rivolge come mezzo di “divertimento”, di conoscenza e di educazione. Si capisce perché si suol dire che la fiaba ha la stessa radice del mito, cui, pero, è anteriore. Non si sbaglia, quindi, nel dire che essa è il genere letterario più antico, più misterioso e più difficile, essendo nata con l’uomo, nel primo luogo abitato dall’uomo, cioè nell’area indoeuropea, da cui si è irradiata su tutta la superficie terrestre. Avendo un unico centro di irradiazione, si spiega perché, come tutti i miti e tutte le religioni, anche le fiabe finiscono con l’avere una stessa struttura profonda. Lo ricordava Propp, e lo ricorda Chomskj, con lontane ascendenze in Giambattista Vico. Lo stesso si dice delle lingue, che hanno tutte una comune grammatica naturale o profonda, come è vero che, in tutte le lingue esistono verbi attivi, passivi e riflessivi, proposizioni causali e finali, nomi, aggettivi e avverbi, complementi di luogo e di tempo… Si capisce anche perché le fiabe hanno avuto una prima diffusione orale e, solo in seguito, sono arrivate ad una versione scritta, grazie all’opera di raccoglitori. Insomma, come i miti, i proverbi, i detti, gli aneddoti e le leggende, le fiabe sono nate anonime.

CHE GENERE DI RAPPORTO SI PUO’ STABILIRE TRA LA FAVOLA E LA FIABA? LEI SE N’E’ OCCUPATO IN ALCUNI TESTI CHE HA REALIZZATO PER LA SCUOLA: LA BELLA FIORITA (ED. SCORPIONE – TARANTO, 1989) E NEL REGNO DI FANTàSIA – FAVOLE E FIABE (ED. PIANETALIBRODUEMILA – LAVELLO/POTENZA, 2002). QUALI SONO STATE LE MOTIVAZIONI PER LE QUALI HA DECISO DI DEDICARSI A QUESTI LAVORI?

La fiaba, come si è detto, è un genere collettivo, naturale, anonimo, nato nel popolo e dal popolo, nel tentativo di capire il mondo e darsene una spiegazione. Diverso è il discorso della favola,  anche se, etimologicamente, fiaba e favola hanno la stessa origine. La favola è un genere razionale, che esprime una precisa volontà educativa e di critica. Esistono autori di favole come i classici Esopo e Fedro, cui si potrebbero, aggiungere, per i tempi moderni,  La Fontaine e, da noi, Trilussa. E’ un genere dotto. La fiaba, infatti, mai si conclude con una morale; in coda alla favola, invece, c’è sempre una morale. Nata per castigare i costumi, vicina alla satira, essa comporta pericoli di rappresaglie. Non per nulla gli autori di favole spesso si sono nascosti sotto pseudonimi, come anche hanno sempre evitato di fare nomi di persone. Hanno preferito sostituire alle persone gli animali, cui hanno attribuito vizi e virtù che sono degli uomini. Si capisce anche perché essa, parallelamente alla satira, si è sviluppata particolarmente in regimi di dittatura. Non sempre, però, è dato che la morale sia facilmente ricavabile dal racconto e che ci sia uno stretto rapporto tra racconto e morale. La favola richiede un’analisi intellettuale che è superiore alle facoltà del bambino, prevalentemente intuizione, sentimento e fantasia, e, per il suo naturale egocentrismo e istintivo senso di conservazione, portato ad identificarsi col personaggio più forte. E’ come dire che, nella favola, per esempio del lupo e dell’agnello, può identificarsi con il lupo, come, nella favola tra il topo di campagna e quello di città, può essere portato ad identificarsi con il topo di città o, nella favola della cicala e della formica, può simpatizzare con la cicala e non con la formica, che conduce vita di sacrificio… Del resto, anche Gianni Rodari finì col solidarizzare con la cicala più che con la formica, il cui comportamento gli parve diseducativo, perché poco altruista e disposta al perdono! Sta di fatto che Rousseau sconsigliava di offrire favole al bambino, ritenendolo incapace di rettamente interpretare il testo.

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DELLE FIABE E DELLE FAVOLE LUCANE?

Sugli schemi classici della fiaba, si possono costruire nuove fiabe. Basta rifarsi alle funzioni di Propp. Gianni Rodari, in La grammatica della fantasia, ha dato molteplici esempi di costruzione di fiabe moderne, modellate sulle forme e sulla forma di quella classica. E’ giunto a consigliare, a fini educativi, l’insalata di fiabe, cioè la contaminazione di fiabe diverse. Per esempio: “Cappuccetto rosso incontra nel bosco Pollicino”. Oppure: “Pinocchio capita nella casetta dei Sette Nani”; “Biancaneve sposa Barbablù”… Sulla Cenerentola classica, sulla classica Biancaneve e i sette nani, sulla famosa Bella addormentata nel bosco, sulla avvincente fiaba di re Orso, sulla storia di Pollicino, le nonne lucane costruirono, per i loro nipotini, fiabe lucane, di chiara matrice agricolo-pastorale. E’ quanto ricordo nelle mie due raccolte di favole e fiabe lucane. Vi compare, sullo sfondo, il tipico paesaggio lucano, pieno di boschi o assolato, in cui è difficile trovare una sorgente di acqua fresca. Si parte da una famiglia povera, in cui è morto il padre e non c’è possibilità di sostentamento materiale. Uno dei ragazzi, allora, va via di casa per cercar lavoro. Ma non torna più e se ne perdono le tracce. Parte il secondo e non ritorna. Finalmente parte il terzo, zoppo, ma intelligente… E risolve tutte le questioni. Oppure parte la sorella, vestita da uomo. Il bene si raggiunge quando si trova un lavoro e si può avere una casa e si mangia carne, se non tutti i giorni, almeno la domenica. E in casa c’è persino una cameriera. Gli animali sono i cavalli, gli asini, i galli. Anche i nomi dei personaggi sono quelli della tradizione contadina, così come i nomi dei luoghi. “Cammina cammina – si può sentir dire – e Antonio, da Matera, arrivò a Miglionico”. Potremmo dire che è marcata la preoccupazione socio-economica. Al posto del mago si può trovare  il buon pastore, al posto della fata si può trovare la brava donna… L’orco è il padrone o il massaro  crudele. Spesso sul cammino si incontra la Madonna nel bene, il diavolo nel male. Oppure c’è il monachicchio che indica il posto di un tesoro, o un asino che “caca” soldi. Quanto alle favole, spesso esse si distaccano da quelle classiche. Essendo ritratti della società in cui si vive, cioè avendo uno sfondo realistico, si può dire che ogni paese ha le sue specifiche favole, come ha i suoi aneddoti o esempi o detti o proverbi. Dicendo questo, abbiamo detto anche del significato antropologico che hanno sia le fiabe sia le favole. In esse, in fondo, si raccoglie e si condensa molto della cultura popolare, cioè dei costumi, dei rapporti di classe, del senso della morte, dei sogni, degli strumenti di lavoro… Ernesto De Martino insegna.

PENSA CHE LA FIABA ABBIA UNA SUA ATTUALITA’? QUAL E’ IL SUO VALORE EDUCATIVO?

Sono domande che molti si sono posti, essendo difficile immaginare un valore educativo e didattico in un genere letterario tanto lontano dalla realtà, in cui tutto è sogno, fantasia, straordinarietà. Non sono pochi quelli che vorrebbero che il bambino si cimenti subito con i problemi urgenti e a volte brutali della realtà, sì da formarli alla vita Un errore di questo genere si è commesso con la pedagogia degli anni 1970-1980, quando si è puntato alla formazione del bambino-ragione, più che fantasia e sentimento. Furono gli anni in cui scomparvero dai libri di testo delle scuole elementari i testi narrativi non solo fantastici, ma anche incentrati sui buoni sentimenti, sull’amore del prossimo, sulla carità, insomma sul buon cuore. Si parlò di ipocrisia e falsità, se non di una letteratura finalizzata a tenere in silenzio e sottomessi  i reietti della società. Scomparvero Pascoli e De Amicis, Renzo Pezzani e Giuseppe Fanciulli, Olga Visentini e Ada Negri, Milly Dandolo e Angiolo Silvio Novaro, Marino Moretti e Guido Gozzano, Piero Bargellini e  FabioTombari…. Scomparvero le pagine sul risparmio, presentato come astuzia delle banche per rastrellare soldi da dare ad alto interesse! Non credo che l’infanzia e la società italiana ci abbiano guadagnato. L’uomo, sempre, ha bisogno di sognare e di pensare al positivo. I grandi eventi storici, le grandi rivoluzioni, non li ha dati il realismo, ma l’utopia. Per fortuna, c’è stato chi si è sforzato di scoprire il valore educativo della fiaba, cioè del sogno. E ha fatto notare come dalla fiaba emerga il valore della lotta e della pertinacia nel superare le difficoltà. Si pensi ad un lungo e ampio saggio di Bettelheim: Il mondo incantato. Uso, importanza e significato psicanalitico delle fiabe. In particolare, vince chi si batte per una giusta causa. La conclusione è sempre positiva. Il bene arriva come un giusto premio. Ed è un messaggio di fiducia. Non per niente quasi sempre le fiabe terminano con un “vissero felici e contenti”. Nella fiaba ci sono, certo, personaggi cattivi; ma ci sono anche personaggi buoni, altamente positivi e sempre vincenti. La distinzione tra buoni e cattivi, peraltro, è netta, perché bontà e cattiveria sono sempre al superlativo. Non ci sono ambiguità. Ciò serve a dare al bambino una  netta intuizione di ciò che è giusto fare e non è giusto fare. Intorno ai cattivi si coalizzano altri cattivi; ma intorno al buono si raccolgono personaggi buoni. Sono i cosiddetti “aiutanti”, che, spontaneamente, o perché invocati, si schierano con il personaggio buono. E’ così che il bambino si apre agli altri e impara che cosa è la solidarietà. Arrivando il bene dopo tante lotte, il bambino si appaga. E’ noto che la psichiatra e psicanalista Anna Freud si serviva della fiaba (come anche del gioco) a scopi terapeutici. Lo stesso faceva Melanie Klein. Per  il resto, svolgendosi tutto a livello di fantasia e con situazioni sempre nuove, la fiaba alimenta la creatività, che è fondamentale per la scienza, essendo alla base delle ipotesi. E si pensi quanto di questo abbia bisogno un bambino di oggi.

RITIENE  CHE LA LETTERATURA FANTASTICA ABBIA UNO SPAZIO ADEGUATO NEI PROGRAMMI SCOLASTICI O ANDREBBE MAGGIORMENTE APPROFONDITA?

Ancora, purtroppo, nella scuola e nei libri scolastici, non ci si è liberati della falsa convinzione che è più importante il rapporto col reale che non il sogno. Si teme di offrire un mondo falso e, quindi, di creare dei disadattati. Direi, invece, che, il bambino di oggi, proprio perché troppo a contatto con la cronaca (tramite la televisione, la radio, il computer, il cinema ed altro), ha bisogno di uno spazio suo, di sogno, a lui riservato. La sua fantasia è soffocata, il suo sentimento mortificato, se non addirittura stravolto. Assalito come è da immagini e notizie che parlano di incidenti stradali, terremoti, omicidi e suicidi, pedofilia, guerre, stragi, sequestri di persona e simili, ha bisogno di serenità. Abbiamo, in fondo, un’infanzia nevrotica e ossessionata dal dolore, dalla morte, dalla violenza…. Sono bambini insicuri, pieni di tic, che hanno paura del buio, di rimanere soli, di dormire da soli, afflitti da insonnia. Nella realtà da loro conosciuta e fatta conoscere, non ci sono esempi di bontà. Non che nelle fiabe, come già si è accennato, non esistano figure paurose come la strega, l’orco che mangia i bambini, il lupo che mangia la nonna … Puntualmente, però, queste figure negative, come si è detto, sono punite e sconfitte dal buono, che è anche più forte. Non è un mistero che il bambino, a sera, chiede alla mamma la fiaba; ed è vero che, giunta la fiaba al “vissero felici e contenti”, egli si gira di lato e già chiude gli occhi pronto ad addormentarsi, se non è già dormiente…

UN’ALTRA DOMANDA SUL TEMA: COSA PENSA DELLA LETTERATURA FANTASTICA ODIERNA…AD ESEMPIO DELLA SAGA FANTASY DI HARRY POTTER, SCRITTA DALLA GENIALE AUTRICE INGLESE J.K. ROWLING, CHE HA RAGGIUNTO UNO STRAORDINARIO SUCCESSO EDITORIALE?

Devo confessare che non ho grande conoscenza della saga di Harry Potter e altri libri del genere, nati soprattutto a fini commerciali e troppo propagandati dall’industria. E io diffido di tutti i libri nati per fini commerciali e per contratto. Dopo aver letto il primo romanzo di gran successo su Harry Potter, e dopo aver inutilmente tentato di leggere fino in fondo il Signore degli anelli, mi sono convinto che, al di là del successo editoriale, pubblicitario e consumistico, questi libri non sono destinati a rimanere nella letteratura mondiale per l’infanzia. A parte molti ricalchi, che fanno parlare più di costruzione e montaggio che non di fantasia e libera creatività, tutto è piuttosto meccanico e spettacolare. Si risente molto delle immagini che proiettano i film dedicati ad una malintesa fantascienza, piena di lanciafiamme, macchine rombanti, maschere orripilanti, pipistrelli giganti…. Si confonde il fantastico con l’arbitrario, l’orrido e il deforme. Sono racconti senz’anima. Manca l’uomo che trovi nel legno di Pinocchio. Non credo che, a lettura finita, rimanga qualcosa nel bambino, tranne il piacere di essere passato da una sensazione all’altra, tutte diverse fra loro, tutte sempre forti fino alla violenza. Credo che, come certi film di marca giapponese,  e da play station, anche certi libri finiscono con l’accrescere la nevrosi,  anziché curarla…

OLTRE ALLA LETTERATURA PER L’INFANZIA ESISTE QUELLA PER ADULTI ( ANCHE NOI ABBIAMO IL DIRITTO DI SOGNARE). LO STESSO PASCOLI- TANTO PER FARE UN RICHIAMO A QUELLO DI CUI SI DISCUTEVA PRIMA- FACEVA RIFERIMENTO ALLA MITOLOGIA, SOPRATTUTTO NEI POEMI CONVIVIALI. E PER AVVICINARCI AI NOSTRI GIORNI, ANCHE AUTORI COME ITALO CALVINO E DINO BUZZATI, SOLO PER FARE DUE NOMI TRA I GRANDI SCRITTORI, NON DI GENERE, HANNO AFFRONTATO IL TEMA DEL FANTASTICO. QUAL E’ IL SUO PENSIERO IN PROPOSITO?

La letteratura, come l’arte in genere, è di per sé un genere fantastico, perché appartiene al mondo della fantasia, cioè dell’inventato o del creato dal nulla. Si suol dire che, anche quando racconta cose vere, la letteratura le trasfigura, dando ad esse un senso perenne. Si dice anche che la letteratura è “divertimento” (in senso etimologico), perché ha la funzione di far “evadere” dal reale, oppure, meditando sul reale, indurre a sognare una realtà diversa, magari utopica.  Nessuno impedisce di immaginare mondi inesistenti. L’Ariosto e le sue “corbellerie” insegnano. Eppure la critica ha trovato tanto realismo in Ariosto quanto ce n’è in Machiavelli, ovvero tanta utopia in Machiavelli, quanta ce n’è in Ariosto. Anche nell’inesistente e nell’inesistito, insomma, possono proiettarsi sentimenti e aspirazioni umane. Non voglio scandalizzare nessuno; ma non esito a dire che non mi piace Calvino, che trovo troppo ricercato e lezioso nelle sue trovate. Spesso fa solo esercizio di bello stile (che nessuno può negare). Il meglio, in fondo, l’ha prodotto trascrivendo fiabe italiane. Molto di più mi piace Dino Buzzati, intenso, vivo… Lei pure, Radogna, ha scritto racconti fantasy e di fantascienza. Mi pare che il segreto sia tutto lì: rendere umani gli “eumani” dei suoi racconti, senza che se ne annulli il “travestimento”. Pascoli diceva, come ho precisato di sopra, che ogni traduzione è un esempio di metempsicosi. Questo concetto della “metempsicosi” perché non applicarlo alla letteratura di fantascienza?

IN CHIUSURA, DOPO I TESTI SU FIABE E FAVOLE, HA IN MENTE ALTRI LAVORI  IN TALE AMBITO O ANCHE IN ALTRI CAMPI DELLA LETTERATURA?

Non so se mi cimenterò mai più con  le fiabe o con libri di narrativa in genere. Del resto, io non ho creato fiabe e favole. Le ho semplicemente trascritte e rifatte in modo adatto all’infanzia di oggi e, soprattutto, in uno stile nuovo, il più gradevole possibile. Credo di essere riuscito nel mio intento, stante il successo che i miei due libri hanno avuto. Recentemente  son voluto tornare ad una letteratura, per dir così, per adulti. Parlo delle mie Lettere provinciali, ispirate a problematiche sociali, culturali e morali del nostro tempo, con particolare attenzione al mondo degli umili di provincia. Quando mi chiedevano, ai fini delle adozioni nelle scuole, a chi potevano proporsi, coerentemente col mio pensiero, ho pensato ai ragazzi di terza media in grado di riflettere e trarre gli insegnamenti migliori dai fatti reali o verosimili. Anche in questo caso, però, ho dato molta attenzione al linguaggio, anzi allo stile, che ho voluto fluido, armonioso e, per dir così, lieve. In somma, c’è posto per tutti. Il reale esiste e nessuno lo può negare; ma non serve la denunzia  feroce che induce all’odio. Serve molto di più il sentimento di cordialità e di affetto per chi è colpito dal male. E serve anche capire perché si può fare del male e il male esiste. E perché deve esistere il perdono. A volte, visto che siamo partiti di lì, il pensiero corre al Pascoli e al suo X agosto o alla Cavalla storna. A Pascoli non interessa chi ha fatto il male e la sua punizione. Interessa il male, che vorrebbe estirpare dal mondo. Anche il cattivo, in fondo, è un infelice, perché è “d’ossa”, destinato a morire. Che “se poi qualcuna  di queste poesie – scriveva nella prefazione ai Canti di Castelvecchio – ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria  de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene”.

Filippo Radogna