Tutte le vittime attraverso le quali viene presentato il passato di Henry sono dei tableaux vivants – o meglio, mourants (non morts, ma proprio moribondi) – perché mostrate come defunte allo spettatore e allo stesso tempo ancora vive attraverso un uso estremamente semplice, ma di tremenda efficacia del sonoro: mentre la mdp trascorre sulle donne uccise, in sottofondo si sentono le urla di lotta e di dolore che hanno preceduto la stasi finale. Ciò fornisce una sorta di rappresentazione, semplice ma assai persuasiva, al tipo di attrattiva sessuale provata dal necrofilo.
McNaughton (che scrive il film insieme a Richard Fire), però, fa di più: con una sola azione, ci mostra due aspetti dell’uomo reale, Henry Lee Lucas, dal quale notoriamente il film prese spunto: la necrofilia, di cui si è appena detto; e la gran quantità di false confessioni che rese una volta arrestato per gli omicidi che aveva realmente commesso. Probabilmente si dipinse come mostro assoluto (non dimentichiamo che a un certo punto arrivò ad autoaccusarsi addirittura di circa 600 omicidi!) per sentirsi una tantum al centro dell’attenzione pubblica (così, sia pure in negativo ebbe una sua collocazione sociale) ed essere trattato meglio durante la carcerazione. Questo secondo aspetto viene rivelato sfruttando in una maniera intelligentemente estensiva il cosiddetto “Effetto Kulešov”: le numerose immagini femminili e i loro lamenti non sono mai presentate insieme a Henry, nella medesima inquadratura, magari mentre le ammazza o le tortura, è lo spettatore ad associarle a lui, esattamente come la polizia del tempo si lasciò volentieri abbindolare da Lucas, quando non lo instradò addirittura verso la confessione, pur di chiudere numerosi casi che in realtà non lo riguardavano minimamente.
In poche parole, lo spettatore ragiona così: il contesto della pellicola è la vita di un serial killer, il regista ci mostra una serie di donne uccise – ergo l’uomo che viene inquadrato poco dopo, l’omicida seriale, è colui che le ha trucidate tutte.
Balle.
Si tratta semplicemente di proiezioni mentali emotive del pubblico, che unisce i puntini nella maniera sbagliata. Leggiamo un brano di questo “Effetto Kulešov” da Wikipedia: “L’effetto percettivo prodotto dalla successione di immagini è rapido, inconscio e quasi automatico: ordinando le inquadrature di una scena in una particolare sequenza, la pellicola induce aspettative negli spettatori.[…] Riguardo all’ordine delle immagini, la psicologia della Gestalt spiega che la giustapposizione consecutiva di immagini tende a suggerire, alla grande maggioranza delle persone, che esse siano in relazione. Vedendo le immagini, vengono formulate ipotesi immediate sul significato narrativo degli eventi e inconsciamente li si mette in connessione. In altre parole, collocando un’immagine o sequenza prima di un’altra si costruisce tra esse un’unione semantica.”
In Henry niente improbabili rituali lambiccati alla Hannibal Lecter, alla Seven o alla True Detective prima stagione: solo poveracci ignoranti. Nessun ricordo dimenticato nel profondo dell’inconscio (Henry racconta per filo e per segno quanto ha sofferto da bambino vedendo la madre prostituirsi e soprattutto subendone le angherie e il dileggio mentre lo faceva, fino ad arrivare al punto di ucciderla), nessuna strategia complicata nel suo modus operandi di serial killer (come spiega lui stesso, basta non averne soltanto uno ma diversi e continuare a muoversi da un posto all’altro per sfuggire alla polizia); la trama, d’altra parte, è lineare allo stesso modo, simile a un carrarmato che non conosca ostacoli.
A Chicago, delinquenti come Henry a parte, si respira un’aria di aperta ostilità generalizzata fra le persone: si comincia con due comparse che vengono colte mentre una racconta all’altra sbraitando: “Ehi, mi ha fatto aspettare due ore, neanche fossi l’ultimo arrivato!”. E poco oltre, in modo assai più circostanziato, una cliente alla quale Becky sta facendo lo shampoo dice: “La gente ti sputa addosso! Innanzitutto non ce n’è più uno che parli inglese… Vorrei sbagliarmi, ma non si riesce più a vivere in pace in questa città”. Infine. Otis sta parlando con Henry mentre riprende con una videocamera due delinquenti in un parco che derubano un tale e lo massacrano di botte in tutta tranquillità. In una città del genere, come possono solidarizzare dei criminali psicopatici? Ma è chiaro, andando a puttane insieme; ci penserà poi Henry a ucciderle sbrigativamente strangolandone una (azione che si intuisce più di quanto non si veda) e torcendo il collo all’altra con un colpo secco (il solo caso in cui si vede il serial killer ammazzare una donna). I due cementano così un patto di mutua solidarietà, anche se come vedremo a tempo determinato, sancito dall’assassinio gratuito dell’automobilista di passaggio di cui si incarica Otis.
La videocamera entra in gioco con l’unico momento genuinamente splatter (smembramento di Otis a parte) che McNaughton si concede: provocato dal ricettatore di materiale tecnologico dal quale si sono recati per acquistare un televisore, Henry gli pianta un grosso spinotto nella mano col quale poi lo colpisce ancora e ancora, mentre il suo compare cerca di strangolarlo usando del filo elettrico; infine, dopo che Henry gli ha letteralmente spaccato il televisore in testa incastrandoglielo come una sorta di elmo grottesco in capo, Otis – su preciso ordine del complice – attacca la spina dell’apparecchio e il corto circuito fa il resto: l’apparecchio esplode fra uno sprizzare di scintille mortali. Ilaro-tragico come l’olio di ricino dei fascisti, che puniva con una tortura studiata per togliere innanzitutto la dignità.
In seguito la videocamera riprende l’unico triplice omicidio – solo attraverso essa viene mostrato allo spettatore, per così dire assassino di secondo grado – nel quale noi vediamo esplicitamente all’opera Henry, ma attenzione: uccide un uomo e un ragazzo, mentre è Otis ad assalire sessualmente la donna. Questo massacro viene ripresentato anche al rallentatore, forse perché il pubblico ne veda tanto la falsità quanto l’orrore. O, se vogliamo accettare la lettura che ne dà Pezzotta, è lo snuff movie per tutti, oltre menzogna e atrocità. Il Santo Graal del voyeur criminale divenuto sottofondo quotidiano abituale: Santo Graal a richiesta.
I due cani rabbiosi (Henry e Otis), fra un accecamento, una bottigliata in testa e un pettine di ferro usato come mortale punteruolo, si dilaniano a vicenda: un’anomalia nel sottogenere slasher piuttosto che una consuetudine.
Anche alla fine, quando è chiaro che il protagonista ucciderà Becky pur avendole confidato buona parte dei suoi ricordi più dolorosi, Naughton attraverso un’ellissi ci fa capire quel che è accaduto senza mostrarci nulla: tutti sappiamo che nella grossa valigia lasciata sul ciglio della strada c’è la sorella di Otis fatta a pezzi. E ancora una volta, non c’è bisogno di mostrare che Henry la uccida. Vale la pena di sottolineare la figura retorica, ma soprattutto di chiedersi se per essa esista un altro motivo, stavolta contrapposto – l’arte può permettersi simili ambiguità – al citato “Effetto Kulešov”; ipotizzo che il pluriomicida, almeno per lunghi tratti, nella sua mente non abbia ancora mai ucciso neanche una donna, per cui deve ripeter l’atto criminale (nella realtà Lucas ne ammazzò certamente tre che conosceva bene: la mamma, un’anziana signora che lo accolse per un po’ in casa propria e la sua compagna): per far l’esempio unico ma comunque clamoroso di amnesia, quanto all’omicidio della propria madre non ricorda neppure se le ha sparato o se l’ha accoltellata.
La cosa più sconcertante: in pratica passa inosservato allo spettatore il fatto che in un contesto sociale del genere Henry se la cavi senza troppi problemi, con un lieto fine funebre che va via liscio come l’olio (di ricino). In fin dei conti ciò prova che quel mondo (1986) è anche il nostro, dove è normale diffidare di qualsiasi forma di catarsi.