NEL FANTASTICO MONDO DI ROCCO

Sono in corso le celebrazioni per il centenario dalla nascita di Rocco Scotellaro (Tricarico/MT 1923 – Portici/NA 1953), raffinato intellettuale lucano, sindaco del suo paese e capopopolo nelle lotte contadine per l’occupazione delle terre nel Secondo Dopoguerra, protagonista di un’epica stagione poetica, letteraria e politica.

Molto caro a Carlo Levi, stimato da Italo Calvino, Eugenio Montale sosteneva che egli avesse scritto alcune “tra le più significative liriche del nostro tempo”. Scotellaro aveva solo 30 anni quando lasciò questo mondo e ciò ha alimentato il suo mito, tanto che una leggenda contadina non lo volle mai morto.

Prendendo spunto da questo, l’autore Filippo Radogna, nostro storico collaboratore e appassionato dell’opera scotellariana, lo fa rivivere in un racconto fantastico ambientato durante una fredda e allegra serata del popolare Carnevale di Tricarico, rileggendo la sua personalità sotto l’aspetto letterario e politico, ma anche sotto il profilo di giovane brillante ed eclettico.

Il racconto è stato premiato alla XIII edizione del Concorso “Carlo Levi” di Torino.

NEL FANTASTICO MONDO DI ROCCO

Febbraio ’92. Ultimo giorno di Carnevale. In auto verso Tricarico

Abbandonato il lungo nastro d’asfalto della Basentana che taglia in due la Basilicata iniziai a inerpicarmi sulla strada per Tricarico. Gli abbaglianti fendevano il  buio di quella serata invernale. La potente Alfa 75 di mio padre mangiava rapida la strada nonostante l’aspra pendenza. Da ventisettenne audace quale mi ritenevo, a un passo dalla laurea e quindi in un periodo nel quale mi sentivo padrone del mondo, mantenni la guida sportiva anche nell’intrico di curve a gomito. Quando l’auto s’inoltrò nel bosco, da cui faceva capolino qualche casupola, ebbi l’impressione di essere entrato in un’altra dimensione. Guardai nello specchietto retrovisore, il colore scuro della selva sembrava avermi inghiottito. Dallo stereo la voce professionale di uno speaker augurò buon ascolto e le note da atmosfere imponderabili di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd presero a diffondersi.

Per fortuna c’è ancora qualcuno che per radio si ricorda di trasmettere della buona musica,  pensai rallegrandomi. Quella situazione quasi surreale mi fece pensare a un labirinto, certamente popolato  da  animali selvatici, ma, perché no, anche da presenze misteriose e anime nascoste.

Stavo concludendo una  lunga curva a ferro di cavallo quando dalla vegetazione prese corpo una figura umana che sollevò la mano segnalandomi di fermarmi.

Pensando a una richiesta di soccorso frenai accostando sul ciglio della strada. La figura si avvicinò allo sportello, lo aprì. Un giovane, suppergiù mio coetaneo, si sporse dentro l’abitacolo e con un sorriso cordiale chiese:

“Buonasera, potreste darmi un passaggio al paese?”.

Ebbi dei dubbi che subito misi da parte: “Prego, sì. Salgo anch’io a Tricarico”.

“Grazie!”, entrò, ripartii. Non feci in tempo a chiedergli come mai si trovasse a quell’ora in quel posto isolato che mi anticipò, avviando la conversazione.

“Da dove venite?”, esordì dandomi del voi, cosa allora ancora comune nel Sud, ma sicuramente non più tra giovani.

“Ci diamo del tu? Avremo più o meno la stessa età… mi sembra”, proposi.

“Sì, senz’altro!”.

Gli raccontai che venivo da Avellino, avevo percorso la Basentana e che ero lì per una ricerca sul campo relativa al Carnevale.

Poi ripresi: “Era da molti anni che non vedevo queste zone che appartengono alla mia infanzia e perciò mi sono molto care. Mio nonno Tommaso ha lavorato qui e qualche volta mi portava con sé nelle campagne …”,

Mi interruppe curioso: “ Ah sì e cosa faceva nelle campagne?”.

“Era un agronomo e dall’Irpinia, per lavoro, si spostava da queste parti. Così stasera ho fatto con trepidazione queste strade per ritrovare quei luoghi fuori dal tempo e quelle terre aspre che attraversavo con lui da bambino. Chissà com’è cambiato qua intorno. Comunque ho respirato un po’ di ricordi. Il nonno aveva studiato agraria a Portici ed io ne ho seguito le orme”, replicai guardandolo di sfuggita e notando in lui un qualcosa di demodé.

“…Certo – assentì – la rinomata Scuola di Portici dalla quale sono venuti fuori eminenti tecnici che hanno operato qui, tuo nonno e, soprattutto, Manlio Rossi Doria, il più grande di tutti, che ha saputo coniugare realtà sociale con realtà agraria meridionale”.

“Come no – convenni – un memorabile meridionalista ed economista agrario. Anche lui fu socialista, proprio come il nonno. Ce ne fossero ancora uomini così! Ma scusa l’ho gettata in politica, non so… cosa ne pensi?”

“Già, i socialisti, gli intellettuali – disse quasi fra sé – Rossi Doria, Pedio, Sinisgalli, De Martino, Levi, Mazzarone. Le grandi idee di giustizia sociale e l’utopia, la miseria e l’occupazione delle terre, le inchieste sull’universo contadino e la sua redenzione, la delusione e l’emigrazione, la liberazione… la morte civile”, rispose e mi sembrò distante, preso da altri pensieri e, comunque, una personalità fuori dal comune. Stava per dire qualcos’altro, quando affrontai l’ultima curva e vedemmo spuntare, come per incanto, le prime luci di Tricarico.

Primo  Interludio

Di Tricarico avevo il ricordo indelebile, risalente credo ai primi anni ’70, di una gigantesca locomotiva collocata nella villa comunale. Per il resto avevo ascoltato soprattutto i racconti di nonno Tommaso. Era un tecnico con formazione umanistica. Era curioso e di ampie vedute. Teneva conferenze di divulgazione e propaganda agraria ai coltivatori. Amava il suo lavoro e la campagna, e dai contadini era accolto sempre con piacere, li metteva a loro agio vincendo così la loro diffidenza. Quando non lavorava, scriveva articoli per riviste specializzate, saggi e racconti.

Tra le sue carte avevo trovato anche un diario sul più importante intellettuale della cittadina: Rocco Scotellaro. Epico capopopolo ma anche poeta, scomparso ancora giovane. Il nonno lo aveva conosciuto per motivi legati alle sue funzioni di tecnico agricolo quando Scotellaro era un giovane e rivoluzionario sindaco. Ma si erano incontrati anche in altre occasioni durante riunioni con i compagni socialisti del paese o in momenti conviviali nelle serate invernali, “quando il vento impazza nei vicoli, la pioggia batte incessante sui vetri e nel paese non gira nessuno, per far passare il tempo – aveva scritto  il nonno – ci si rifugiava nei sottani a bere qualche bicchiere di vino Primitivo e a gustare il pane con la soppressata”.

“Era la seconda metà degli anni Quaranta – riportava ancora il nonno tra i suoi fitti appunti – tempo in cui si moriva per la terra e in quelle serate, tra un bicchiere e l’altro, i ragionamenti cadevano quasi sempre sulla politica e sulla necessità di costruire una nuova società nella quale le plebi rurali si affrancassero dalla miseria. E allora Scotellaro veniva fuori con tutta la sua carica di idee libertarie e di entusiasmo. Solo con la lotta entreremo in gioco, proclamava il giovane sindaco, solo con la lotta vedremo sorgere un’alba nuova. I compagni contadini a bocca aperta lo stavano ad ascoltare”.    

Il paese delle maschere

Guardai il paese, era adagiato sul rilievo montuoso e i bagliori dei lampioni, filtrati da una lieve foschia, gli davano un’aria irreale. La fila di automobili parcheggiate arrivava fuori dal centro abitato. Sapevo che il Carnevale tricaricese era un avvenimento con una grande valenza antropologica ed era molto sentito dalla popolazione non solo locale:

“Però – constatai – quanta gente ci viene!”

“Beh, vedi, ci sei venuto anche tu, no?”

“Eh,certo ma non per diletto. Come ti dicevo sono qui per studio. Sto lavorando alla mia tesi di laurea in Sociologia rurale sulla trasformazione della civiltà contadina e il professore mi ha chiesto un capitolo sui carnevali lucani”.

“Su quello di Tricarico qualcosa la conosco…”, mi disse con una certa baldanza. Il mio nuovo amico guardava il paese con gli occhi spiritati. Era così eccitato che aprì lo sportello e scese mentre ancora parcheggiavo. Nella luce dei lampioni ebbi modo di guardarlo per bene. Aveva un aspetto  dignitoso. Il viso era pallido e i capelli color rame erano impomatati e portati all’indietro. La giacca in tessuto molto pesante, i pantaloni larghi e con il risvolto in fondo, le scarpe inaspettatamente lucide, davano l’impressione che fosse uscito da un film neorealista degli anni Cinquanta.

“A quanto pare partecipi alla festa stasera. Così vestito avresti potuto anche recitare, magari con un ruolo importante, in un film di Roberto Rossellini o Vittorio De Sica”, gli dissi scherzosamente facendo cenno al suo abbigliamento, ma anche riferendomi al suo atteggiamento, che aveva, seppure in modo naturale, un qualcosa di ricercato. Lui accettò di buon grado la battuta e con un certo compiacimento rispose che quanto a fare l’attore non ci aveva mai pensato, però gli era capitato di scrivere drammi teatrali e critiche cinematografiche. Riguardo al successo aggiunse enfatico: “Beh, anche se non come attore, quando lascerò il bivio al quale sono ancora fermo, il successo mi potrebbe giungere come studioso o come poeta e verrei ossequiato nei simposi, e il mio nome sarebbe pronunciato con deferenza nelle università!”, ed eseguì un plateale inchino. Apprezzai il suo spirito ironico. Poi mi diede un’allegra pacca sulla spalla come fossimo vecchi amici e ci avviammo. Gli chiesi se poteva consigliarmi una sistemazione per la notte.

“Adesso proseguiamo insieme. Per la sistemazione, qualcosa si troverà”, assicurò.

Risalimmo in una strana assenza di rumori, finché entrammo in paese. Lì, improvvisamente, tutto si animò in un’atmosfera magica e surreale. La strada era piena di luci, suoni e movimenti. Nastri multicolori si allungavano da un palo all’altro, da finestre e balconi. Traversammo la villa, dove comitive di adolescenti parlavano e scherzavano vivacemente e giovani coppie spensierate si scambiavano effusioni sulle panchine. Ci addentrammo ancora nel fiume umano. Passammo davanti a una macelleria, veniva fuori un allettante profumo di carne arrostita, non resistemmo e ci fermammo a gustare delle salsicce alla brace.

Secondo Interludio

Tricarico mi faceva pensare a mio nonno Tommaso, esperto conoscitore dell’animo umano, agli scritti che mi aveva lasciato in eredità e a Rocco Scotellaro, spesso presente nelle sue annotazioni. Scotellaro lo avevo sempre immaginato come un assennato idealista, squattrinato ma generoso! Però non avevo, devo dire la verità, mai approfondito gli studi sul personaggio e sulla sua vita. Né mi ero mai preso la briga di cercare una sua immagine su un libro. Terminate le medie inferiori, pur essendo più portato verso le materie umanistiche, avevo preferito un istituto tecnico, che ritenevo meno impegnativo. Così mi ero iscritto all’Itas “Francesco De Sanctis”, Istituto agrario di tutto rispetto – fondato dal grande uomo di lettere, filosofo e politico irpino, e a lui intitolato – vanto della mia città. Tuttavia, non ho mai perso l’interesse per la letteratura con la quale ho sempre avuto un altalenante rapporto di sregolata fedeltà. Ma torniamo a Scotellaro. Rammento che il mio insegnante di italiano era lucano: il prof. Gerardo Somma di Potenza, una brava  persona. Di quei docenti vecchio stampo, eruditi e comprensivi, ma noiosi. La classe, infatti, doveva sorbirsi le sue prolisse spiegazioni, dettate da buoni propositi ma purtroppo ampollose, sul romanzo autobiografico incompiuto “L’uva puttanella”. Risultato: nelle sue ore leggevo, tenendoli sotto il banco, i nordamericani Jay McInerney o Philiph Roth. Oppure il libro cult di quel periodo: “Noi, i ragazzi  dello zoo di Berlino” di Christiane  F., una storia di stupefacenti e prostituzione minorile dalla quale era stato tratto il film con la leggendaria colonna sonora di David Bowie. O ancora, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, romanzo che non doveva mancare tra le letture di tendenza negli anni Ottanta. Insomma, volevo leggere il presente, figuriamoci se perdevo tempo dietro quelli che reputavo autori locali che mi apparivano come cantori di un passato triste di terre immobili e popolazioni sventurate. Per non parlare di Carlo Levi che con il suo “Cristo si è fermato a Eboli”, mi aveva angustiato sin dalle medie. Ma si sa che nell’adolescenza si è bastian contrari! Tuttavia, un pomeriggio, per caso, rimettendo a posto i libri ricevuti dal nonno mi ero soffermato su uno dei testi di Scotellaro. Mi aveva attirato una sua poesia dal titolo “L’amica di città” e avevo scoperto come egli non fosse solo interessato a quegli infelici contadini ma fosse anche un appassionato ammiratore dell’universo femminile e ciò me lo aveva fatto sentire vicino. Per giunta la declamazione di quella poesia, imparata a memoria, aveva contribuito alla mia conquista dell’ambita Emma Amato, una tra le più corteggiate bellezze di Avellino. E di questo a Rocco Scotellaro ero grato.

Sorpresa tra i campanacci e i Tarantolati di Tricarico

Ci eravamo addentrati in quella babele e procedevamo a fatica nel lungo viale che ci portava nella piazza centrale. Taluni, tra la gente assiepata, si fermavano a guardarci. Via via che ci approssimavamo alla piazza si udiva il suono vibrante dei campanacci che portano al collo i bovini al pascolo. Li scuotevano, con forza, chiassosi figuranti mascherati. La moltitudine di persone si apriva per lasciarli passare. “Uard, chedd so’ l mashk’r r’ Tr’ca’rc!”*, (“Guarda, quelle sono le maschere di Tricarico!”*) mi disse in dialetto l’amico indicando le persone travestite. Quindi soggiunse: “Quel signore con i baffoni, il bastone e il mantellone sdrucito è il capo massaro. Per quanto riguarda le maschere con i cappelli ampi: quelle inquiete in nero con le fettucce rosse raffigurano i tori e quelle in bianco con le strisce variopinte le vacche”. E, osservando due di queste, l’una nera e l’altra bianca, che sembravano giocare tra loro, proseguì: “Stanno simulando le movenze che precedono l’accoppiamento degli animali. Guarda il toro com’è prepotente con la vacca! Una delle chiavi di lettura è la celebrazione della fertilità, di grande importanza nella nostra cultura agropastorale”.

Due ragazze che stavano ascoltando intervennero: “Hai dimenticato di dire che l’insieme è la rappresentazione del bestiame in transumanza”, osservò la prima. Era bruna e molto carina, con i capelli corvini a coda di cavallo. L’altra, anch’essa bruna e bella, con splendidi occhi azzurri aggiunse “…e che tutto comincia con la ricorrenza di Sant’Antonio Abate. Il giorno è il diciassette di gennaio. I tricaricesi si svegliano di buon’ora e con gli animali, agitando  strumenti che diffondono suoni rintronanti, raggiungono l’antica chiesa di Santa Maria dell’Ulivo. L’evento, lo commentò magistralmente anche Carlo Levi giunto qui per assistere al Carnevale…”.

Io e il mio amico ci sorridemmo d’intesa, dicendoci con gli occhi, queste due non ce le facciamo sfuggire. “Carlo Levi – confermò il mio amico guardando con intensità la prima ragazza molto carina che aveva parlato – rimase molto impressionato dal rituale che da sempre segna il nostro mondo in quella giornata. Da prima dell’alba quando ancora la popolazione è immersa nel tepore del sonno  e il silenzio viene rotto da un singolare frastuono…”,

“… è vero, Levi fu molto colpito dal rumore cupo e misterioso degli antichi strumenti che emettono suoni che egli paragonò a un segnale proveniente dalla notte dei tempi…”, disse questa ricambiando lo sguardo appassionato. Quindi il mio amico, spianata la strada, attaccò bottone e iniziò una fitta conversazione con la ragazza. Io ero rimasto impalato, escluso da quel breve scambio di battute, e mi pentii di aver sempre snobbato Carlo Levi.

Così tentai di recuperare terreno e rivolgendomi a quella dagli occhioni azzurri, esordii: “Anche ad Avellino, il 17 gennaio, la festa religiosa di Sant’ Antonio Abate si apriva con la benedizione degli animali, ma oramai è una pratica superata…”, e passando al mio repertorio ordinario mi informai: “Di dove siete?”

“Io sono di Otranto e mia cugina è di Lecce. Studiamo antropologia. Carlo Levi descrisse l’avvio del Carnevale a Tricarico, dove era stato invitato da Rocco Scotellaro, nel 1974, parecchi anni dopo averlo visto, come ha testimoniato in un saggio l’antropologo materano Enzo Spera. Abbiamo studiato la fascinosa narrazione dell’intellettuale torinese nel programma del nostro ultimo esame. Ma stasera siamo qui per un concerto di pizzica. Ci esibiremo con il nostro gruppo dopo che avranno suonato i celebri Tarantolati di Tricarico, originali interpreti della musica folclorica”.

Dissi: “Ah, allora ho molte cose da chiederti sul carnevale!”

Poi, non senza un po’ di recitazione affermai: “Ritengo che Otranto sia semplicemente sublime. La punta orientale d’Italia. In un pellegrinaggio invernale scrissi dei versi, ascolta: Mare confine tra acqua e cielo / scoglio orientale / senso di sperduta origine e luce profonda / dolore e amore affogati nell’anima / finestre bagnate dalla salsedine / folate d’inverno che sibilano tra i vicoli / coste battute dal vento / torce accese come corpi di amanti”.

“Molto romantica anche se quasi dolente. Ed è dedicata a una donna del tuo passato che era con te a Otranto?”, domandò.

“Sì. Ma adesso potrebbe essere rivolta alla donna che sarà con me nel futuro”, la buttai lì, lo facevo spesso quando iniziavo con le lusinghe alle donne.

“Secondo me ho di fronte un impareggiabile incensatore”, aggiunse la ragazza, che sembrava non anteporre filtri nei rapporti con gli altri. E ci presentammo velocemente.

“Vittoria…”,

“Alessandro”, risposi stringendole la mano qualche secondo in più del dovuto.

A quel punto la cugina di Vittoria che, di striscio, aveva udito la parte finale della mia poesia, quasi a sfidare il mio amico domandò:

“E tu non sei un poeta come lui?”

“Poeta? Beh, sì. Per me la poesia è impegno civile e sociale. Ma anche dimensione personale e  sentimenti, ricerca, richiami al bello e al vernacolo, con uno sguardo alla letteratura straniera ma anche alla classicità. Comunque qualcosina l’ho scritta e ho pubblicato su riviste qua e là. Mi hanno pure assegnato dei premi, l’ultimo a Palermo”, ribatté.

Allora intervenni quasi a difendermi: “Chiariamo. Io non sono né mi sento un poeta. In realtà mi capita di scrivere qualche verso, ma sono parole in libertà riservate alle mie fidanzate e non mi sento in colpa per questo”.

“E’ una giusta causa, amico mio. Le donne vanno sempre soavemente irretite! E le poesie, in tal senso pagano”, affermò brioso il mio amico.

“Ma che simpatiche canaglie siete! Uno dedica le presunte poesie alle fidanzate… notare il plurale: fidanzate! L’altro, invece, prima fa l’intellettuale e poi si tradisce dicendo che le donne vanno praticamente abbindolate”, riprese scherzosa la cugina di Vittoria.

A quel punto data la circostanza leggera il mio amico rivolgendosi alla ragazza disse: “…sei di Lecce, la stupenda città del Barocco… se hai piacere ti declamerò una mia poesia. Sai io sono della piccola Tricarico, ma ho girato abbastanza e ho frequentato e svolto gli studi, da quelli elementari a quelli universitari ancora in corso, in varie città: Roma, Napoli, Bari, Potenza, Trento, Matera… La lirica è intitolata L’amica di città. Ed essendo tu una ragazza di città, è adatta per te”.

Lì per lì rimasi sorpreso. Ricordai che quella poesia era di Rocco Scotellaro. E pensai: Questo è proprio un cascamorto di professione, peggio di me, spaccia per sue le opere di altri. Ma si sa in queste cose bisogna giocarsele tutte le carte. D’altronde, è capitato anche a me di recitare poesie di grandi autori, vendendole per mie.

E cominciò: Il mio occhio è fatto, per guardarti, / amica, come il sole è frastagliato / dietro le querce di prima mattina. / Hai tu la veste succinta dell’alba, / hai le labbra di carne macellata, / i seni divaricati. / Sono stato con te. Ciao, me ne vado. / Non ti scordar di me / dei braccianti impiccioliti / nel fascio dei fanali / che scappano nei campi come lepri.

La ragazza era rimasta come incantata. “Pia… piacere, io sono Amalia”, disse presentandosi.

“…Amalia o Amelia?” riprese lui, dolce.

“Amalia!”, confermò lei con il viso che le si illuminava.

“E il cognome? So che da voi, nel magnifico Salento, alcuni sono strani”,

“Il mio è abbastanza canonico. Mi chiamo Amalia Greco – rispose la ragazza. Poi: “E tu, poeta, come ti chiami?”.

Frattanto con Vittoria ci guardammo, sicuri che Cupido avesse scagliato bene le sue frecce. E mentre i Tarantolati di Tricarico iniziavano a diffondere le prime potenti vibrazioni sonore, lui le strinse la mano. Disse, sempre posato: “Io mi chiamo Rocco, Rocco Sc…”, fu in quel momento che le note tuonarono in una tarantella fortissima e ancor oggi sono certo di aver sentito bene il cognome dell’amico, anche se ciò può sembrare frutto della mia fantasia. Rimasi interdetto e non mi sembrò che scherzasse affatto: avevo sentito bene nome e cognome, aveva detto: “Io mi chiamo Rocco, Rocco SCOTELLARO!”

Solo allora pensai che io e lui non c’eravamo ancora presentati. Poi la musica dei Tarantolati esplose letteralmente. Via via che quel ritmo infernale si diffondeva la gente attorno aveva dato inizio a balli scatenati. La folla esagitata ci divise. Così da un lato rimasi io con le due ragazze, mentre dall’altra parte Rocco lottava disperatamente per tornare da noi ma nonostante gli sforzi per divincolarsi, veniva portato via dalla marea umana. L’ultima cosa che vidi fu la sua mano alzata. Venne inghiottito dalla calca, scomparendo in quella bolgia com’era comparso dalla selva davanti alla mia auto.

Nel fantastico mondo di Rocco

Il Carnevale di Tricarico di quell’anno è rimasto negli annali. Fu un successo quanto a spettacolo e a pubblico. Tra l’altro, le testate locali riportarono una curiosità: pare che a un certo punto della festa qualcuno avesse intravisto tra la folla Rocco Scotellaro o un suo sosia. Ma la notizia, sebbene si facesse forte della leggenda contadina che non lo voleva morto, fu comprensibilmente presa come un’ottima trovata promozionale. Quella sera stessa, Amalia che era rimasta affascinata da Rocco, insisté per cercarlo. La assecondammo ma senza alcun risultato. Dovette rassegnarsi. Non lo rivedemmo più. Per la notte fui ospite del gruppo musicale delle due ragazze e il giorno appresso, con Vittoria e Amalia, ci recammo al cimitero dove, sulla sconfinata e dolcemente malinconica Valle del Basento si affaccia la tomba di Rocco Scotellaro. Rimanemmo senza parole vedendo il ritratto sulla lapide: era identico al nostro amico. Non so cosa dire e mi sarò chiesto centinaia di volte di quella sera analizzando tutto quanto accadde nel tempo passato insieme. Mi chiedo spesso se quel giovane identico a Rocco Scotellaro fosse una benevola presenza emersa da un’altra dimensione o semplicemente un colto e singolarissimo bontempone che per l’occasione carnascialesca aveva pensato a quel travestimento.  Comunque, quella vicenda ha segnato positivamente la mia vita. Con Vittoria, la ragazza di Otranto dai begli occhioni azzurri, dapprima rimanemmo in contatto, poi ci fidanzammo e infine ci sposammo. Quando si dice il destino! E tutto ciò grazie a quel misterioso amico che ci fece incontrare e fece praticamente accendere il nostro amore. Amalia invece non è sposata e ha battezzato i nostri gemelli: Rocco e Tommaso, due maschietti vispi e intelligenti, che frequentano l’ultimo anno delle elementari. Insegno Sociologia rurale a Portici e ho pubblicato tanti saggi, uno di questi è dedicato a Contadini del Sud, il prezioso lavoro sulla vita dei contadini che Scotellaro stava realizzando a Portici quando collaborava con Rossi Doria. Mi sembrava, però, di dovergli ancora qualcosa, che sentivo di mettere sulla pagina. Così, partendo dal singolare episodio accadutomi a Tricarico nell’anno della mia laurea, ho deciso di dare corso alle mie tentazioni letterarie. Ho messo giù un romanzo che definirei di realismo visionario, il titolo è: Nel fantastico mondo di Rocco.  E’ ambientato in una Tricarico tra passato e presente ed è teso a interpretare e reinventare il mondo di Rocco tra quell’immobile società descritta da Levi – divenuto nel frattempo un paletto certo delle mie letture – e la Modernità liquida tracciata nei complessi ragionamenti di Zygmunt Bauman. In fondo Rocco, come ha scritto Raffaele Nigro, da uomo nuovo sedotto dalla bellezza seppe leggere il dissidio tra antico e moderno, e, aggiungo io, visse appieno questa ambivalenza sulla propria pelle di intellettuale giovane e inquieto. Ma il fulcro del libro è quel Rocco brillante idealista, inarrivabile affabulatore, memorabile e irresistibile personaggio.

La prima tappa di presentazione del romanzo è prevista per il prossimo febbraio, nelle eleganti sale del Palazzo Ducale di Tricarico. Sarà proprio nel periodo di Carnevale… e chissà che nel pubblico non mi capiti di intravedere il giovane viso di quel mio vecchio amico.

Filippo Radogna