ANATOLY MOSKVIN, IL NECROPOLISTA

Il sogno dell’immortalità

Forse quando Anatoly Moskvin (nato a Gor’kij, oggi Nižnij Novgorod, l’1 settembre 1966) era bambino aveva già capito quello che faceva più paura agli adulti: la morte, naturalmente. Per quanta può provarne un ragazzino ne aveva anche lui, ma pensava non fosse impossibile aver ragione di essa, o meglio trovare un rimedio che soddisfacesse il morto: bastava trattarlo come quando era ancora vivo… cioè, lui se lo immaginava, il cadavere, seduto su una poltrona nel bel mezzo di un’infinita festa che non sarebbe cessata mai, durante la quale nessuno lo avrebbe lasciato solo neanche un istante; in questo modo sarebbe stato ricordato per sempre perché al centro di una vita continua, senza fine (non teneva conto che in breve tempo il cadavere avrebbe conosciuto la putrefazione, sarebbe stato chiedere troppo ai suoi anni)… ecco, questo era il rimedio. Se mai lo avesse realizzato, un tale sogno personale sarebbe stato debitore di un grande esempio collettivo, archetipale nella sua patria, l’Unione Sovietica: la mummia di Lenin. Il padre della patria era vissuto, è vivo e vivrà grazie a tale antichissimo metodo di conservazione, al centro medesimo dello stato, in mezzo alla gente continuamente in visita al suo mausoleo; un cadavere intorno al quale si affannano esperti prosaicamente alle prese con la risoluzione dei problemi che la sua preservazione di volta in volta presenta.

Il trauma

Anatoly pensa di essersi ammalato di schizofrenia durante la sua infanzia, intorno ai 13 anni, dopo aver partecipato alla cerimonia di “matrimonio” con una defunta. Questa la storia descritta nel suo diario: “Il 4 marzo 1979, la nostra scuola raccoglieva carta straccia. Avevamo varcato gli ingressi, suonato a tutte le porte e chiesto vecchi documenti. C’era il coperchio di una bara vicino a uno dei portoni: il giorno prima ci avevano detto che una ragazza era morta in una scuola vicina. Natasha Petrova, 11 anni, stava facendo il bagno [...] E quando, bagnata, iniziò a uscire fuori dall’acqua, toccò un filo elettrico scoperto e morì all’istante per la scarica. …Uscendo dall’ingresso con balle di carta straccia, arrivammo ​​proprio nel momento in cui la bara veniva rimossa. Apparentemente, la madre di Natasha era membro di una setta. All’inizio non c’erano compagni di classe al funerale, ma vennero diverse dozzine di donne e uomini vestiti di nero. Tutti tenevano candele accese e cantavano qualcosa di mesto non in russo. […] la madre della defunta mi porse una grossa mela ungherese e mi baciò sulla fronte. Mi condusse alla bara e, promettendomi tanti dolci, arance e denaro, mi ordinò di baciare la defunta. Scoppiai a piangere, pregai di lasciarmi andare, ma i componenti della setta insistettero. Di nuovo tutti cantarono preghiere in una lingua che non capivo, e qualche adulto chinò con forza la mia testa sulla fronte coperta di cera di una ragazza con un berretto di pizzo. Non avevo altra scelta che baciare dove mi era stato ordinato. Così lo feci una, due e tre volte, mi incoraggiavano e mi dissero di ripetere un lungo incantesimo nell’antico russo dopo chi lo leggeva. Quando il rituale finì, mi fu ordinato di prendere una candela e far gocciolare la cera sul petto di Natasha, che indossava un vestito blu col bordo rosso. Poi mi diedero due anelli di rame consumati, mi dissero di metterne uno al dito della sposa morta e l’altro al mio. Verso la fine dell’anno scolastico, iniziai a sognare la morta Natasha quasi ogni notte, mentre cantava canzoni imbarazzanti. Inoltre, la mia sposa morta mi chiese – in sogno – di iniziare a studiare magia e promise di insegnarmi ogni cosa. Tutto ciò che era richiesto era il mio consenso. Naturalmente ero contrario. In estate partii per il paese e le visite notturne si interruppero. Ma ripresero la prima notte in cui tornai in città. Natasha mi apparve come in preda alla nebbia; presto cominciai a sentire la sua vicinanza avvolto in un gelo particolare. Iniziai ad avere allucinazioni e di notte ero in preda al delirio. Il medico a cui i miei genitori si rivolsero per chiedere aiuto spiegò questo fenomeno con qualcosa di ormonale…”.

Una carriera a metà

Per sua stessa ammissione, da studente Anatoly Moskvin era un membro della società luciferina (che non aveva nulla a che fare col satanismo), eseguiva dei rituali con animali morti, si sottoponeva a test di magia nera (in seguito affermerà di averla studiata per un decennio insieme a quella bianca), di celibato e di astinenza da alcool e fumo. Studiò egittologia  e tecnologie della mummificazione per molti anni. Non si considerava cristiano, bensì pagano (non a caso, infatti, all’università si specializzò in culture nordiche). Una volta adulto, forte anche di una simile stravagante giovinezza, non dimenticò né le sue esperienze né i suoi sogni d’infanzia: essi rimasero la stella polare dei suoi pensieri, che presero una strada assolutamente legittima nella nostra società: quella dell’interesse erudito.

All’inizio, il suo cammino fu decisamente promettente. Laureatosi in filologia germanica e celtica a Mosca, per un breve periodo insegnò studi celtici all’istituto di lingue straniere, imparò ben 13 idiomi, lavorò come tutor, scrisse tesine e tenne conferenze nella biblioteca distrettuale. Nonostante questo, ebbe grosse difficoltà d’inserimento nel mondo accademico: non riuscì a terminare la sua tesi di dottorato e così tornò dai suoi genitori a Nizhny Novgorod, dove per un po’ trovò lavoro nell’università locale. Redasse diversi dizionari fra il 1998 e il 2000 e inoltre tradusse “Storia della svastica” a cui fece seguire il proprio commento “La croce senza crocifisso”.

L’interesse verso la negromanzia di Anatoly fu risvegliato il 25 febbraio 2003, quando vide che da una tomba dove il giorno prima era stata sepolta una bambina di 8 anni, “emanava un insolito splendore” dal quale venne affascinato. Pochi giorni dopo lesse un necrologio della defunta in un quotidiano moscovita. Scoprì infine che la ragazza si ammalò di influenza e morì. Dal 2006 al 2010 Moskvin lavorò come corrispondente freelance nel quotidiano del posto e si impegnò nelle questioni di storia locale di Nizhny Novgorod. Dal 2008 al 2010 pubblicò articoli sulla storia dei cimiteri locali che ebbero una certa risonanza e gli permisero di tenere delle regolari conferenze. Aiutò anche diverse persone nella ricerca delle tombe dei parenti. Progettò di pubblicare il libro “Necropoli di Nizhny Novgorod””. Secondo quanto affermò in seguito, aveva esaminato 750 cimiteri, copiato 900 epitaffi dai monumenti e fatto un indice per schede di 10.000 tombe. Nel 2010Moskvin fondò il giornale “Obituary NN” di cui era l’autore principale e dove pubblicò diverse dozzine di saggi cimiteriali.

Insomma, il suo interesse fondamentale – maniacale – andò sempre più precisandosi nella direzione di una nuova forma di scienza che potremmo definire “necropologia”. Oltre la sua legittima attività di studioso, però, di nascosto aveva anche aperto circa 200 tombe tra il 2002 e il 2011.

Dalle parole ai fatti

Il 24 gennaio 2011, all’aeroporto di Domodedovo, un attentato terroristico di fondamentalisti islamici causò 37 morti e 170 feriti. Il giorno seguente qualcuno, nel cimitero di Nizhny Novgorod, dipinse di bianco una trentina di immagini di diverse fotografie di musulmani o di defunti con cognomi tartari o baschiri: un tipo di vandalismo molto selettivo, anzi per le autorità qualcosa di ben differente. Un metodo perfetto per seminare discordia fra gruppi etnici e religiosi diversi che pullulano in Russia. Le forze dell’ordine collegarono subito i due eventi così distanti all’apparenza, ma impiegarono del tempo per capire che il terrorismo non c’entrava niente. Si trattava di qualcos’altro, una sorta d’atto magico realizzato da chi conosceva perfettamente il cimitero e aveva reagito in questa stravagante maniera all’attentato. Ergo, Anatoly Yuryevich Moskvin, uno strano personaggio legato a doppio filo ai cimiteri di Nizhny Novgorod e della regione. Nei suoi almanacchi internetiani pubblicava tutto ciò di etnografico che avesse attinenza con la morte e la sepoltura. Persona indubbiamente istruita, faceva pensare a causa delle sue abitudini eccentriche: restava fuori casa per diversi giorni, trascorreva molto tempo nei cimiteri, percorreva lunghe distanze… insomma, si comportava in modo sospetto, perlomeno quel tanto che bastava alla polizia per trattenerlo, interrogarlo e perquisire la sua casa, o meglio quella dei genitori, dove viveva ancora.

L’appartamentino di due stanze era stipato di libri, al punto che qualcuno mise in giro la (falsa) voce che ne possedesse ben 60.000! L’altra stranezza era costituita da 26 bambole (secondo un’altra fonte 29), ciascuna alta da 1 metro a 1metro e 50 circa, con i volti e le mani nascosti da vecchi calzini. La madre motivò la massiccia presenza di esse con una ricerca sui giocattoli russi di cui quelli sarebbero stati rari esemplari. Nel momento in cui, spostando una bambola, la si sentì emettere uno strano verso quasi infantile, i poliziotti la ispezionarono e scoprirono che si trattava del cadavere mummificato di una ragazza all’interno del quale era stato inserito un meccanismo simile a quello dei giocattoli parlanti: “Quando [i corpi] venivano toccati, dicevano qualcosa come Papà, ti amo o cantavano la canzone L’orso ama moltissimo il miele [...] la musica che si ascoltava provenire dalle mummie era inquietante”. In alcune di esse i poliziotti trovarono effetti personali delle ragazze decedute. Dentro una c’era un pezzo di lapide con il suo nome cucito, nell’altra un’etichetta dell’ospedale con la data e la causa della morte. Nel petto di una terza un cuore umano disseccato. I cadaveri erano stati riempiti di stracci, rivestiti di calze di nylon; sulle teste il “necropolista” aveva cucito dei peluche e inserito nelle orbite delle giovani bottoni o occhi giocattolo in modo che potessero “guardare” i cartoni animati con lui.

Durante gli interrogatori, questi dichiarò di amare le sue ragazze e di essersi preso cura di loro come se fossero vive. Senza abiti, maschere e calzini, chiunque avrebbe capito che si trattava di mummie: la pelle sembrava esattamente pelle scura, nient’altro. Nessuna particolare abilità cosmetica che le potesse imparentare neanche lontanamente alle bambole sexy sintetiche americane, anzi, niente di più antitetico: ricordavano piuttosto delle anoressiche o delle prigioniere dei lager. I corpi erano quelli di bambine che andavano dai 3 ai 13 anni e nessuna di esse – come stabilirono le autopsie – era stata uccisa da Movskin, anche se era interessato ai cadaveri delle giovani che morirono di morte innaturale: incidenti stradali, stupri, incidenti, suicidi, omicidi e molte orfane. Trovava informazioni su di loro in periodici, internet, rapporti sui crimini e poi seguiva il destino della defunta, il luogo e l’ora del funerale. Si ricordava di tutte per nome, conosceva a fondo la storia della loro vita, fatto essenziale per stabilire un rapporto profondo con esse.

Nekromantik

Le sue dichiarazioni dopo l’arresto immediato, il 2 novembre 2011, spiegarono molte altre cose, se possibile ancora più macabre: i corpi erano stati disseppelliti in quattro diversi cimiteri nelle regioni di Nizhny Novgorod e Mosca. Ne aveva riseppellito quattro perché non gli piacevano – ovvero con i quali non era riuscito a stabilire un contatto spirituale dopo aver dormito sulla tomba nella quale il cadavere era stato collocato di recente, secondo una pratica utilizzata dai druidi. Questi “comunicavano con gli spiriti: venivano alle tombe dei morti e vi si fermavano per la notte. […] gli Yakut facevano lo stesso. Mi è piaciuto […] Avendo sentito il contatto con il defunto, ho dissotterrato il corpo e l’ho portato a casa. Ciò ha richiesto lo studio di una speciale tecnologia di mummificazione. Allo stesso tempo, ho capito che stavo commettendo un crimine, quindi ho fatto tutto il lavoro di notte”.

Moskvin perse rapidamente interesse per alcune delle morte e le riseppellì. Verso quelle con le quali stabiliva invece un collegamento, procedeva all’esumazione e in un luogo non lontano le collocava in un contenitore (fosse una vecchia vasca da bagno come un abbeveratoio, o al limite un sacco di tessuto gommato come quello usato dalla polizia per le vittime) e quindi, grazie a una soluzione salina sovrasatura utilizzata come agente conciante, le imbalsamava. “Per mummificare correttamente il corpo, hai bisogno di soda e sale in varie proporzioni. Ho comprato queste sostanze in negozio, ho trovato vecchie calze di nylon nella spazzatura e ne ho fatto dei sacchetti. Vi ho versato la soda e il sale, li ho legati ai resti della ragazza. Ho cambiato queste borse una volta alla settimana. Ho asciugato le borse bagnate proprio nel cimitero. Alle persone che mi hanno prestato attenzione, ho detto che nutrivo gli uccelli. (…) Il 25 luglio 2003 ho avvolto il corpo in abiti diversi e l’ho portato a casa mia in uno zaino”. Per i suoi trasporti pagava auto di passaggio che non sospettarono mai nulla. Secondo un’altra fonte, invece, utilizzava il treno. Non mancavano neppure le “operazioni”: in un’occasione, per esempio, “nel giro di due giorni ricostruii il mio cadavere: gli infilai dentro degli stracci, degli assorbenti femminili. Ci ho anche messo dentro del vecchio cuoio capelluto umano. Poi ho ricucito il corpo con fili e ho realizzato una maschera di cera sul viso. A proposito, la testa della ragazza era stata per metà spazzata via. Avevo il cranio di un bambino. Ho tagliato il frammento corrispondente dal cranio di questo bambino e l’ho montato sulla testa della mummia”.

I genitori di Anatoly, dopo aver tentato di negare d’essere a conoscenza delle “bambole”, furono costretti ad ammettere di aver taciuto per paura di perdere il proprio figlio, timore, quest’ultimo, che ebbe la meglio sulla vita da film horror che vivevano quotidianamente. Dulcis in fundo, durante le feste di famiglia, egli voleva che una delle ragazze alla quale parlava come fosse viva sedesse a tavola: una sorta d’ospite d’onore. Quanto fece Moskvin trovava radici tradizionali nella negromanzia, ovvero nel tentativo di comunicare con le anime delle defunte.

Quella che segue è una descrizione dei suoi rapporti con i corpi che componevano la sua piccola necropoli privata: “Ho parlato con loro [i cadaveri] a casa. Avevamo un reparto [di bambole], c’era una leader e un’anti-leader, avevamo una gerarchia, la nostra lingua, avevamo le nostre canzoni, avevamo le nostre vacanze, avevamo il nostro, come si suol dire, il nostro mondo interiore. I miei genitori non hanno visto quasi nulla di questo e non ho permesso ad altre persone di entrare in esso. Di regola, i miei partivano [per la Dacia] ad aprile e tornavano a ottobre. E durante questo periodo eravamo impegnati in questo mondo”.

Gli eccessi della solitudine

Nel corso della sua vita, Moskvin non ha mai fatto, perlomeno non fino a ora, l’amore con una donna: l’unica che voleva vivere con lui avrebbe accettato soltanto per poter adottare un bambino – ma senza sesso fra loro. L’adozione venne negata alla coppia, i due andarono ciascuno per la propria strada e forse quella di Anatoly prese proprio per questo fallimento la tortuosa direzione del disseppellimento, ma prima lui fece ancora un tentativo – sbagliato – con diverse alunne alle quali dava lezioni private: niente di materiale come aggressioni sessuale o cose del genere, ma piuttosto un tipo di comunicazione che tendeva a diventare sempre più morbosa. Inutile dire come reagirono i genitori delle ragazze: semplicemente le allontanarono da lui. La pedofilia (non dimentichiamo che le sue mummie erano tutte delle giovanissime) prese allora una via più accettabile – sotto il profilo penale, ma non certo sotto quello mentale – con le “bambole” di cui si circondò.

In realtà, unendo due dei maggiori tabù sessuali della nostra epoca, la necrofilia alla pedofilia, paradossalmente rese meno criminoso l’insieme di eccessi: ciò fu possibile grazie al momento in cui Moskvin, dopo le disavventure con le sue allieve, scelse di essere pedofilo: solo dopo la morte delle bambine/ragazze, una morte casuale, per malattia o incidente, in ogni caso data da altri e ben distante da lui. Giocò, con ogni probabilità inconsciamente, sul tempo. C’è un passo di Roberto Curti e Tommaso La Selva che si adatta in un certo modo a questo sesso estremo vissuto sul filo del rasoio del passato: “Il mercato della pornografia ha creato una nuova categoria di necrofilo improprio, virtuale e inconsapevole: quello che consuma gli hard con Moana Pozzi, Savannah o Karen Lancoume, dando un nuovo, imprevedibile significato alla frase di Cocteau sul cinema come morte al lavoro sugli attori” (Sex and Violence). Sull’altro versante, esistono diversi mondo movie degli anni ‘70 che oggi non passerebbero i rigori della censura per scene pedofile: anche in questo caso è sempre il tempo a salvarli dal fuoco – a meno di un’inopinata affermazione sociale dell’orwelliana (e puritana) cultura della cancellazione”.

Il tribunale giudicò Anatoly uno schizofrenico paranoico e venne recluso in un istituto specializzato per cure obbligatorie, dove si trova tuttora. Il terapista sessuale-psicoterapeuta e psichiatra di Nizhny Novgorod disse che la malattia di Moskvin poteva “essere definita necrofeticismo” o forse, azzardiamo, una specie di necropedofilia. Di sei mesi in sei mesi il tribunale proroga il periodo di trattamento medico.

Gli esseri umani sono talmente imprevedibili da non permetterci di immaginare con un accettabile grado di probabilità che a lungo andare, pur con tutte le sue difficoltà verso le abituali forme di socializzazione, Anatoly passerebbe dall’esumazione di cadaveri all’omicidio di donne: questo è invece quanto ipotizza lo scrittore Alexey Rakitin, che lo ritiene pericoloso e giustifica dunque le decisioni del tribunale… come se, al di là della questione morale dell’uccisione, un delitto non prevedesse anche fatiche psicologiche oltre che fisiche – sapendo fra l’altro di essere il primo indiziato nel caso della sparizione di una ragazza! Non dimentichiamo che Gein, per fare un altro esempio di necrofilo, prima dell’omicidio di Bernice Worden, non era sospettato di nulla. Naturalmente resta anche vero che l’attuale mitezza di Moskvin non indica affatto una garanzia futura di positività sociale nel suo comportamento, una volta libero: egli stesso notò che, dopo aver dissotterrato 26 corpi, era arrivato a un vicolo cieco e non sapeva cosa fare dopo. Prima o poi le cose avrebbero dovuto muoversi, ma non abbiamo idea di quale direzione avrebbero preso. Gli anziani genitori del “collezionista di ragazze morte”, dopo aver visto per cinque anni il proprio figlio sottoposto a dosi elefantine di farmaci psicotropi, con il conseguente deteriorarsi delle sue condizioni fisiche, hanno lamentato lo stato vegetale in cui si trova. Nel 2017 gli psichiatri che tenevano da sei anni sotto osservazione Anatoly dissero che poteva venire curato in regime ambulatoriale, escludendo quindi la detenzione. Una soluzione ancor più sensata appare quella proposta dal difensore civico di Nizhny Novgorod, secondo il quale occorrerebbe “collocare Moskvin in un collegio specializzato in psicologia neurologica, dove riceverà assistenza, supervisione, riabilitazione medica e sociale. Sarebbe umano per lui, e per i suoi parenti e vicini”. Forse esiste la possibilità di un insperato lieto fine: una fidanzata, che dopo aver appreso la sua storia da internet ha iniziato a fargli visita e a pagare il suo avvocato. Se e quando sarà possibile, la coppia ha intenzione di andare a vivere in un’altra città…

È impossibile andare nellaldilà senza amore 

Per concludere questa strana storia, occorre accennare anche ad altri comportamenti anomali, questa volta non di Anatoly, rintracciabili ed espressi nel modo migliore dalle agghiaccianti parole del padre di una delle defunte (la moglie del quale chiese un risarcimento in denaro al “necropolista” durante il processo): “Non avrei preso nulla da Moskvin, era mia moglie che ha insistito. Dopo tutto, ha trattato mia figlia meglio dopo la sua morte di quanto abbia fatto io durante la sua vita. La vestiva, la metteva a letto, le leggeva favole, le mostrava cartoni animati”. Lo stesso necrofilo spiega le sue azioni con la compassione per le ragazze, con il desiderio di “prolungare la loro vita” mentre sognava che un giorno la scienza le resuscitasse: per questo le aveva portate “dalle tombe fredde e umide a un appartamento caldo, dove puoi comunicare con le sfortunate”.

A sostegno di questa dichiarazione, e quasi a sottolineare il discorso del genitore appena citato, va ricordato che fino al dicembre del 2014, a 3 anni dall’arresto di Anatoly, più della metà dei corpi esumati dal “necropolista” erano ancora all’obitorio. Per qualche ragione non era mai venuto nessuno a reclamarli e a portarli via: forse i parenti non ne avevano sentito la necessità. C’è qualcosa da aggiungere a questo? Forse sì: “Ti sei sbarazzato dei corpi e io li ho raccolti”.

Gianfranco Galliano

Nota

A scanso di equivoci, per evitare che il lettore interpreti in maniera distorta il testo magari collegandolo alla guerra russo-ucraina, meglio aggiungere due cose. Pubblicai “Moskvin il necropolista”, in forma lievemente diversa, il  30/04/2021 sul numero  97 di “Mistero Magazine”, quindi molto prima dell’attacco putiniano ai suoi vicini. Inoltre la mia posizione sulla questione guerra-cultura è quella che segue: “Non dovremmo biasimare gli accademici che hanno impedito a Paolo Nori di tenere le sue lezioni su Fedor Dostoevskji, bensì elogiarli perché ci hanno fatto comprendere che cosa significa cultura per alcuni suoi tristi esponenti: seriosità al passo coi tempi. Per questi posatori modaioli, per questi puritani 1984 in grado di mettersi a pulire le foglie degli alberi, di distruggere tutti i batteri (senza rendersi conto che così creperemmo perché pure la sporcizia serve), di considerare anche solo il cagare un atto ostile, la cultura è un innocuo bene dell’umanità simile alle fontane del Prater. Si dimenticano (o forse non hanno mai saputo) da dove nasce, dal grembo insanguinato del trauma: se potessero entrare nella testa di un Pascoli se la darebbero a gambe inorriditi perché “non capirebbero”: direbbero, e quel che è peggio in buona fede: “Ma… ma è veramente questa la cultura?”. Sì signori, la cultura è precisamente questo, è merda formalmente ineccepibile, è Dickens che non riesce a superare sei mesi trascorsi a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe come è Dante risentito con Bonifacio al punto da preparargli un bel buco flambé all’Inferno, sono i ragazzini di Sandro Penna (ah, ricorderò a questi soloni che Penna era un pedofilo: a quando il rogo delle sue poesie?), sono le pallose pagine di torture assortite di Sade (che per l’appunto era un… sadico: a quando il rogo de La filosofia nel boudoir?). Dostoevskji però era senza dubbio il peggiore di tutti: era un russo. (“Volevo una piazza pulita – e adesso ho una piazza vuota”, “La Soglia Oscura”, 02/03/2022).