CHARLES BUKOWSKY

Ed apparteneva a quella inquietante genia dei reietti… dei paria, degli alternativi pericolosi, degli inguaribili tossici, dei maledetti: ma lui “faceva poesia”.

E le sue poesie erano belle, profonde, ricche di sensibilità, nonostante la voglia di provocare, di stupire, persino d’insultare.

E Charles Bukowski giocò anche “con quel suo fare poesia”.

“Scrivo poesie per portarmi a letto le donne”. Affermò infatti… Ed era vero… Ma soltanto in parte.

Alle donne piacciono le poesie e si mostrano inclini a chi le scrive – lo stesso non avviene al contrario -, ma il nostro Charles le scriveva perché gli sgorgavano dal cuore; quel suo cuore malato perché non riceveva mai l’amore che avrebbe desiderato… MAI MAI MAI abbastanza amore.

Per questo beveva, per questo si drogava, per questo si disperdeva in mille corpi femminili.

L’amore che non si riceve, soprattutto nell’infanzia, diviene una ferita insanabile, un marchio di fuoco indelebile.

Charles Bukowski era infatti nato ad Andernach, in una Germania devastata dalla Prima Guerra Mondiale e prossima al tracollo economico, e si era trovato a vivere i suoi primi anni in un ambiente degradato dalle perenni difficoltà economiche e, dopo il trasferimento dei genitori negli Stati Uniti, dal non sentire mai alcun luogo come patria: bubboni che esplodono in quotidiano scontento, rabbia, violenza.

E quel Charles bambino che Bukowski era stato, aveva respirato da subito quella violenza: un padre, perdente nella vita, che lo fustigava con una cintura di cuoio, un giorno sì e l’altro pure, anche quando non aveva commesso alcuna colpa, ed una madre assente, forse ormai inesorabilmente rassegnata.

Ed ora soltanto brevi cenni della sua autobiografia, perché mi sembra che l’essenziale sia stato già detto, e poi farò parlare la sua voce, attraverso la citazione di alcune sue frasi o nel citare alcune (ne scrisse a migliaia) delle sue bellissime poesie, dove ad un crudo realismo si contrappone spesso la delicatezza di una acuta sensibilità.

Henry Charles Bukowski nacque ad Andernach ( Germania) il 16 agosto del 1920.

Il padre, Henry Bukowsky statunitense, ma di origini miste polacco/ tedesche, negli anni giovanili, era arruolato come sergente della Third United States, ma una volta emigrato negli Stati Uniti, rimase spesso disoccupato, fatto che acuì la sua tendenza alla violenza.

Della madre – Katharina Fett, tedesca – Charles ci racconta assai poco, un chiaro segno della scarsa influenza che ebbe su di lui, nonché della lacunosa affettività di cui doveva essere dotata.

I genitori si conobbero durante la Prima Guerra Mondiale e si sposarono in tempi piuttosto brevi.

Nel 1923 lasciarono la Germania devastata e raggiunsero gli Stati Uniti, sperando in un miglioramento delle loro condizioni, soggiornando dapprima a Baltimora nel Maryland e successivamente, nel 1930, a Los Angeles.

Qui il piccolo Charles, oltre alle angherie paterne ed al silenzio materno, dovette anche subire la discriminazione dei suoi coetanei che ne contestavano l’accento linguistico “pesante”, nonché il suo abbigliamento che non si affiancava ai canoni usuali e tacciato pertanto “da femminuccia”.

“La mia infanzia come in un film dell’orrore”, la definì lo stesso Bukowsky.

Quasi prevedibile, in una mente viva, ma particolare e scontrosa come la sua, il ricorso all’alcol… Un “coupe de foudre” che avvenne a soli 14 anni e che si trasformerà in un amore dipendente per tutta la vita.

“Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare. Se succede qualcosa di bello, si beve per festeggiare. E se non succede niente, si beve per fare succedere qualcosa”.

Afferma lui stesso.

Nel 1969, grazie all’offerta dell’Uditore della Black Sparrow, poté finalmente abbandonare l’odiato lavoro da postino e, per uno stipendio contenuto di circa 100 dollari al mese, si dedicò completamente alla scrittura.

“Avevo solo due alternative: restare all’ufficio postale e impazzire… O andarmene a giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame”.

Affermò, giustificando la sua scelta.

Anche i suoi rapporti con le donne furono molto burrascosi… E quando dico “donne” non mi riferisco ai tanti “corpi” posseduti, ma a quelle che nella vita dell’artista hanno avuto un ruolo, se non fondamentale, almeno determinante.

Tra queste ultime possiamo sicuramente annoverare: la poetessa Barbara Frye, che sposò nel 1957, per poi divorziare nel ’59.

Jane Baker, costituì il suo primo grande amore e, in occasione della sua morte, le dedicò parecchie poesie, da dove si evince lo sconforto e il dolore per quella morte prematura.

Un’altra donna importante fu Frances Smith, che gli diede l’unica figlia, Marina Louise.

Seguirono Liza Williams, poetessa e scultrice e Tannie o Tanyn.

Una delle ultime e forse, infine, la più importante, fu Linda Lee Brigale, proprietaria di un ristorante, che, tra separazioni e ravvicinamenti, finì per sposare nel 1985.

All’inizio del 1988 si ammalò di tubercolosi, ma seguitò ugualmente e ininterrottamente nella sua intensa attività letteraria. Morì a Los Angeles il 9 marzo del 1991 per una leucemia fulminante.

Innumerevole e svariata la sua produzione letteraria: sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia le poesie composte.

Tra le opere più rappresentative, voglio citare: DONNE; PANINO AL PROSCIUTTO; POST OFFICE; L’AMORE È UN REGALO CHE VIENE DALL’INFERNO e lo scandalosissimo STORIE DI ORDINARIA FOLLIA, da cui fu tratto anche un famoso film, che vide come protagonisti Ben Gazzara e Ornella Muti.

Altri film riecheggiarono in seguito la figura di Bukowski, quali, ad esempio, “Barfly – Moscone da bar” (con Mickey Rourke protagonista); “Crazy love” e “Factotum” (con Matt Dillon protagonista).

Ma è con alcuni suoi meravigliosi detti e con le sue poesie che intendo farvi salutare quest’uomo che mai conobbe l’equilibrio, ed ancor meno la felicità.

 

“Dentro ad un abbraccio puoi fare di tutto: sorridere o piangere, rinascere o morire. Oppure fermarti a tremarci dentro, come fosse l’ultimo”.

“Voglio mettere le mani sul viso e baciarti le rughe: gli anni dove non c’ero”.

“Tutto si riduce all’ultima persona a cui pensi la notte”.

“Parlatene.. Parlatene sempre di tutto, perché i silenzi sono pietre e le pietre diventano muri ed i muri dividono”.

“Scrivere poesie non è difficile: difficile è viverle”.

Cinico? Brutale? Depravato?

Se Bukowski fosse stato realmente così, non avrebbe mai potuto scrivere queste parole, che scaturivano comunque dalla sua anima… E a un uomo così si può perdonare molto.

Myriam Ambrosini