I FOLLETTI

È risaputo che i Folletti facciano parte di ciò che si definisce come il “Piccolo popolo”, di cui fanno parte anche i Nani, i Goblin, le Fate, gli Elfi etc. solo per citarne alcuni.

Secondo quando si legge su Wikipedia il piccolo popolo o Sidhe è: “Sidhe (approssimativamente scii), in italiano scide, è la parola gaelica che indica il popolo fatato, chiamato anche piccolo popolo, composto da folletti, fate, elfi, gnomi, ecc. La traduzione letterale è popolo delle Colline. Il Sidh è invece l’oltretomba celtico, un mondo felice, parallelo a quello umano, che può essere interpretato sia come l’habitat invisibile in cui dimora appunto il «buon Popolo», o «piccolo Popolo» che dir si voglia, o più semplicemente come l’immagine evocativa del mondo spirituale. Daoine Sidhe (si pronuncia “diine scii”) è il nome assunto dai Túatha Dé Danann (discendenti della Dea Danu) quando i Milesi (invasori dell’Irlanda) li respinsero sottoterra. Loro re era Finvarra, che da quel giorno regna nel suo palazzo sotto la collina fatata di Knockma. La loro abilità nel gioco degli scacchi è leggendaria e nessun essere umano è mai riuscito a batterli, lo stesso Re Finvarra ha tale titolo poiché è il più bravo giocatore di scacchi fra di loro. Finvarra è conosciuto anche come donnaiolo e spesso si reca sul piano terreno per rapire donne mortali. Quando i Túatha Dé Danann, antichi sovrani dell’Irlanda arcaica, si allontanarono dall’isola, non si sa bene dove si diressero: c’è chi afferma che la loro migrazione li portò dalle coste fino all’entroterra, in un posto chiamato Færie, con una conseguente integrazione culturale, e chi sostiene invece che tornarono nell’isola da cui arrivarono. Ma le leggende li mistificano come un popolo fatato e semidivino dell’Annwyn (l’aldilà celtico) i cui membri, immortali e potenti maghi, partecipavano a eterni banchetti in luoghi fuori dallo spazio e dal tempo, collocati spesso all’interno degli antichi tumuli o in prossimità di dolmen o dei laghi, oppure danzavano sotto la luna, oppure ancora rapivano bambini. La magia di questi luoghi sacri ne rievocano infatti lo spirito. Si narra che gli elfi siano tutto ciò che resta dei Tuatha Dé Danaan, guardiani dei laghi irlandesi e scozzesi”.

Ma in realtà chi sono i Tuatha Dé Danaan?

“Nelle tradizioni irlandesi, i Túatha Dé Danann (irlandese medio Túatha Dé Danand o Donand) furono il quinto dei sei popoli preistorici che invasero e colonizzarono l’Irlanda prima dei Gaeli. Si ritiene che essi vadano identificati – in tutto o in parte – con gli dèi adorati dagli stessi Gaeli, opportunamente evemerizzati e collocati in un contesto storico a opera dei cronisti medievali, i quali appartenevano perlopiù all’ambiente monastico. Le molte leggende che riguardano i Túatha Dé Danann, tramandate dai manoscritti irlandesi, permettono di intravedervi alla base i residui di antiche teogonie e teomachie. Le leggende riguardanti i Túatha Dé Danann, inscrivibili nel “ciclo mitologico” o “ciclo delle invasioni”, sono riportate da un certo numero di narrazioni in medio irlandese, a loro volta contenute nelle grandi raccolte manoscritte medievali irlandesi. Il testo più antico che citi i Túatha Dé Danann è lo Scéal Tuáin meic Cairill (“Storia di Tuán figlio di Cairell” – IX secolo) in cui essi appaiono già inseriti nel contesto delle invasioni irlandesi, segno che, all’epoca della stesura del testo, la tradizione storiografica aveva già raggiunto il suo punto d’arrivo. Segue l’importantissimo Cath Maige Tuired (“La battaglia di Mag Tuired” – XI secolo), una narrazione completamente incentrata sui Túatha Dé Danann, che narra il loro arrivo in Irlanda, le storie dei loro membri principali e la grande battaglia che li oppose ai Fomor. L’imponente Lebor Gabála Érenn (“Libro delle invasioni d’Irlanda” – XII secolo), che tratta estesamente di tutti i popoli invasori d’Irlanda, riporta in dettaglio tutte le tradizioni genealogiche sui Túatha Dé Danann. In questo testo, i loro re vengono inseriti in un’ideale successione dei Sovrani Supremi d’Irlanda, dando lo spunto all’imponente tradizione annalistica della letteratura irlandese. Tra i testi successivi, parecchi riportano vicende particolari che hanno per protagonisti i Túatha Dé Danann o alcuni dei loro esponenti principali. Nel Tochmarc Étaíne (“Il corteggiamento di Étaín” – XIV secolo) si narra la storia d’amore tra Mídir ed Étaín, destinata a concludersi secoli dopo; l’Aislinge Óenguso (“Il sogno di Óengus” – inizi XVI secolo) è un romantico racconto avente a protagonista il giovane Óengus Óg; l’Oiche chloinne Tuireann (“Il destino dei figli di Tuirenn” – XVII secolo) riprende fatti e avvenimenti della battaglia contro i Fomor; e così via. La data di redazione fornita per questi testi è quella dei manoscritti: è evidente che la data di composizione può essere molto più antica.

Altre tradizioni sono poi riportate dai Dindenchas (“Storie toponomastiche”), in cui eventi che hanno quali protagonisti i Túatha Dé Danann sono alla base dei nomi di alcuni luoghi d’Irlanda. La letteratura di divulgazione in genere interpreta l’etnonimo Túatha Dé Danann come “Tribù della dea Danu” (o “Dana”). Tale lettura, per quanto popolare, è però soltanto ipotetica. L’unico termine fondato dell’etnonimo è túatha che è il plurale del termine irlandese túath (relato al celtico continentale teutā > toutā), ad indicare una popolazione dalla comune ascendenza. È quindi giustificato l’uso della parola “tribù”, da usarsi però al plurale: “le tribù”.

Più problematico è invece il termine successivo, dé. Lo si ritiene comunemente il genitivo della parola “dea”, ma in realtà è il genitivo del sostantivo maschile “dia” (“dio”; la parola “dea” in irlandese è “bandia”); in tal caso una traduzione corretta dell’etnonimo dovrebbe essere “Tribù del dio di Danann”. (E non bisogna trascurare la possibilità che non si tratti di “dé”, ma di “de”, come a volte si trova nei manoscritti; in irlandese “de” è invece la preposizione “di”, proprio come nelle lingue neolatine: in tal caso la corretta interpretazione dell’etnonimo sarebbe semplicemente le “Tribù di Danann”.)

L’ultimo termine è il più controverso. Danann (nei testi antichi scritto Danand o Donand) viene assunto come il genitivo di un nome proprio, il cui nominativo si ritiene sia *Danu. Questo nome venne ricostruito dagli studiosi di fine Ottocento, in analogia con altri termini che presentano una medesima declinazione (come Ériu “Irlanda” che al genitivo dà Érenn), e interpretato come un teonimo. Sorse così l’idea, in linea con la concezione che allora si aveva della mitologia, di una dea chiamata *Danu, madre e antenata della stirpe divina irlandese. Il problema è che questo nome non è attestato in alcuna fonte antico-irlandese. Per risolvere questo problema, venne proposta un’identificazione tra *Danu e Anu, la mater deorum hibernensium citata da Cormac mac Cuilleannáin nel suo Sanas (“Glossario”), alla quale la tradizione associa due colline gemelle nella Contea di Kerry (Munster) chiamate Dá chích nÁnann (in ortografia moderna Dá chíoche hAnann), i “due seni di Anu”. La relazione tra le forme Anu e Anann (rispettivamente nominativo e genitivo) fornì un’ulteriore sostegno per la ricostruzione di *Danu a partire da Danann. Si ha però ragione di credere che *Danu e Anu non siano tra loro identificabili, nonostante un passo del Foras feasa ar Éireann di Seathrún Céitinn (XVII sec.) riporti Dá chíoche Danann (da intendersi probabilmente come una forma ipercorretta operata dallo stesso Céitinn). Le evidenze filologiche chiariscono l’impossibilità di un passaggio tra le due forme. D’altronde, il Lebor Gabála Érenn identifica esplicitamente Anu con la dea Mórrígan.

Riguardo all’identità di Danann, il Lebor Gabála Érenn è abbastanza chiaro: essa fu la madre di Brian, Iuchar e Iucharba, i tre figli di Tuirell figlio di Delbáeth. Questi tre sarebbero stati talmente abili nelle arti druidiche che il popolo ignorante li scambiò per dèi: essi divennero talmente popolari che il loro popolo di appartenenza venne chiamato in loro onore Túatha Dé Danann, in questo caso inteso “le tribù degli dèi di Danann”. È però evidente che anche questa è un’etimologia popolare, anche se in questo caso è quella esplicitamente attestata dai testi antichi. Un’altra possibilità è che Danann sia connesso col termine irlandese dán “arte, facoltà, capacità”, che però viene declinato al genitivo come dána (da cui l’espressione áes dána “gente dell’arte”, riferita all’insieme degli artigiani, degli artisti, dei musici e dei giuristi di una tribù). Il Lebor Gabála Érenn fornisce un’elaborata genealogia dei Túatha Dé Danann, che parte da Iarbonel, figlio di Nemed, e arriva fino a Mac Cecht, Mac Cuill e Mac Gréine, gli ultimi sovrani di questo popolo prima dell’invasione dei Milesi. Essa tuttavia appare essere una costruzione dell’epoca cristiana, in quanto si ricollega a Magog, figlio di Iafet, figlio di Noè. La genealogia originale dei miti precristiani, così come la connessione con l’ipotetica antenata Danu, non ci è pervenuta ed è molto difficile da ricostruire.

I Túatha Dé Danann discendevano dai figli di Nemed, un precedente popolo invasori d’Irlanda, il quale aveva dovuto abbandonare l’isola dopo essere stato decimato dai Fomor. Recatisi in lontane isole boreali, essi si erano istruiti nella sapienza e nelle discipline druidiche e, dopo molto tempo, i loro discendenti avevano progettato il ritorno in Irlanda, ritenendo che l’isola spettasse loro per diritto ereditario. Intanto, stabilitisi in Scandinavia, avevano stretto un’alleanza con gli stessi Fomor: tra loro vi erano state unioni matrimoniali ed era nata una discendenza mista. Sbarcati in Irlanda, diedero fuoco alle loro navi in modo che non avessero più la tentazione di tornare indietro. Poiché dalle navi che bruciavano si levavano alte colonne di fumo, dice il cronista, in seguito si disse che i Túatha Dé Danann fossero venuti dal cielo su quelle nubi di fumo. L’Irlanda a quel tempo era popolata dai Fir Bolg, un popolo anch’esso di discendenza nemediana. Essi si scontrarono con i Túatha Dé Danann in quella che fu la prima battaglia di Mag Tuired (Contea di Mayo). I Túatha Dé Danann vinsero e i Fir Bolg furono costretti a cedere loro la sovranità sull’Irlanda. Tuttavia, il re danann Núada, aveva perduto il braccio destro nel corso dello scontro e, in base alle leggi, la mutilazione lo rendeva inadatto per regnare. Venne così sostituito da Bres, il quale era fomoriano per parte di padre. Bress regnò per sette anni e il suo regno si rivelò disastroso, così fu costretto ad abdicare. Fuggito dall’Irlanda, egli riparò presso i Fomor, chiedendo l’aiuto dei parenti di suo padre per riconquistare il trono. In Irlanda fu restituita la sovranità a Núada, al quale venne costruita una protesi d’argento che sostituiva l’uso del braccio troncato. Fu così che i Túatha Dé Danann dovettero scontrarsi con i Fomor nella seconda battaglia di Mag Tuired (questa volta nella Contea di Sligo). A guidare le file dei Túatha Dé Danann era Lúg Sámildanach il quale, nonostante fosse fomoriano per parte di madre, venne eletto in quel ruolo in quanto esperto in ogni possibile arte. Egli guidò alla vittoria le schiere dei Tuatha Dé Danann e sconfisse uno dei capi dei Fomor, Balor, suo nonno, il quale poteva uccidere interi eserciti soltanto poggiandoci sopra lo sguardo. I Túatha Dé Danann imposero così il loro regno sull’Irlanda e i loro sovrani furono ricordati nella successione dei Re Supremi. Mantennero il regno per molto tempo, finché non giunsero dall’Iberia i Figli di Míl, gli antenati dei celti Gaeli. Costoro riuscirono a sbarcare in Irlanda nonostante gli incantesimi messi in atto dai Túatha Dé Danann nel tentativo di tenerli lontani e sconfissero questi ultimi nella battaglia di Óenach Taillten. Sconfitti, i Túatha Dé Danann accettarono di lasciare il dominio dell’Irlanda ai nuovi venuti e si ritirarono a vivere nel sottosuolo dell’isola e dentro le colline fatate, dove da allora condussero un’esistenza felice e immortale, trasformandosi nel folklore in creature soprannaturali. La tradizione attribuisce ai Túatha Dé Danann quattro meravigliosi tesori, che essi portarono con sé in Irlanda dalle quattro città site nelle isole boreali dove avevano ricevuto l’istruzione nelle discipline druidiche e nella conoscenza. Queste furono: dalla città di Findias venne portata la spada di Núada, mai un combattimento venne perduto da chi la impugnava; dalla città di Gorias venne portata la lancia che poi fu data a Lúg, non falliva mai il bersaglio; dalla città di Murias venne portato il calderone del Dagda, capace di sfamare un numero illimitato di persone senza svuotarsi mai; dalla città di Fálias venne portata la Lia Fáil, la Pietra del Destino, che emetteva un grido se veniva calpestata da un legittimo Re Supremo d’Irlanda.

Nelle fonti medievali, i Túatha Dé Danann sono il popolo che abitava l’Irlanda prima dei Gaeli. Questo ha spesso portato alcuni studiosi a identificarli con l’una o l’altra popolazione pre-celtica, ad esempio con i costruttori dei megaliti di cui è ricco il paesaggio irlandese. Tale identificazione è però priva di un vero fondamento, in quanto i Túatha Dé Danann sono attestati unicamente nella letteratura medievale e nulla li collega con le testimonianze preistoriche presenti sul suolo d’Irlanda. Non vi sono motivi per ritenere che le narrazioni medievali abbiano una base storica: al contrario, tutto fa ritenere che i Túatha Dé Danann siano personaggi prettamente mitici. Il fatto che siano spesso tratteggiati come esseri sovrumani, dai poteri soprannaturali, fa pensare che si possa essere trattato, in origine, di vere e proprie divinità, poi storicizzate ed evemerizzate dai cronisti medievali, che erano di fede cristiana. Lo dimostra innanzitutto l’etimologia di molti nomi danann, comparabili con quelli delle divinità celto-romane attestate sul continente: ad esempio, il campione Ogma compare in Gallia come Ogmios, Mídir come Medros e Goibniu come Gobannus. Núada è presente in Britannia nel nome del dio Nodons, e Mórrígan è con ogni probabilità la Morgana dei racconti arturiani. Brígit corrisponde sia alla Brigindona gallica che alla Brigantia britannica. Le dee della guerra, Badb Chatha e Némain, sono presenti nel continente come Cathobodua e – probabilmente – Nemetona. Su un altro piano, sembra evidente – pur senza affinità etimologiche – che Lúg sia il Mercurio gallico descritto da Cesare e il Dagda il Dio col Mazzuolo presente nelle testimonianze iconografiche gallo-romane. La mitologia comparata, seguita soprattutto agli studi di Georges Dumézil ha mostrato molte affinità tra le narrazioni pseudostoriche dei testi irlandesi e vari personaggi ed episodi delle mitologie indoeuropee. Ad esempio, Núada che è privo di un braccio e Lúg che combatte chiudendo un occhio ricordano la coppia funzionale monco/orbo diffusa in molti contesti dell’area indoeuropea, come ad esempio la coppia formata da Muzio Scevola e Orazio Coclite nella mitologia romana, o quella costituita da Óðinn e Týr nel mito norreno. Il mito di Bress, che assume la regalità senza esserne degno, ricorda Freyr che siede illegittimamente sul trono di Óðinn. Le due battaglie di Mag Tuired sono leggibili in funzione di una titanomachia o, con maggior attinenza, con il conflitto tra Æsir e Vanir. Secondo il principio della tripartizione funzionale di Dumézil, la conclusione della guerra tra le due stirpi divine nel mito norreno riunisce la prima funzione (magico-sacerdotale) e la seconda (guerriera), rappresentate dagli Æsir, con la terza funzione (economica-fecondante), rappresentata dai Vanir. Analogamente, la seconda battaglia di Mag Tuired si chiude con un patto di pace in cui Bress (divinità della terza funzione) insegna ai Túatha Dé Danann (divinità funzionalmente caratterizzate nella magia e nelle arti guerriere) come arare, seminare e mietere. I Túatha Dé Danann furono dunque, con ogni probabilità, le antiche divinità celtiche dei Gaeli. La cristianizzazione, in Irlanda, non cancellò gli antichi miti, ma li inserì in un contesto pseudostorico, adattandoli in qualche modo al sistema universale biblico-classico. Senza alcun dubbio il processo di evemerizzazione deformò irrimediabilmente le narrazioni tradizionali ma, paradossalmente, permise loro di sopravvivere e di essere tramandati fino a noi”.

Come abbiamo visto questo popolo misterioso che in alcune leggende pare siano addirittura i custodi del Sacro Calice il Graal e di altri prodigiosi oggetti come l’anello magico o Andvanautr, la lancia del destino, poi spade magiche e tanti altri, siano i figli della dea Danu.

“La dea Danu (gaelico moderno: Dana) è un’ipotetica divinità primordiale irlandese che avrebbe dato nome ai Túatha Dé Danann. In analogia con la dea indiana Danu e ad altre figure simili, si suppone che sia la dea madre delle acque. La radice “danu” si ritrova nel nome di molti fiumi, lungo le cui rive, si erano stanziate popolazioni celtiche, come il Danubio, il Don, il Dniepr e il Dniestr. L’antico irlandese *danu è stato ricostruito alla fine dell’Ottocento dal termine Danann (nei testi antichi Danand o Donand), considerato come caso genitivo (confronta Ériu, “Irlanda” e il genitivo Érenn, “dell’Irlanda”). Tuttavia, non esistono fonti che attestino questa teoria. Andreas Köbler e Julius Pokorny fanno risalire la parola *danu ad una radice proto-celtico che significa “acqua di fiume”. La forma danann suggerisce un antico *Danona, composto dalla radice *dan- e dal suffisso accrescitivo -on, che si ritrova in altri teonimi come Dea Matrona (“Grande Madre”), Maponos (“Grande Figlio”) e Catona (dea della guerra). Secondo un’ipotesi, la dea *Danu sarebbe da identificare con la dea Anu, mater deorum hibernensium (“madre degli dèi irlandesi”) secondo il Glossario di Cormac. La tradizione associa a quest’ultima figura due colline gemelle nella Contea di Kerry nel Munster: le Dá chích nÁna (irlandese moderno: Dá chíoche hAnann), ossia i “Due seni di Anu”. Il genitivo di Anu è Anann e questo rafforza l’ipotesi della forma ricostruita *Danu da Danann. Nel Foras Feasa ar Éirenn di Seathrún Céitinn (XVII sec.), in un passo, si legge Dá chíoche Danann, ma sembra una forma corrotta. Questo porta a sostenere la non identificazione tra le due dee. Inoltre nel Lebor Gabála Érenn Anu nella forma Anand viene identificata con la Mórrígan.

Una delle prime maghe dee che dettero vita alla magia è proprio senza dubbio Mòrrigan o Morgana.

“La Mórrígan (spesso reso senza accenti, Morrigan) è una delle più importanti divinità irlandesi, una delle “furie guerriere” dei miti irlandesi, fortemente associata alla guerra, alla morte e al fato. Nelle fonti, il nome della Mórrígan è sempre preceduto dall’articolo determinativo (an Mórrígan o an Mórrígu). Per quanto riguarda la sua etimologia, risale a un più antico nome irlandese, Mór Ríoghain, che si traduce letteralmente come “grande regina” (da mór, “grande”, e rígan, “regina”); tale significato è lo stesso del nome dell’antica dea indoeuropea Rigantona, a cui il nome della Mórrígan viene talvolta ricondotto. Alternativamente, il primo elemento di Mór Ríoghain può anche essere identificato con il germanico mahr (“incubo”, la stessa radice di “nightmare”), con il significato di “regina dei fantasmi”.

Tradizionalmente, il suo nome veniva anche ricollegato al vocabolo celtico mor (“mare”), una connessione generalmente rifiutata dai linguisti moderni; a questo elemento risale probabilmente il nome della fata Morgana, la quale viene, a volte, ricollegata alla stessa Mórrígan. La Mórrígan fa parte dei Túatha Dé Danann, ed è figlia di Fiacha mac Delbaíth e di Ernmas e sorella di Badb e Macha. Viene descritta come una mutaforma, che ama assumere in particolar modo la forma di corvo o cornacchia (in particolare la cornacchia grigia), sorvolando i campi di battaglia e divorando i cadaveri o apparendo come una vecchia megera che chiama i guerrieri alla morte. Si presenta inoltre anche come un’anguilla, una mucca bianca dalle orecchie rosse, un lupo grigio-rosso o una donna o gigantessa che lava i panni insanguinati vicino ai campi di battaglia, oltre ad essere in grado di invecchiare o ringiovanire a piacimento. La sua caratteristica di mutaforma la avvicina alla figura del druido come bardo-stregone, un ruolo che ella stessa assume in alcune storie, intonando canzoni per portare vittoria, praticando la divinazione e prevedendo il futuro. È legata anche alla fertilità e alla sessualità, e alcune storie le attribuiscono un appetito sessuale insaziabile; ella sedurrebbe i soldati prima della battaglia, e condurrebbe i suoi amanti alla vittoria. La Mórrígan viene frequentemente associata ad altre dee guerriere irlandesi, Macha, Badb e Nemain; questa connessione assume spesso una forma triadica, in cui tre di queste quattro dee formano una triade chiamata “Morrígna” (che è il plurale di Mórrígan). Tuttavia, sebbene nella mitologia celtica fosse comune avere triadi di personaggi, specialmente tra quelli femminili, la Morrigan e le altre tre dee presentano una situazione particolare: la Mórrígan è sorella di Macha e Badb, in quanto tutte figlie di Fiacha mac Delbaíth, ma questa triade viene spezzata dal fatto che Macha muore per mano di Balor nella seconda battaglia di Mag Tuire. Alcune fonti sopperiscono a questa mancanza sostituendo Macha con Nemain. È possibile che, originariamente, vi fosse effettivamente una triade divina, con cui è stata in seguito fatta confusione; è altresì possibile che la Mórrígan e la Morrígna siano la stessa cosa e che le quattro dee, che non appaiono mai contemporaneamente in alcuna scena, fossero in origine una sola figura, con Badb (“corvo della battaglia”), Macha (sempre “corvo”) e Nemain (“panico” o “furia”) quali attributi della Mórrígan. Va inoltre notato che, nel Lebor Gabála Érenn, la Mórrígan è identificata anche con Anu, una dea madre citata anche nel Sanas Cormaic. La Mórrígan appare nel Cath Maige Tuired, dove interviene in entrambe le battaglie di Mag Tuireadh: nella prima aiuta a sconfiggere i Fir Bolg; nella seconda, dopo che il Dagda si è unito a lei lungo il fiume Uinnius, gli garantisce la vittoria contro i Fomori. Alla fine, Badb (che però, per com’è formulato il testo, potrebbe anche essere un altro nome per indicare la Mórrígan), formula due profezie, una che preannuncia un periodo di pace, abbondanza e felicità e l’altra, antitetica alla prima, in cui prevede un futuro cupo, violento e sterile.

È presente anche nel Ciclo dell’Ulster, dove invece viene respinta dall’eroe Cú Chulainn: adirata, la Mórrígan si accanisce contro di lui, portandolo infine alla morte e, al momento del suo trapasso, si posa sulla sua spalla in forma di corvo, reclamando la sua vita. Secondo una leggenda, inoltre, la Mórrígan sarebbe apparsa nell’anno 637 durante la battaglia di Moyrath, volando sopra gli schieramenti dei druidi per guidarli e incoraggiarli; questi ultimi, comunque, vennero sconfitti”.

Abbiamo parlato all’inizio dei folletti come membri del piccolo popolo ma chi sono, in realtà, questi folletti?

“La figura del folletto sembra aver avuto origine dai Lari, geni familiari della casa. Nel folclore europeo condivide caratteristiche simili con il lutin, il coboldo, il brownie, il puck, il goblin e il leprechaun. Di carattere allegro e scherzoso, abita in tane nei boschi soprattutto di conifere o presso le case degli uomini, nei cortili e nei granai. Esce quasi sempre solo di notte per divertirsi a fare dispetti alle bestie delle stalle e a scompigliare i capelli delle belle donne, a disordinare gli utensili agricoli e gli oggetti delle case. Esistono differenze tra i folletti presentati in alcuni romanzi, spesso stereotipati, e quelli delle credenze popolari. La maggior parte delle testimonianze a loro riguardo provengono dalla Bretagna. Nonostante possano essere facilmente confusi con i nani, i folletti si distinguono per qualche particolarità. La loro malizia, il loro scherzare e il loro riso sonoro sono ben conosciuti, tanto quanto la loro suscettibilità. Essi trascorrono gran parte del loro tempo divertendosi e correndo dietro i folletti femmina. Collin de Plancy cita a questo proposito un proverbio popolare della sua epoca:

là dove ci sono i folletti femmina e il buon vino,

è là che c’è l’ossessione del folletto.

Ma all’occasione i folletti si mostrano lavoratori e guerrieri. Alcuni scritti menzionano la loro forza straordinaria, come la favola tedesca del XIII secolo citata da Pietro Dubois, nella quale uno schretel combatte un orso. Altri scritti li descrivono come dei paladini nell’avventura, e ne fanno degli spadaccini formidabili, malgrado la loro ridotta statura. È difficile stabilire i caratteri del folletto in ragione del grande numero di ruoli che può ricoprire: legato tanto alla foresta, all’acqua, all’aria, alle dune o ai prati, protettori del focolare, dei bambini e degli animali, poi demoni notturni, ladri banditi, luridi insaziabili, è sopravvissuto attraverso racconti e scritti di folclore popolare, trasmessi per tradizione orale durante i secoli. Il folletto è generalmente notturno, il mondo gli appartiene dopo le undici di sera fino a due ore dopo la mezzanotte, e si difende ferocemente contro gli ubriachi che lo insultano. Infine negli scritti il folletto muore generalmente per un incidente o a causa di veleno, e non è in ogni caso immortale.

Claude Lecouteux ha affiancato un’associazione tra le credenze mortuarie, il piccolo popolo, l’acqua e i cavalli. Rappresenta anche la distinzione comoda anche se non rilevante fatta da più ricercatori tra i folletti terrestri e i folletti dell’acqua. Aspetto tipico di un folletto: dimensioni ridotte, poulaine e cappello rosso appuntito.

In origine, i folletti non avevano una dimensione caratteristica. La loro prima descrizione è quella dell’inglese Gervasio di Tilbury, verso il 1210, il quale afferma che i “nuitons” hanno l’aspetto di vecchietti con la faccia ridente, sono vestiti di stracci cuciti insieme e sono alti mezzo pollice, vale a dire meno di 2 cm. I folletti, proprio come i nani, sono quasi sempre visti come “vecchi e piccoli”, ma non sempre quanto quelli di Tilbury.

Se le storie medievali non precisavano che avessero la barba, le testimonianze del XIX secolo e in particolare i Valloni insistono su questo aspetto. Pierre Dubois dice che “niente è più complicato che descrivere un folletto”, ma evoca una taglia “da un mezzo pollice a 30 cm”, la presenza di capelli folti e di una barba “che cresce da 300 anni”, vestiti di stracci verdi e bruni, di poulaines e con un cappello appuntito rosso o verde sulla testa. Gli abiti del folletto hanno un’importanza particolare, un buon numero di storie riporta che sono vestiti di stracci e che offrir loro dei vestiti nuovi provochi la loro scomparsa. Claude Lecounteux ne cita una a Ibourg nel XIX secolo. Alcuni folletti si occupano del cavallo grigio di un paesano, un valletto li sorprende e rivela la loro presenza al proprietario dell’animale. Questo per ringraziarli offre loro degli abiti ma i folletti non riapparirono mai più.

Racconti simili riguardano i Brownies d’Irlanda e di Scozia. Il Brownie delle Highlands scozzesi batteva il grano per dei fattori fino al giorno in cui, credendo così di ringraziarlo, questi ultimi gli offrirono un cappello e un abito. Se ne andò con quei doni, aggiungendo che essi sono stati stupidi ad avergli regalato quelle cose prima che avesse portato a termine il suo lavoro. Questa particolarità è probabilmente dovuta a un’antichissima tradizione orale, dato che gli stessi temi si ritrovano presso il ciclo arturiano. Esiste anche una storia in cui Puck rivela che gli abiti che gli sono stati offerti rappresentano il salario che pone fine al suo periodo di penitenza.

I folletti sono molto incostanti, da cui il nome folletto («folle», «pazzerello»): possono rendere molteplici servizi un giorno e commettere le peggiori stupidaggini l’indomani. La loro asocialità è conosciuta nel Medioevo poiché Maria di Francia narra di un folletto catturato da un contadino e pronto a donargli tutto ciò che voleva se non lo avesse mostrato alla gente. La maggior parte sono furiosi quando gli uomini li osservano, la peggiore delle situazioni è quella in cui qualcuno rivolge loro la parola, e desidera da loro una risposta. Paul Sébillot e Henri Dontenville li considerano poco loquaci, Sébillot invece aggiunge anche che il folletto delle dune bretoni andrà a sfidare in un duello chiunque lo chiami. I folletti ardennesi prendono poco la parola, e sempre per lasciare dei messaggi sgradevoli, a punto tale che il folletto è diventato un sinonimo di misantropo e taciturno. In Piccardia due folletti buttano nell’acqua le persone che intendono fischiare.

Tutte le rappresentazioni sui folletti attribuiscono loro delle capacità magiche, come quella di predire il futuro. I loro sortilegi sono particolarmente pericolosi nelle Ardenne. Un racconto molto conosciuto, raccolto da Jérôme Pimpurniaux, parla di un paesano vallone che tagliando il grano per ritirarlo prima della tempesta, vedeva il “nuton” del suo focolare domestico che lo aiutava trasportando una spiga alla volta. Infastidito poiché lo giudicò un aiuto inutile, lo prese in giro. Il “nuton” uscì allora dal suo silenzio e gli lanciò questa maledizione: «Spiga dopo spiga ti ho arricchito, spiga dopo spiga ti rovinerò!». La variante «Spiga dopo spiga ti ho arricchito, fascio dopo fascio ti rovinerò!» è citata da Albert Doppagne e soprattutto da Pietro Dubois, che ne fa il simbolo del legame tra il piccolo popolo e la natura, e dell’importanza di rispettarlo, aggiungendo che niente è mai acquisito o definitivo con loro. Nella parte successiva della rappresentazione in effetti, il paesano vallone perde tutti i suoi possedimenti e finisce in rovina.

Una storia molto simile mette in scena un donanadl, folletto tirolese che, seduto tra le corna della più bella vacca della Grünalm (“la tutta verde”, vallata delle Alpi tirolesi), vede il proprietario della mandria tentare di sottometterla. Egli lo maledice dicendo “la Grünalm sarà privata d’acqua ed erba, e poi ancora d’acqua!”. Poco dopo, le sorgenti si inaridirono e l’erba non ricrebbe più.

I folletti possono anche rendersi invisibili, molto spesso grazie a un oggetto come un cappello o un mantello. Essi utilizzano i loro poteri a beneficio delle persone virtuose, come in un racconto di Acheux, comune della Piccardia, raccolto da Henry Carnoy, nel quale un gobbo aiuta una banda di folletti a conoscere l’ultimo giorno della settimana, i quali, per ringraziarlo, gli tolgono la gobba. Un altro gobbo avendo appreso il fatto incontra un altro gruppo di folletti e mischia i giorni: essi lo puniscono mettendogli un’altra gobba. Un racconto fiammingo parla invece di folletti che si sono stabiliti in una cascina a Linden, che costruiscono una torre sopra una chiesa in un mese in cambio di un po’ di nutrimento.

Infine secondo le credenze, i folletti possono spostarsi molto più rapidamente degli uomini se si sentono in pericolo. La capacità a modificarsi e a cambiare di statura è una delle particolarità tra le più tipiche dei folletti negli scritti a loro soggetto. La capacità si trova anche presso i nani delle tradizioni popolari in stretta relazione con le credenze medioevali del doppio. Il loro ritratto psicologico (taciturni, non amanti dell’essere visti…) spiega che la maggior parte del tempo sembrano essere di piccola statura. Mentre, è probabile che in epoche più lontane, in caso di minaccia i folletti possano crescere istantaneamente e affiancare una correzione al loro aggressore. Gli autori dei testi medioevali avrebbero sdoppiato il folletto originale dal folclore in un piccolo e debole nano, sempre visto in anteprima, e il suo protettore. Ne è un esempio la canzone di Dieudonné de Hongrie. I folletti assumono anche le sembianze degli animali, e si mutano in oggetti. Le loro metamorfosi animali sono varie, includendo soprattutto il cavallo e la rana, poi il gatto ed il serpente. Delle tracce dei geni della casa adorate sotto forma di serpenti sono presentati da epoche molto remote in Europa, l’animale condividendo un tratto in comune con il folletto, che è l’amare il latte. Il folletto ha ugualmente la capacità di cambiare gli altri in animali in particolare in equini: nel XIX secolo, un “sotre di Lorena” avrebbe trasformato un contadino in un asino. Un certo numero di testi, tra i quali i Vangeli di Tife, legano il folletto pazzerello al folletto comune dicendo che quest’ultimo appare spesso sotto forma di una piccola luce. Come le fate, alcuni folletti si dice che rubino dei bambini umani dalle culle e li sostituiscono con uno di loro, scambiandoli. Quest’ultimo ha delle volte l’aspetto di un bambino folletto, altre volte l’aspetto di un folletto molto vecchio. Per proteggersi dai furti, vengono citati molti metodi, uno dei quali è quello di acconciare il bambino con un berretto rosso che tradizionalmente è riservato ai bambini nati morti. Il folletto, credendo il bambino già morto, si suppone non importuni il bambino. Un racconto lorenese racconta di una madre che sequestra il berretto rosso, ritrovato ai piedi della culla del suo bambino scomparso, e se ne serve per scambiarlo in cambio di soldi. Un racconto datato 1885, nel Morbihan, narra di una fata serva che guida una banda di folletti rubando i beni e i bambini degli abitanti. Una madre, dubitando che suo figlio sia stato scambiato, pone dodici uova intorno alla pietra del suo focolare e vede i cangianti ridere e poi dire “ho quasi cent’anni, ma non ho mai visto così tanti tuorli bianchi”.

Secondo la credenza, il “folletto del focolare” viveva in origine nella natura (degli abitanti sotterranei sotto le colline, nei boschi o dentro le radici dei grandi alberi) e scelse di stabilirsi in un’abitazione umana (generalmente una cascina) per mettersi al servizio dei suoi abitanti, causando a volte dei problemi, e giocando, di notte, nel camino. Sono chiamati “folletti domestici” o “folletti che fanno il lavoro di valletti”, secondo Jean de la Fontaine. Il nome “servo alpino”, risalente al XIX secolo, proviene da questa funzione. I folletti del focolare si occupano di una varietà di lavori in particolare per i cavalli da cui si prendono grande cura, ma anche per i bovini. I sotri Volschi curano il bestiame cambiando la loro lettiera e dando alle vacche un foraggio appetitoso; il folletto della lingua svizzera ruba agli altri fili di erba fresca per darli alla loro mucca preferita, e in bassa-Bretagna, Teuz-ar-pouliet, lo sbarazzino del mare, anche il bidone del latte. I folletti sorvegliano, proteggono e tengono la propria casa nella quale gli abitanti gli rivolgono un grande rispetto, cucinano, consolano i bambini tristi, in poche parole si occupano di tutte le faccende domestiche del focolare con un’estrema efficienza, molto più grande di quella degli uomini. Essi possono sottomettersi a più persone, non escono e non si mostrano che la notte, e non dormono mai, da cui il proverbio francese “egli non dorme non più di un folletto”. Essi frequentavano le caverne e i soffitti, il sotto dei letti e gli armadi, e rovistavano tutto a contatto con gli oggetti in ferro. I testi riportano che essi si nutrono di rane arrostite, ma benché essi reclamano unicamente del cibo in cambio dei loro servizi. La maggior parte del tempo, si tratta del latte (delle volte rappreso) o delle pappine a base di latte. L’amore smisurato del latte è il solo dettaglio alimentare che permette di riconoscere a colpo sicuro il folletto. Questa relazione con gli abitanti del focolare non è mai data per scontata. Molto suscettibile, il folletto è attento al minimo segnale di mancanza di rispetto e si rivolta in un momento contro le persone che prima serviva. Egli può anche difendersi ferocemente: un racconto di Plouaret riporta che un carrettiere ubriaco sfidò una sera il folletto della stalla, credendo che gli facesse una concorrenza sleale. L’uomo viene ritrovato il mattino impazzito, con la risata del piccolo essere che risuona nella sua testa e le membra tremanti.

Infine, il folletto è una delle cause potenziali degli incubi. Questi sono i motivi per cui le persone desiderano a volte scacciare i folletti dai loro focolari con molteplici metodi oltre al tradizionale uso di oggetti quali l’acqua santa e le preghiere cristiane. Uno dei metodi più classici consiste nel piazzare un recipiente pieno di cereali fini (nella regione di Alvernia si tratta di miglio, oppure piselli o le ceneri, secondo Paul Sébillot) sul cammino del folletto: se li rovescia egli è costretto a rimetterli a posto prima dell’alba e prima del canto del gallo e non tornerà più. Un altro metodo, conosciuto per sbarazzarsi di quelli che infastidiscono le ragazze a partire dal XV secolo, è di arrivare a disgustarli. Les Évangiles des quenouilles parlano di portare del pane con sé. Il folclore belga consiglia di accovacciarsi su sterco in posizione di defecazione e mangiare una tartina in questa posizione. Il folletto esclama disgustato qualcosa come: «Ah! Ti cakes èt magnes» («Ah! Tu defechi mentre mangi») e se ne va per sempre. La gran parte dei folletti sono conosciuti per le loro reazioni di orrore di fronte a ciò che evoca i bisogni naturali. È per questo che, nel Ducato di Limburgo, li si evita prima di stendere il letame. In Italia, un modo di far fuggire il folletto troppo intraprendente è mangiare del formaggio seduto sul water dicendo: «Merda al folletto: io mangio il mio pane e formaggio e gli caco in faccia». Una storia belga parla di una giovane fanciulla infastidita da un folletto e dei suoi genitori che posano dei gusci d’uovo intorno a lei riempiti di ramoscelli. Vedendoli il folletto dice: «Ho visto i boschi della Bastogna, i campi della Frèyir, ma non ho mai visto tanti vasi mischiati» e parte per sempre. Alcuni folletti del focolare possono vendicarsi dei tentativi fatti per scacciarli rovinando tutti gli arredamenti. In un racconto di Saint-Philbert-du-Pont-Charrault, una donna si sbarazza dei folletti che vengono presso il suo atrio riscaldando il treppiedi sul quale si posano. Più tardi la fata Mélusine rimpiazza uno dei figli della donna in sua assenza per vendicarli.

I paesani hanno cercato sempre di catturare dei folletti. Un metodo del Québec consiste nello spandere della farina fine per terra e seguire le tracce che hanno lasciato fino al luogo in cui si nascondono durante la giornata, come il folletto acquatico risalente al XIII secolo, che appare in Huon de Bordeaux, la Chanson de Gaufrey e la Geste de Garin di Monglane: è il Malabron, un ottimo rappresentante di questi esseri, come il Klabautermann dei paesi tedeschi. Senza dubbio perché essi sono i più primitivi e sono anche i più negativi nei racconti a loro soggetti, in particolare all’epoca medioevale. La loro apparenza è poco dettagliata e sono reputati per la loro antropofagia.

Se i nani della leggenda arturiana sono quasi senza rapporti con l’acqua, altri mostri più o meno legati ai folletti sono presenti. Il Chapalu, felino acquatico nemico del re Arturo, è descritto come il re dei folletti e Christine Ferlampin-Acher lega il gatto nero del lago di Losanna, menzionato nella Vulgate Merlin, come una bestia acquatica capace di cambiare di corporatura fino a diventare un diavolo gigantesco, a un avatar di folletto generato da leggende celtiche. I giri preferiti dei folletti, al di fuori del focolare, sono quasi tutti i giorni in rapporto con le sfide e l’acqua: se gli hozier delle Ardenne e il popolano Fersé dell’Alta Bretagna attirano gli uomini nell’acqua per prendersi gioco senza gravità, i Pie-Pie-Van-Van della Meuse, e altri, cercano a annegarli. Un tipo particolare sono quelli noti nell’Italia centrale come “Folletti malducati” (con l’elisione vocalica nella seconda sillaba), la cui origine folclorica è da rilevarsi nelle tradizioni nord-atlantiche (Islanda, Irlanda, Scozia). Il loro legame con l’acqua dipende dal fatto che all’origine del mondo si convinsero che il loro destino sarebbe stato quello di essere trasformati in grandi fiumi famosi. Le cose andarono diversamente, e da allora i “folletti malducati” nutrono un’avversione terribile contro tutto ciò che procura ad altri soddisfazione, serenità, gioia e divertimento. Sono degli instancabili guastafeste e ovviamente odiano i fiumi e il rispetto che gli umani hanno per essi. La cosa che più li fa soffrire, e perfino ammalare, è vedere gli umani fare offerte ai fiumi (si dice, infatti, che siano praticamente scomparsi dall’India). Invece, godono quando vedono gli umani inquinare le acque. Sono loro a suscitare le inondazioni inducendo gli umani a costruire dighe, argini e ponti nei luoghi sbagliati. I “folletti malducati” si distinguono fisicamente da tutti gli altri folletti per il colore della pelle, interamente grigia, e per i lobi inferiori delle orecchie, a punta rivolta verso il basso e sono privi di organi genitali (hanno l’inguine piatto e coeso; urinano dall’ano, come gli uccelli). Hanno un pessimo olfatto ma, grazie alle punte delle loro orecchie, che funzionano come antenne, sono dotati di un ottimo udito (lo sfruttano per carpire i segreti di cui gli umani parlano tra loro). Usano portare i capelli (sempre grigi) lunghi e unti con grasso di foca. Non gli crescono i baffi, ma di solito portano un pizzetto che si sviluppa in una lunga treccia, anch’essa grigia e unta col grasso, che cala quasi fino a terra. In generale, non emettono un buon odore. Spesso tendono a coprire gran parte del corpo con tatuaggi dai colori sgargianti, per nascondere il loro grigiore.

Paul Sébillot cita qualche folletto acquatico positivo, tale il piccolo buon uomo rosso di Dieppe, che protegge le lenze dei pescatori. Molti ricercatori hanno notato dei legami molto forti tra folletti e cavalli. Il cavallo, animale molto a contatto con gli uomini, è anche il più adatto alle trasformazioni dei folletti. Nella letteratura medievale Malambruno e Zefiro si trasformano frequentemente in cavalli. Il nano Frocin, che in una leggenda del XII secolo sussurra ai cavalli, verosimilmente discende dal folletto. Guillaume d’Auvergne afferma che al mattino il crine dei cavalli viene trovato intrecciato e coperto di piccole gocce di cera. François Le Poulchre aggiunge nel 1587 che un cavallo sporco, il giorno seguente può essere trovato pulito. Paul Sébillot ancora fornisce numerose testimonianze: in Normandia il folletto porta i cavalli ad abbeverarsi; in Beauce e in Franca Contea li striglia e li nutre, rubando del fieno. In Normandia il folletto ruba le spighe d’avena più belle per darle ai suoi cavalli preferiti. L’elficologo Pierre Dubois cita numerose testimonianze di folletti che visitano le scuderie durante la notte e lasciano tracce del loro passaggio nelle criniere, che essi utilizzano per fare delle staffe e galoppare tutta la notte. Paul Sébillot rivela che vicino alla Manica nel 1830 questa credenza è molto accreditata. I proprietari dei cavalli trovano le loro bestie coperte di sudore al mattino. Altre testimonianze simili si protraggono sino all’inizio del XX secolo. Col passare del tempo le testimonianze riportano che il cavallo da amico dei folletti diviene però loro vittima. Le due credenze a volte coesistono. La soluzione migliore è scacciare i folletti con i metodi comuni. Le tradizioni canadesi dicono di costruire un cavallo finto che il folletto poi cercherà di cavalcare oppure di far sciogliere le trecce nel crine da una donna incinta. In Alta-Bretagna sono frequenti esorcismi, ma la popolazione non crede alle testimonianze di Sébillot: «Se si brucia il crine con un cero benedetto, il folletto non torna mai più, ma le bestie sono soggette a deperimento, per via della sua scomparsa». Parallelamente «le sagome del folletto e del cavallo tendono ad unificarsi in un solo personaggio con il compito di far precipitare chi provi a cavalcarlo». Paul Sébillot riunisce così diverse testimonianze. Nelle isole anglo-sassoni Puck assume questa forma per spaventare la popolazione. King Olaf and the Little People di Julia Goddard, 1871, pubblicato nel giornale Wonderful Stories from Northern Lands, rielabora la saga separata di Sant’Olaf indicando però gli elfi originali come folletti. Paul Sébillot parla dei folletti come di una grande tribù e Anne Martineau ne conta 30000 specie soltanto in Francia. Nel 1292 se Pietro Dubois dice che la parole “folletto” designa comunemente l’insieme del piccolo popolo in Francia, insiste anche sul fatto che i folletti formano un’intera razza a parte, da non confondersi con i folletti di Vallonia e delle Ardenne francesi di cui l’habitat e le leggende sono differenti, né con i coboldi, né con i gobelins e gli gnomi distinti soprattutto per l’etimologia. La maggior parte degli scritti dei folletti sono specifici alla Francia e si trovano maggiormente in Bretagna, nelle Ardenne sulle Alpi e in Picardia, ma qualche testo ne evocano nella contea di Devon, nello Yorkshire, nelle Fiandre, in Germania e in Italia. Nel Berry e secondo George Sand, gli elfi sono soprattutto chiamati folletti. Pierre Dubois include tra i folletti propriamente detti anche chorriquets, bonâmes, penettes, gullets, boudigs e bon noz di cui il ruolo è soprattutto di curare i cavalli e il bestiame e ci aggiunge la Bona d’Auvergne, che si traveste nel ruolo di cabrette. Altre creature sono qualificate degli elfi, come il fullettu della Corsica, che con la sua mano di stoppa e la sua mano di piombo si attacca alla gente sdraiata. In Provenza e in Languedoc, il Gripet e il Fantasti si occupano del bestiame e delle stalle. I Pirenei conoscono Truffandec, genio del focolare soprattutto notturno e diabolico, e il Paese basco il laminak. L’Alsazia ha numerose storie dei elfi, come quella di Mikerlé nella valle di Guebwiller. Anche la Svizzera usa il nome di folletto. Nell’Allier il folle fa degli scherzi villani, come lo gnomo del paese Poitevin. Il nome Fadet è attestato nella città di Vienna. Il korrigan, «folletto di Bretagna», rinvia etimologicamente al nano (korr). In Bretagna si distinguono diverse categorie di folletti, ciascuno associato a un luogo o a determinate caratteristiche. Esempi di nomi di folletti sono i korils, i kannerez, i korikaneds. Ultimamente sono però chiamati tutti korrigan. I folletti bretoni sono relativamente simpatici secondo Sébillot. Partecipano efficacemente ai mestieri domestici, preparano i pasti, si occupano dei cavalli. I folletti bretoni sarebbero potuti essere stati ammessi nelle chiese della bassa Bretagna, ma sono dispettosi.

Ora diamo uno sguardo “geografico” alle tipologia di folletti.

In Vallonia e Champagne-Ardenne

Il lûton delle Ardenne franco-belghe condivide la stessa origine con il folletto, ma le grotte, le caverne e i sotterranei sono l’essenziale del suo habitat secondo il folklore locale. Spesso sono misantropi e la loro origine è legata alla mitologia popolare, in particolare a quella del periodo gallo-romano. Altri folletti sono spaventosi e si manifestano sotto forma di fiamme, altri ancora, come “il mangiatore di ossa”, vivono nei cimiteri.

Nella Franca Contea, nelle Alpi e in Svizzera

Ci sono folletti benevoli protettori del focolare e soprattutto del bestiame che egli guida in montagna. I paesani danno loro il primo latte del mattino per proteggersi dai loro raggiri. Nel Tirolo i folletti sono spesso rappresentati come anziani e vestiti di stracci e si pensa che vivano presso Hochfilzen e offrano molti servizi agli uomini. I paesani li ringraziano offrendo loro nutrimento negli chalet. Sono generalmente molto suscettibili se gli uomini dimenticano la loro razione di latte.

In America del nord, soprattutto in Québec

La credenza verso i folletti ha invaso l’America del Nord con i coloni francesi e più in particolare la zona del Québec, dove hanno preso le sembianze di animali. Questi folletti sono o buoni o cattivi, possono controllare i fenomeni atmosferici. Essi inoltre detestano il sale, condividono la loro vita con i cavalli.

In Nuova Caledonia

Gli autori francesi che studiano le tradizioni popolari della Nuova Caledonia, menzionano i folletti nella credenza dei kanaks, per la quale la foresta è sacra.

In Italia

Nel saggio di Charles Godfrey Leland Etruscan Roman Remains in popular traditions (1892), sono citate numerose invocazioni ai folletti rivolte dagli abitanti della “Romagna Toscana”. Nel romanzo Il Monte dei Folletti (2012) di Giordano Berti, i folletti che dimorano sull’Alpe di Monghidoro, al confine della Romagna Toscana, salvo restando le loro prerogative di esseri fatati, rispecchiano fedelmente le virtù e i difetti degli esseri umani.

Fra le voci che nel folclore italiano (a seconda delle fonti) possono corrispondere alla descrizione generica dei folletti, si possono citare: Aùra (Puglia), Barabén (var. Barabanén), Mazapécc e Sèltapécc (Appennino bolognese), Berbèch (provincia di Bergamo), Buffardello o Beffardello (provincia di Lucca), Cardinalen o Barabanén (Imola e dintorni), Cjalcjùt (Friuli), Culèis (Piemonte), Fajettu (Calabria meridionale), Fuddhittu e Mazzamareddu (Sicilia), Fulëtt (Piacentino), Gnefro (Terni e Valnerina), Lauru (Puglia), Lenghelo (Castelli Romani), Linchetto (provincia di Lucca), Mazapégul (Romagna), Mazaròl Mazariòl, Massaruol o Massariòl (provincia di Belluno e Treviso), Mazzamurello (Marche), Mazzemarelle (Abruzzo), Munaciello (Napoli), Monachicchio (Basilicata), Pàpolo (provincia di Massa e Carrara), Ru Mazzamauriegliel o Mazzamauriell (Molise), Sarvanot (Piemonte – Valle Varaita), Sbilf (Carnia – Friuli), Squasc (Lombardia orientale), Sa Surtore (Sardegna), Salbanello e Salvanel (Veneto e Trentino), Scazzamurrieddhru (Salento) o Scazzamurrill (provincia di Foggia), Spremìngolo o Sprevéngolo (Marche centrali), Sprenaggio (Uscio – Valle del Recco), Tramontino (Valdarno superiore in Toscana), Tummà (tavoliere delle Puglie).

E adesso un po’ di “storia” e di testimonianze.

I folletti sono conosciuti attraverso delle favole e dai racconti popolari. In queste creature c’è un’importante evoluzione: il Nettuno acquatico primitivo è visto come un demone pericoloso, ma il genio del focolare molto servile più che incostante e suscettibile, è l’archetipo del folletto.

Secondo Claude Lecouteux dal Medioevo al Rinascimento il concetto di genio domestico è molto vivo ed è attribuita ai folletti la paternità dei viaggi sfortunati. Ultimamente le storie sui folletti sono diventate semplici leggende popolari.

Una delle prime attestazioni di credenze nei confronti dei folletti è di Burcardo di Worms che, verso il 1007, parla di Pilosus e Satyrus, sorta di geni domestici che si manifestavano nelle cantine delle case, ai quali c’è l’usanza di offrire delle scarpe o degli archi di piccola taglia. È probabile che egli abbia cercato di chiamarli con nomi latini lasciando perdere i nomi volgari.

Nel 1210, Gervasio di Tilbury scrive in Otia Imperialia (Les Divertissements) un capitolo intitolato Sui fauni e sui satiri che forma la prima testimonianza dettagliata sul piccolo popolo medievale. Si parla di folletti chiamati nuiton in francese e portuns in inglese, nascosti sotto le spoglie di fauni, satiri e succubi. Questi esserei abitano con i paesani ricchi nelle loro case e non hanno paura né dell’acqua benedetta né degli esorcismi, questo li dissocia dai Diavoli. Essi assistono “le persone semplici e di campagna” e si occupano facilmente e senza sforzo dei lavori più umili. Senza essere dannosi, possono deridere gli abitanti. Essi entrano nelle case di notte attraverso le porte chiuse e si riuniscono attorno al fuoco per mangiare degli stracci grigliati. Essi hanno tuttavia la brutta abitudine di aggrapparsi ai cavalieri inglesi che galoppano di notte, per condurli nel pantano, prima di fuggire ridendo. L’insistenza con cui Gervasio di Tilbury afferma che i folletti sono generalmente inoffensivi e non si spaventano degli oggetti religiosi lascia supporre che questa opinione non debba essere associata alla sua epoca. Egli aggiunge che i demoni prendono l’aspetto dei Lari, ossia degli spiriti della casa. La religione cristiana ha un’influenza non trascurabile sulla percezione dei folletti. La Chiesa tuttavia non arriva a sradicare queste creature discendenti dalla mentalità pagana, malgrado i suoi sforzi, né la credenza secondo la quale i defunti si trasformino in spiriti per continuare a manifestarsi.

Claude Lecouteux riporta un testo didattico del XV secolo secondo il quale i goblin sarebbero dei diavoli inoffensivi, creatori di illusioni e fantasmi, che Dio lascia errare, mentre Pierre Dubois evoca l’abbandono di un monastero domenicano nel 1402 a causa della presenza di un folletto in collera che non era stato possibile allontanare con nessuna preghiera. Le credenze durano dal 1586, quando Pierre Le Loyer iniziò a parlare nei suoi testi di folletti. L’anno successivo François Le Poulchre stabilì una sorta di classificazione elementare dei folletti. Nello stesso periodo in Germania, Hinzelmann descrisse come un koboldo tedesco possa assomigliare al folletto francese.

Nel 1615 un folletto apparve miracolosamente vicino a Valencia tutti i giorni tranne la domenica e le festività, mentre nel 1728 un francese di passaggio a Hechingen arrivò in città proprio nel momento in cui un’ordinanza aveva imposto di cacciare tutti gli spiriti cattivi della casa.

Tutte queste prove testimoniano l’esistenza dei folletti in tutte le zone del mondo. Numerosi eruditi del XIX secolo continuarono a credere nei folletti. La relazione con i folletti non è tuttavia sempre semplice: alcuni autori francesi hanno manifestato nel tempo la loro ossessione e il loro combattere incessante contro queste creature considerate demoniache. Questi scrittori sono oggi considerati come i precursori del “fantastico” o archetipo del “folle” letterario. La maggior parte delle numerose testimonianze del XIX secolo riguardano le campagne, grazie al lavoro della collezione effettuata dagli amanti del folclore.

In Picardia, Henry Carnoy colleziona parte della letteratura orale a partire dal 1879, di cui una parte ha come tematiche i folletti, mentre Paul Sébillot, autore del Folklore di Francia, scrive all’inizio del XX secolo un’opera immensa nella quale i folletti sono presenti ovunque: «Nella legna, nell’acqua, nelle grotte e nelle case». Dalle sue collezioni in Bretagna invece, Anatole Le Braz riprende da sé testimonianze, fino all’epoca in cui ogni casa ha un suo folletto. Le credenze nei folletti perdurano nelle campagne all’inizio del XX secolo, approssimativamente fino alla Prima Guerra Mondiale in Francia e fino agli Anni Venti in Québec.

Léon Le Berre descrive nella sua opera Bretagna di ieri l’ultima parte della sua giovinezza, quando i paesani si liberarono dell’esistenza dei folletti. Negli anni Settanta del Novecento addirittura, Albert Doppagne raccolse la testimonianza di una donna vallona di 60 anni che affermava di avere visto i folletti correre sul davanzale della finestra della sua casa. In Savoia, nello stesso periodo, la credenza nei folletti era diffusa quanto quella relativa alle fate.

Il XX secolo corrispose perciò a una forte riduzione delle credenze popolari. Scomparvero anche gli antichi rituali, come quello di dare il primo latte della giornata ai piccoli esseri del focolare. L’industrializzazione degli anni 60-70 andò di pari passo con la scomparsa delle persone anziane, presso le quali potevano trovarsi numerose testimonianze sull’esistenza dei folletti; ciò compromise la diffusione delle leggende relative al piccolo popolo. In quegli anni, la credenza dell’esistenza dei folletti ricomparve sotto forma dei nani da giardino. Gli adolescenti e i giovani si interessavano di più agli extraterrestri e ai fenomeni legati agli UFO che non ai folletti.

Nel 1980 il folclorista Gary Reginald Butler collezionò delle informazioni sui folletti a Terranova e non ottenne come risposta dagli abitanti che un vago ricordo di avere sentito questa parola durante la giovinezza. Egli rilevava una confusione riguardo alla natura di questi esseri e concluse che la cultura televisiva degli anni Ottanta influenzava le ultime credenze popolari dando ai folletti un’origine extraterrestre. Negli anni ’50, il folclorista Claude Seignolle riunì delle tradizioni popolari affini alle storie di folletti, ma fu soprattutto il lavoro di Pierre Dubois che rimise in luce le tradizioni legate ai folletti in Francia. Ormai i folletti erano visti come gli operai di Babbo Natale per il quale essi fabbricavano dei giochi, allacciandosi così ai folletti della tradizione scandinava. Per lo psicoanalista Carl Gustav Jung, gli gnomi e i folletti sono degli dei nani, simbolo di forza creatrice infantile che aspirano eternamente a passare dal basso verso l’alto. Possiedono dei numerosi tratti psicologici propri dei bambini, si mostrano giocherelloni, saggi o crudeli. Secondo la psicologia analitica, essi sono una delle manifestazioni simboliche dell’archetipo del bambino. Rappresentano ugualmente lo sviluppo armonioso e spontaneo della psiche. I personaggi folletti possono personificare la parte d’ombra che continua a vivere sotto la personalità cosciente e dominante.

Malambruno, presente nella Chanson de Gaufrey e in Huon de Bordeaux è somigliante a un folletto che nuota più velocemente del salmone. È capace di prendere l’apparenza di un pesce a volontà, grazie alla pelle di cui si veste, e si rende invisibile con un mantello. Si scambia anche con un cavallo o con un bue, si copre di pelliccia, dotato d’occhi rossi e di denti appuntiti.

Zefiro, personaggio del romanzo Perceforest scritto nel XIV secolo, è la prima immagine associata al folletto secondo Lecouteux, mentre Ferlampin-Acher precisa che il personaggio è vissuto di elementi folcloristici e letterari: è presentato come un angelo talvolta buono e crudele, pietoso e spaventos e, all’inizio del romanzo assume dei ruoli prendendo la forma di un cavallo, di un uccello e di un cervo. Non esce che durante la notte e abita nel fango e nelle acque salate.

In Abruzzo questi esseri mutaforma sono conosciuti con il nome di Mazzemarelle e hanno la caratteristica di essere piccoli e tozzi somiglianti a cani. A Lanciano, secondo il racconto di un testimone oculare, il folletto in questione, gli si presentò davanti annunciato da un mulinello d’aria nel cui centro c’era la figura di questo essere più simile a un’animale che ad un essere umano che lo guardava con aria non bonaria, egli stava in piedi e portava un piccolo berretto rosso e dei pantaloni blu. Dopo un attimo di panico l’uomo chiese aiuto ma la creatura era scomparsa all’interno del mulinello di vento!

Secondo alcuni i Mazzemarelle sono le anime dei bambini non battezzati che si manifestano agli adulti.

Un altro testimone oculare sostiene di aver visto, nel territorio di Torricella Peligna, dei piccoli esseri grigi con cappellini rossi sempre somiglianti a cani seduti su delle sedioline rotanti che provocano mulinelli di vento apparire e scomparire in una frazione di secondo. Questa zona non è nuova ad apparizioni di esseri mutaforma come le Fate che, in epoche remote, secondo alcuni, sono state le responsabili del rapimento di alcuni bambini della zona.

Una similitudine con i folletti abruzzesi potrebbe essere il mitico Sacì Pererè della mitologia brasiliana: “Sacì Pererè è una leggenda del folclore brasiliano, originaria delle tribù indigene. Il personaggio protagonista inizialmente era una specie di folletto protettore delle foreste, un “curumim”, “bambino” in lingua tupì. Nasce nei germogli di bambù, nei quali sta sette anni prima di venire alla luce per poi vivere settantasette anni tormentando esseri umani e animali e infine morire trasformandosi in un fungo velenoso. Nell’iconografia attuale il Sacì possiede una gamba sola, indossa un berrettino rosso e ha sempre la sua pipa in bocca. In seguito all’influenza della mitologia africana il Sacì si è trasformato in un negrinho che ha perso la gamba perché era stato imprigionato e fatto schiavo, quindi incatenato per i piedi. Preferì tagliarsi una gamba e guadagnare la libertà piuttosto che vivere in schiavitù. Il berrettino rosso lo eredita dalle storie folcloriche europee, questo indumento gli permette di fare magie e spostarsi velocemente da un luogo all’altro. Ha dei buchi nelle mani e con esse fa dei giochi di prestigio e malabarismo, lanciando in aria dei piccoli tizzoni ardenti che poi fa passare attraverso i buchi. Il Sacì è un vero birichino, in alcuni casi forse un po’ cattivello, ma più frequentemente si diverte semplicemente a fare scherzi e mettere nei guai le persone o gli animali, senza fare danni significativi: nei campi intreccia le crine dei cavalli, spaventa le galline che non riescono così a covare le uova; in cucina distrae le cuoche facendo loro bruciare i fagioli, rovescia il sale per terra, fa cadere le mosche nella minestra, fa inacidire il latte; nel cortile annoda la biancheria stesa ad asciugare, mette i chiodi per terra con la punta all’insù; in casa nasconde i ditali delle sarte e i giocattoli dei bambini. Chi fosse vessato da un Sacì potrebbe seminarlo attraversando un fiume, il Sacì infatti teme l’acqua che gli fa perdere i suoi poteri. Un altro modo per distrarlo è far cadere ai suoi piedi una corda con molti nodi, perché sarebbe costretto a fermarsi per sciogliere tutti i nodi uno per uno. Lo si può anche corrompere offrendogli del tabacco per la sua pipa. Secondo la leggenda il Sacì si trova nei vortici di vento e per catturarlo si deve gettare un setaccio nel vortice. Una volta preso gli si deve togliere subito il berretto, per renderlo mansueto, e chiuderlo in una bottiglia. Il Sacì può esaudire i desideri di chi gli prende il berretto, pur di riaverlo, mentre un Sacì catturato e poi rilasciato si può trasformare in un amico fidato o in un acerrimo e pericoloso nemico, a seconda del trattamento ricevuto. Con lo scopo di contrastare la crescente tendenza di adottare l’anglo-celtica festa di Halloween in Brasile (in portoghese chiamato Dia das Bruxas), il Giorno della Saci è stato creato nel 2005 ed è altrettanto commemorato il 31 ottobre.

Nicoletta Camilla Travaglini