LA SESTA ERA

E’ uscito per le Edizioni Il Filo il primo romanzo di una nostra vecchia conoscenza: stiamo parlando di Simona Gervasone, collaboratrice de LA ZONA MORTA con il Ciclo di “Clelia & Willelm”, che ha pubblicato proprio in questi giorni il suo primo impedibile romanzo fantasy “La sesta era” (19,50 euro; 350 pagine). La storia è ambientata il “21 dicembre 2012: come predetto dai sapienti Maya, una catastrofe si abbatté senza pietà sull’umanità”. E’ proprio con questo incipit apocalittico che comincia il romanzo “La sesta era”, che, come si legge sul sito della casa editrice, “trascina il lettore in un mondo neanche troppo irreale, in cui è la tecnologia a dominare e a farla da padrone, ma in cui gli esseri viventi non hanno alcuna intenzione di soccombere. Una realtà ovattata in cui, dopo la scomparsa della Terra così come la conosciamo, tutto gira in modo assolutamente perfetto, fino a quando l’umanità avrà il coraggio e la forza di reagire… Con una narrazione ricca di colpi di scena ed eventi inaspettati, Simona Gervasone ci apre le porte di un fantastico futuro in cui, contro ogni previsione, gli esseri viventi lottano ancora per esserci”.
Simona Gervasone, nata a Torino il 4 novembre del 1975, si è trasferita a 19 anni a Cuneo, dove attualmente risiede e lavora come impiegata. Da un anno a questa parte collabora a un progetto importante e senza precedenti con il gruppo di Aldreian (vedere nella sezione link). Scrive anche racconti per il giornale on line "Cuneocronaca.it" e articoli per il settimanale “CuneoSette” e, naturalmente, una serie di racconti per LA ZONA MORTA.
Abbiamo chiesto a Simona come è nata questa sua prima opera: “Da sempre sono attratta dalle religioni antiche e dalle leggende dei vari popoli.
Due anni fa andai in Messico in vacanza e, dopo aver letto parecchi libri sull’argomento, finalmente mi ritrovai davanti alle famose piramidi, completamente immersa nella loro cultura e nel loro affascinante mondo.
Mi piace tutto ciò che è misterioso, che non ha ancora risposte e che non si riesce a giustificare come le incredibili conoscenze astronomiche, mediche, ecc. dei Maya.
Trovarmi in cima a una ripida piramide con il sole di mezzogiorno a picco sulla testa ha fatto il resto.
Qualcuno ora penserà: si è fusa il cervello?
No, (almeno credo) ma ho visto la distesa di alberi, l’immensità di quelle terre, ho sentito il calore bruciante… ho pensato alle civiltà scomparse, ad Atlantide, a tutto ciò che non ha risposta e non ha prove, ma in cui in fondo io credo. Ho pensato a quanto il sole sia forte. Al fatto che potrebbe distruggerci. Al fatto che da sempre è considerato un Dio in tutte le civiltà.
Credo che l’uomo non sia qui da sempre.
Credo che ci sia arrivato e che abbia fatto della terra casa sua”.
Qui di seguito ecco un estratto dei primi due capitoli del mio romanzo che sarà disponibile tra qualche settimana su ibs e in libreria.

“Il 21 dicembre 2012, come predetto dai sapienti Maya, una
catastrofe si abbatté senza pietà sull’umanità.
Come un cane che per troppi anni ha sopportato centinaia
di migliaia di molesti parassiti sulla sua delicata pelle, la terra si
diede uno scrollone. L’asse terrestre variò la sua inclinazione
e le terre come noi le conosciamo scomparvero sommerse
dalle acque di fiumi e mari. I vulcani intonarono all’unisono il
loro canto di morte come antichi Dei frustrati dal tradimento
degli uomini.
Gli alberi bruciavano, vittime innocenti e senza scampo
mentre gli animali avvertiti dal loro sesto senso si rifugiavano
sui picchi delle montagne più alte.
Gli uomini, sciocchi e presuntuosi, non si rifugiarono. Si
chiusero nelle loro belle case con i loro confortevoli salotti
o in qualche bunker da cui non uscirono mai più. La terra li
aveva ospitati dando loro il benvenuto tanto tempo prima,
scodinzolante come un fedele bracco e loro con spregevole
supponenza l’avevano trafitta, avvelenata, uccisa. Tutti gli astri
avevano pianto per lei e avevano risposto alle sue suppliche.
La quarta era stava finendo e la quinta avrebbe avuto inizio.
Gli astri guardarono la terra e suggerirono agli esseri buoni
e meritevoli di salire sulle alte vette delle montagne come in
groppa a possenti cavalli che li avrebbero salvati e condotti
alle porte della quinta era incolumi.
Ma uno di loro portava in sé un seme malevolo che avrebbe
cambiato la sorte di tutti gli altri.
Un giovane con una grande bontà d’animo e che capiva le
ragioni della terra. Il cielo era grigio di polveri e rosso di fuo-
co. Le antiche terre emerse erano ora distese di mari agitati e
gli antichi mari erano nuove terre coperte di pesci boccheg-
gianti e splendenti coralli.
Sulle vette coperte di neve, gli uomini sopravvissuti prega-
vano uno stesso Dio che aveva tanti nomi. L’arabo offriva il
suo frugale pasto all’italiano. Rimasero a lungo su quelle vette.
Per molti anni non scesero e rimasero ad attendere che la ter-
ra si acquietasse. Si conobbero a fondo, parlarono una stessa
lingua, si scambiarono i pochi libri salvati e pregarono un solo
Dio con uno stesso nome.
I nuovi nati non avevano razza né differenze sociali.
Quello era davvero un nuovo mondo.
La terra si calmò. Continuava ad avere la pelle cosparsa di
parassiti, ma non la molestavano, non la maltrattavano. Senti-
va la loro bontà.
I mari divennero distese piatte e azzurre e i primi germogli
bucarono le nuove terre arride. La pioggia alleviò la loro sete
e il sole li riscaldò e li prese per mano.
Solo allora gli uomini scesero nelle valli con il cuore pieno
di gratitudine e amore per quella terra nuova.

I
La luce filtrava forte attraverso le finestre ampie e linde.
Abituato a stare per lungo tempo in soffitta tra polvere e ra-
gni con l’illuminazione di una sola e stentata lampadina spor-
ca, trovava fastidiosi quei raggi che andavano a infrangersi su
ogni superficie rendendola sbiadita e accecante. Eppure ogni
tanto doveva proprio costringersi a stare con gli altri per cer-
care almeno di salvare le apparenze e sembrare normale. Ma
lui sapeva di non essere come tutti gli altri e neppure l’avreb-
be voluto. Lui viveva perché era curioso. Perché non avrebbe
mai potuto accettare ciò che gli veniva detto senza cercare la
verità da solo. Non conosceva altre realtà oltre quella che si
trovava costretto a vivere ormai da diciassette anni (non per-
sonalmente almeno), ma aveva trovato il modo di apprendere
molte verità utilizzando qualcosa che da tempo rappresentava
il suo più grande segreto e come tale lo custodiva gelosamen-
te a scapito di tutto il resto. Da molti anni non passava più
di un paio di pomeriggi all’aperto e separato dal suo segreto.
Non guardava la televisione con gli altri. Non partecipava a
giochi di società. Aveva chiesto e ottenuto dalla Direzione di
poter fabbricare, con degli stuzzicadenti, enormi galeoni o
imponenti monumenti resi celebri dalla storia. Tutti trovava-
no le sue opere superbe e da quando aveva preso a venderle
su internet dando metà del ricavato alla Direzione erano stati
tutti ancora più felici di vedere che tutti i pomeriggi andava a
rinchiudersi in soffitta. In realtà lui passava un terzo del tem-
po ad assemblare opere d’arte. Per gli altri due terzi… diciamo
che faceva ciò che nessun altro là dentro aveva mai fatto o
avrebbe mai potuto fare. Questo lo faceva sentire speciale ed
era stato l’unico motivo per cui aveva resistito così tanti anni
lì dentro. Era il motivo per cui non aveva perso la testa. Era
ciò che gli aveva permesso di mantenere la calma, di domi-
nare il suo carattere a tratti aggressivo e ribelle. E grazie al
cielo c’era ancora molto da imparare. Poteva tranquillamente
arrivare alla fine… concludere quel cammino di prigionia. Si
sentiva vicino a una sola persona lì dentro, ma nemmeno con
lei, con Magda, aveva potuto condividere il suo grande e vitale
segreto. In qualche occasione era stato tentato di dirle tutto,
soprattutto per il modo dolce e malizioso in cui lo guardava,
ma poi aveva cambiato idea. Avrebbe potuto significare la sua
fine. Non sapeva di preciso che cosa gli avrebbero potuto
fare, ma di sicuro niente di bello. Oggi era uno di quei giorni
in cui si era costretto a fare quello che facevano tutti gli altri.
Si era alzato alla solita ora, aveva frequentato le sue lezioni
noiose e scontate; aveva pranzato in refettorio. Purea di pata-
te, bistecca di soia ai ferri e due mele. Magda aveva preso po-
sto vicino a lui, come sempre accadeva quando lui si fermava
a mangiare alla mensa.
«Come procedono i tuoi lavori?» gli chiese.
«Bene… oggi non mi sentivo abbastanza ispirato. E tu…
come stai? È da un po’ che non facciamo due chiacchiere».
Lei gli sorrise imbarazzata. Quando le parlava la guardava
sempre insistentemente dritto negli occhi sapendo e godendo
del fatto che l’avrebbe fatta arrossire.
«Normale… non vedo l’ora di concludere i corsi di quest’an-
no. Ho scelto delle materie davvero pesanti. Se penso che do-
vrò stare qua dentro ancora per tre anni… ho così voglia di
scoprire il mondo da sola e non attraverso libri o racconti dei
prof. Vedere se quello che ci dicono del mondo è vero».
«Ti capisco. Non sai quanto!».
«Ma come mai sembriamo gli unici così impazienti?».
Daniel si guardò intorno sogghignando.
«Perché ridi?».
«Perché hai ragione. Sembrano tutti così ben adattati a non
vivere!! Anch’io non vedo l’ora di uscire di qui. Oggi cosa
fai?».
Magda si guardò le mani cercando una risposta.
«Non so… vorrei passeg giare».
«Allora passeggeremo!».
Lo guardò con gli occhi che sorridevano più delle labbra e
quasi incredula.
«Davvero?».
«Davvero!».
«Non vai ad assemblare galeoni oggi?».
«No, oggi si va a passeggiare!».
Magda sbocconcellò un pezzo di pane bianco e lasciò a metà
la sua bistecca di soia troppo cotta.
Si vedeva che non stava più nella pelle. Sembrava una bimba
il giorno prima della festa di compleanno.
Avrebbe voluto portarla davvero a fare una passeg giata, ma
purtroppo era proibito uscire dal complesso. C’erano due sole
possibilità per passeggiare. Una era fare il giro del collegio
che era in effetti circondato da un ampio e ben curato par-
co, rivedendo per la millesima volta la stessa pietra coperta
di muschio, lo stesso albero con il tronco bucato, le stesse
scritte sulle panchine. Oppure prenotare un’ora nella sala sva-
go, dove avrebbero collegato entrambi a un computer con
un programma di svago comune e dove avrebbero potuto
scegliere una qualsiasi delle tremila località presenti nel menù
principale.
In genere preferivano il parco, per quanto triste e sconta-
to, alla più sorprendente realtà virtuale. Tanto per cominciare
potevano parlare senza che altri sentissero “per caso” i loro
discorsi. Potevano guardarsi davvero negli occhi, toccarsi dav-
vero la mano, sentire davvero profumi e rumori.
Non che fosse mal fatto il programma!! Anzi!
Sembrava in tutto e per tutto un’esperienza reale. Niente la
distingueva, ma il fatto era che
sapevano che non era
LORO
vero tanto bastava per renderla meno gradevole.
Molti altri invece sembravano non poterne fare a meno.
Erik e la sua cricca si collegavano spesso e anche in dieci.
I paesaggi erano ricreati a regola d’arte esattamente come
erano prima della catastrofe del 2012. Così si potevano ammi-
rare luoghi ormai scomparsi e città distrutte. Andavano a scia-
re sulle Alpi piuttosto che ad Aspen. Mila e Martin avevano
degli… incontri ravvicinati, ma questo è un altro discorso!
Si poteva fare una bella nuotata nel mare trasparente e caldo
dei Caraibi sentendo gli schizzi sulla pelle, il sole che li asciuga
e il vento tra i capelli. Oppure divertirsi con una moto e fare
le strade più spericolate. Insomma non c’erano quasi limiti e
questo teneva buoni tutti quanti… tranne loro due. Forse era-
no diversi da sempre o forse lo erano diventati guardandosi
attorno e non volendo somigliare a nessun altro. Già così si
sentivano così poco “individui a sé”.
Immerso nei suoi pensieri, solo dopo qualche istante, si ac-
corse che Magda lo stava fissando. Gli sorrise.
«Eri così assorto che non speravo più che ti accorgessi di
me!».
«Scusami. Ero sovrappensiero».
«Me ne sono accorta. Sono perspicace sai? Andiamo?».
Daniel si alzò dalla panchetta ormai consumata. Percorsero
il corridoio in silenzio, sentendo solo i loro passi echeggiare
distanti. L’ambiente era colorato di beige un po’ cupo, seve-
ro e asettico. Mentre i piani adibiti ad abitazione di studenti
e insegnanti erano stati tinteggiati con colori pastello perché
fossero più accoglienti e allegri, la parte che comprendeva am-
ministrazione, direzione, aule ecc… era rimasta come seicento
anni prima. Questo lui lo sapeva grazie al suo segreto. Gli altri
probabilmente non si erano nemmeno mai posti la domanda di
come fosse quel posto prima che ci arrivassero loro. Ma andava
bene così. Meglio così. Meno curiosi aveva attorno meglio era.
Ma come potevano non essere mai curiosi??
«Chissà com’era questo posto prima di noi?».
Daniel si fermò e la guardò serio e stupito.
«Che c’è? Perché mi guardi come se fossi apparsa dal nulla?».
«Solo tu potevi fare una domanda del genere!» e scoppiò a
ridere.
«Ma che ti prende?».
«Niente… niente. Sono certo che un giorno scoprirai co-
m’era questo posto prima di noi. Ora usciamo di qui».
Attraversarono l’androne e sbucarono sotto il porticato.
L’aria era ancora fresca nonostante fosse già maggio. Non
c’era un solo rumore nei dintorni eppure Daniel immaginava
di sentire il cinguettio di quegli animali alati chiamati uccelli
di cui aveva letto. Chissà che genere di suono era? Chissà per-
ché si erano estinti? E chissà perché era proibito anche solo
nominarli?
Quando aveva undici anni aveva chiesto a un prof che gli
era sembrato più umano degli altri delle informazioni su que-
sti animali. Per tutta risposta era stato severamente punito e
gli era stato vietato anche solo pronunciare nuovamente la
parola “animali”. Naturalmente avevano tentato di fargli con-
fessare dove l’avesse appresa, ma lui era stato più duro del
dolore e non aveva detto né dove né quando né da chi o cosa
l’avesse conosciuta. La lezione però gli era servita e non aveva
mai più parlato con nessuno di niente che esulasse dai corsi
che frequentava. La brezza faceva ondeggiare gentilmente le
fronde degli alberi e la gonna azzurra di Magda. Fecero i primi
passi in silenzio, mentre lei si rassettava i capelli biondo scuro,
scompigliati dal vento.
Quando si addentrarono un poco di più nel parco gli sorrise
come per dirgli: “ora possiamo parlare”.
Daniel si voltò indietro accertandosi che fossero soli.
«Siamo soli finalmente!».
«Sì… finalmente».
Passò un breve momento di imbarazzo.
«Come sono andate le ultime settimane?» chiese lui per
rompere il ghiaccio.
«Al solito. Non ce la faccio più Daniel. Davvero. Tre anni
sono troppi. Ancora troppi…».
«Sono tanti, sì. Hai voglia di conoscere i tuoi vero?».
Magda guardò altrove per nascondere un velo di commo-
zione e rispose con la voce tremula di chi è sull’orlo del pianto
e fa una gran fatica a non lasciarsi andare alla disperazione.
«Sì. Non è vita questa Daniel. Sono stanca di far finta che
vada tutto bene. Non va bene per niente. Ma che cos’hanno
gli altri? Perché nessuno sta come me? Perché non si pongono
domande? Perché non sono mai tristi?».
Daniel non aveva risposte.
«Vorrei abbracciarti Magda, ma sai che non posso. Se solo
potessi…».
«Lo so» lo interruppe lei «lo so. Anche io vorrei abbracciar-
ti. Io non capisco! Perché non si può parlare liberamente?
Perché non è permesso avere alcun contatto fisico? Perché
dobbiamo stare rinchiusi qua dentro fino a vent’anni? Come
sarà la vita fuori di qui?».
«Sai una cosa?» le chiese.
Magda lo guardò in attesa che continuasse.
«Penso che agli altri abbiano tolto in qualche modo la ca-
pacità di farsi delle domande. Gli hanno tolto la capacità di
essere curiosi».
Daniel sapeva com’era la vita fuori di lì… almeno in parte,
ma non poteva rivelarglielo perché questo avrebbe significa-
to dover confessare il suo segreto e metterlo in pericolo per
sempre. Finché l’avesse conosciuto solo lui, sarebbe stato al
sicuro.
«A che pensi?» gli chiese.
«Oh nulla. Anche io mi pongo le stesse domande».
Magda sospirò con rassegnazione. La tentazione di abbrac-
ciarsi era forte, ma non potevano cedere.
Forse questo era l’unico lato positivo della realtà virtuale.
Anche se il contatto non era reale e non coinvolgeva il corpo
nel vero senso della parola, la sensazione che il cervello tra-
smetteva era forte e autentica.
Il cervello umano, così complesso, veniva ingannato così
bene da non capire più quale fosse la realtà e inviava segnali
precisi in ogni parte del corpo facendolo reagire come se tutto
accadesse davvero.
Daniel ricordava con emozione l’unica volta in cui lui e Ma-
gda si erano lasciati andare ad abbracci e carezze durante uno
dei loro brevi viaggi cerebrali. Erano state emozioni così forti
che avrebbe voluto farle durare per sempre. Magda si era un
po’ spaventata delle reazioni che il suo corpo aveva avuto e
che non aveva mai provato prima. Gli aveva chiesto di smet-
tere. Erano lì, seduti su di una panchina a New York, con cen-
tinaia di
persone
che andavano e venivano o addirittura li sfio-
ravano senza vederli, senza sentirli. Ma il cervello è un organo
strano. Come sentiva vere le carezze, altrettanto vedeva vera la
gente attorno e se una parte di esso trovava la cosa eccitante,
l’altra lo inibiva. Così lui l’aveva guardata con dolcezza e con
una richiesta silenziosa sulle labbra: “non fermiamoci più” le
aveva preso le mani nelle sue e le aveva risposto: “ok”.
Da allora non avevano mai più ripetuto l’esperienza con
gran rammarico di Daniel.
Il tempo a loro disposizione era quasi terminato. Si resero
conto entrambi in quel momento che avevano passato molto
più tempo a camminare in silenzio che non a chiacchierare
allegramente come di solito capitava.
«A cosa stai lavorando ora?».
«La cupola di San Pietro».
Lei si lasciò andare a una risata cristallina. Fresca come una
sferzata di pioggia primaverile.
«Ti adoro» le disse, sentendolo dal profondo dell’anima.
«Anch’io».
«Io me ne vado Daniel» aggiunse dopo un momento di esi-
tazione.
«Non dire sciocchezze. Non puoi andartene da sola».
«Allora vieni con me» disse guardandolo con rabbia e fru-
strazione. Non era da lei avere reazioni aggressive e questo
convinse Daniel a prendere un po’ più sul serio le sue richieste
e il suo malessere.
«Posso almeno pensarci su?».
Lei sospirò alzando il volto a guardare il cielo che ingrigiva.
«Sì» rispose abbassando la voce.
«Torniamo… è ora».
Tornarono verso il portico in completo silenzio.
Magda aveva lo sguardo duro e fragile al tempo stesso.
Non l’aveva mai vista così e questo lo preoccupava molto.
Sembrava cercare con lo sguardo un motivo, un solo motivo,
in mezzo agli aghi di pino o ai cespugli di more. Un motivo
per non lasciarsi andare e sembrava non trovarlo.
Senza guardarla Daniel le disse: «Ti porterò via. Non fare
sciocchezze ok?».
Magda trattenne le lacrime deglutendo con sforzo e fece
cenno di sì col capo.
Quando rientrarono, il corridoio era pieno di ragazzi che
andavano e venivano con i libri sotto braccio. I corsi obbli-
gatori erano solo al mattino. Al pomeriggio la maggior parte
di loro si dedicava ai propri hobby, ai corsi facoltativi o allo
sport.
Il collegio era diviso in quattro ali ed era a pianta circolare.
Nella parte centrale stavano i bambini da zero a cinque anni.
Tutt’attorno a questo “asilo” c’era una striscia di prato che
dall’alto sarebbe sembrata una ciambella verde puntinata di
colori vivaci rappresentati da vari giochi.
“L’asilo” era a sua volta collegato a un’altra costruzione a
forma di ciambella, tramite dei corridoi coperti e sopraelevati
interamente in vetro alle quattro estremità.
In quest’altra costruzione risiedevano i ragazzi dai sei ai
quattordici anni. Anche questa costruzione aveva il suo giar-
dino con oggetti per lo svago indicati all’età di coloro che vi
abitavano.
I ragazzi più grandi, compresi Daniel e Magda, stavano nel-
la successiva costruzione, collegata a quella precedente con
altri quattro stretti corridoi sopraelevati interamente in vetro.
Era il penultimo anello, come veniva chiamato da tutti. Il pe-
nultimo anello che richiedeva un ultimo sforzo per poter en-
trare a far parte del mondo. Esternamente era circondato da
un vasto parco con grandi conifere e alberi da frutto; campi
sportivi attrezzati, panchine per il relax e pretenziose fontane
decorate da statue di finto marmo.
L’ultimo anello era rappresentato dall’edificio dedicato al-
l’amministrazione, l’infermeria, la direzione e la sala cinema.
Daniel si chiedeva che aspetto avesse quell’enorme com-
plesso dall’esterno. Pensava che fosse stato costruito, ruban-
do l’idea alla natura, come un immenso uovo con uno spesso
strato di albume e uno spesso guscio protettivo. Mano a mano
che gli esserini nel tuorlo diventavano più forti e autonomi si
avvicinavano sempre più al guscio più esterno preparandosi
a nascere davvero. Naturalmente era un paragone che solo
Daniel avrebbe potuto fare, dal momento che nessuno degli
altri conosceva le galline e tanto meno le uova.
Anche Magda sembrava persa nei suoi pensieri.
Camminarono in semicerchio per raggiungere la scala che li
avrebbe portati ai piani superiori e quindi si sarebbero divisi
per raggiungere ognuno la propria inospitale stanza.
Queste erano molto piccole e la privacy inesistente. Ogni
camera era occupata da due persone. I letti erano a castello.
Erano state pensate perché non ci fosse lo spazio necessario a
far sì che ognuno di loro creasse il proprio habitat ideale, che
avrebbe portato a trascurare la vita sociale e lo sport. Arrivati
al terzo piano Daniel e Magda si salutarono senza moine e si
separarono.
Erano quasi le sei e Daniel non aveva voglia di stare in ca-
mera e nemmeno di scendere con gli altri a fare conversazio-
ne. Prese le chiavi della soffitta dal cassetto del suo minuscolo
guardaroba, uscì dalla stanza e si diresse verso la porta fran-
gi fuoco alla sua sinistra. L’unica strada per arrivare nel suo
mondo segreto!
Nessuno faceva più caso a lui che si infilava nell’antro buio.
Una volta lo guardavano come se stesse contravvenendo alle
regole e dovesse essere fustigato per questo. Ormai invece
era diventata un’abitudine vederlo sparire nell’oscurità e poi
riapparire con le ragnatele nei capelli.
Questo era davvero l’unico elemento di disturbo… gli insetti
e ancora più nello specifico: i ragni.
Gli insetti erano gli unici animali rimasti sulla faccia della
terra e gli unici che lui avrebbe invece sterminato volentieri!
Vivevano allegri e contenti e una volta l’anno un’enorme
nube di insetticida faceva quasi piazza pulita, dopodiché i po-
chi superstiti avevano un anno intero per rimettere su fami-
glia!
Chiudendosi la porta alle spalle, chiuse fuori da lì tutti i pen-
sieri e la luce del sole. Davanti a sé un’unica lampadina sporca
e la luce immensa della conoscenza.

II
L’uomo si era alzato come sua abitudine di buon ora e aveva
iniziato la giornata con una frugale colazione. La casa era in
disordine. La polvere regnava sovrana e incontrastata ormai
da mesi. Gli abiti che aveva indosso avevano ormai un cattivo
odore e la barba e i capelli lunghi erano sporchi e unti.
Come ogni giorno il suo primo pensiero era che doveva
porre fine a quell’esistenza inutile, ma come ogni giorno sa-
peva che non avrebbe trovato il coraggio di abbandonare la
speranza che si accendeva in lui come una lanterna nella not-
te. Che lo trascinava in superficie come una mano apparsa
nell’abisso. Pianse tenendosi la testa tra le mani. Pianse perché
la speranza era ormai la sua peggior nemica. Colei che non lo
lasciava andare, che lo teneva prigioniero in quel luogo senza
vita e senza tempo.
Si affacciò alla finestra e in lontananza vide il grande can-
cello e i due uomini di guardia. Alzò lo sguardo al cielo e vide
l’enorme cupola di vetro. “Nemmeno se avessi le ali potrei
fuggire da qui!” pensò.
Si sciacquò il viso al lavabo della misera cucina, godendo
della freschezza dell’acqua sulla pelle accaldata. Voleva uscire
almeno per un po’. Aprì la porta di legno ormai quasi marcio
e scese i tre scalini rotti. Gli si illuminò il viso quando vide ar-
rivare di corsa i due cani che gli era stato permesso di tenere.
Buster e Sancio gli corsero incontro uggiolando felici e gli si
buttarono addosso per dimostrargli quanto lo fossero. L’uo-
mo rise e li accarezzò prima di invitarli a camminare con lui. Il
bosco era fitto e parecchi passeri cinguettavano rincorrendosi
tra i rami. Buster e Sancio corsero avanti facendo scricchiolare
alcune foglie e arbusti. Era passato così tanto tempo dall’ulti-
ma volta in cui aveva passeggiato tra quegli alberi. Vederli gli
faceva male, come vedere le nuvole oltre la sua gabbia. Era
come vedere la luce del sole essendo legato a uno scoglio sot-
to due metri di acqua. Gli sembrava di non riuscire a respirare.
Aspettava con fiducia. Ogni giorno, da anni, aspettava che
succedesse quello che doveva succedere. Sembrava passata
una vita intera dall’ultima volta in cui aveva creduto d’essere
felice. Poi tutto gli era stato portato via con inumana crudeltà
e lui non aveva saputo far altro che rassegnarsi e piangersi
addosso. Solo ora comprendeva che era stata la sua non-rea-
zione a decidere gli eventi.
Aveva lasciato che lo mettessero in gabbia senza fa nulla. E
ora non poteva più rimediare. Poteva solo aspettare che qual-
cun altro rimediasse al suo posto. La vita sarebbe stata ancora
lunga per lui. Era lontano il tempo in cui un uomo aveva una
vita media di settant’anni. In quel caso lui sarebbe stato vicino
alla fine. Ora invece era a malapena a un terzo della sua esi-
stenza… e com’era quel detto? Finché c’è vita c’è speranza?
Al di là del vetro il cielo era terso. Solo poche nubi sembra-
vano essersi smarrite qua e là. Camminò lentamente, ammi-
rando il tronco di alberi più vecchi di lui e vivi come lui non
sarebbe mai più stato. Sapeva che le guardie osservavano ogni
suo movimento. Le telecamere, poste ovunque, non gli lascia-
vano un solo attimo di privacy.
“Hanno paura di te” pensò.
“Cosa credono possa fare rinchiuso qua dentro?”.
La telecamera bianca spiccava sul tronco di un giovane pino
e si rigirava lentamente con il suo occhio indiscreto per non
perderlo mai di vista.
Una lepre sfrecciò davanti a lui solleticando l’istinto cac-
ciatore dei due cani che sparirono oltre una piccola collina,
abbaiando alla scaltra preda che non avrebbero mai preso.
Sentì una goccia sulla fronte e alzò lo sguardo verso la cupo-
la di vetro. I guardiani si volevano divertire a quanto pareva.
Sopra di lui, tanti dischi grigi con miliardi di buchi comin-
ciarono a spruzzare acqua come enormi docce simulando la
pioggia. Erano stati messi per far sopravvivere la vegetazione
e gli animali selvatici che vivevano all’interno della bolla di
vetro, ma venivano utilizzati con ben altri scopi. I guardiani si
dilettavano a non metterli in funzione per mesi. Guardavano
lui che si disperava perché l’erba ingialliva e gli alberi pativano.
Oppure raccoglieva bacinelle d’acqua potabile da spargere in
giro per gli animali che altrimenti sarebbero morti di sete. Poi,
quando lui decideva di stare fuori e non c’era bisogno di ac-
qua, li azionavano per rovinargli quei pochi istanti di pace che
cercava di assaporare. Continuò a camminare sotto la forte
pioggia e quasi sentiva le risate dei due guardiani mentre lo
schernivano. Si appoggiò con la schiena ormai grondante a
uno degli alberi più grandi. Con le mani la carezzò. Era una
sequoia. Il tronco ignifugo quasi vellutato lo fece sentire a
casa.
Non voleva dare la soddisfazione di vederlo tornare a casa ai
suoi aguzzini. Si rimise in marcia. Quando era solo un ragaz-
zo andava spesso a passeggiare con il suo cane e suo fratello.
Erano tempi felici quelli. Quando sua madre faceva la miglior
crostata di ciliegie mai esistita sulla faccia della terra. Quando
suo padre tornava a casa dall’ufficio e li portava tutti al cinema
oppure a passeggiare per il centro ghermito di gente allegra e
festante nelle sere d’estate. Il mare era a due passi da casa e lui
e suo fratello andavano spesso a fare una nuotata oppure a pe-
scare dopo la scuola. Poi suo fratello aveva cominciato a star
male. Aveva spesso alte febbri e convulsioni. Erano passati
molti anni di agonia prima che i medici capissero quale era il
suo male e quel giorno fu il più buio e triste della loro vita.
Non c’era salvezza; non c’era cura.
Era allergico ai peli di ogni animale, alle piume di ogni uc-
cello e il mondo era, grazie alla bontà divina, pieno di animali
dalla folta pelliccia e il variopinto piumaggio. Era pieno di
questi esseri benevoli che non erano responsabili di quel do-
lore.
Suo padre era un uomo potente e se solo avesse voluto, se
solo fosse stato egoista avrebbe potuto sterminare tutti gli
animali del mondo per salvare suo figlio, ma a che prezzo?
No, lui era un uomo giusto, buono e onesto e se gli Dei ave-
vano deciso per quel suo figliolo una sorte del genere doveva
esserci una ragione superiore; un bene supremo da persegui-
re.
Aveva fatto costruire una camera iperbarica con tutti gli
optional esistenti sulla faccia della terra perché quel giovane
ragazzo potesse vivere senza dover soffrire, anche se sapeva
che non avrebbe potuto vederlo felice e nemmeno salvargli
la vita.
Il processo degenerativo che aveva colpito in maniera fatale
i polmoni lo faceva peggiorare di giorno in giorno nonostante
la barriera protettiva innalzata dal padre.
Il ragazzo che un tempo era suo fratello, quello che rinun-
ciava all’ultima fetta di crostata per darla a lui. Quello che ave-
va rischiato di annegare nel mare in tempesta per salvare un
airone dalle reti da pesca non c’era più. Al suo posto un essere
rabbioso, crudele. Una belva in gabbia che se mai si fosse li-
berata avrebbe preteso un’assurda vendetta. Urlava per intere
notti, inveendo contro chi lo amava più della propria vita. Si
graffiava il viso e le braccia per sfogare l’ira che invadeva la
sua anima. Sua madre non aveva più preparato la crostata di
ciliegie. Non c’era più stato un sorriso a illuminare il suo bel
viso dalla carnagione chiara. Non ce l’aveva fatta a superare
quella tragedia e un giorno si era uccisa, poco più che novan-
tenne e nel pieno della vita.
Un rumore improvviso lo distolse da quei tristi pensieri. Si
guardò attorno sperando che i guardiani non avessero notato
nulla.
«Vieni» gli disse la voce con tono imperativo.
L’uomo non rispose, ma si diresse lentamente verso il punto
da cui proveniva il richiamo.
«Forza, non c’è tempo!» rincarò la voce in un sussurro.
Fece qualche altro passo guardandosi attorno circospetto.
Un altro rumore, questa volta alle sue spalle, lo fece fermare
di colpo.
«Dove stai andando?».
L’uomo si girò e vide Omar, uno dei guardiani del turno
di giorno, appoggiato al tronco del grande albero, nel punto
esatto in cui si trovava lui un attimo prima.
Non gli rispose.
«Ti ho chiesto dove stai andando o sei diventato anche sor-
do?» chiese con tono sprezzante e canzonatorio.
L’uomo continuò a fare scena muta, sperando di esasperare
il suo interlocutore e vederlo andare via indispettito.
Sapeva che non potevano fargli del male anche se potevano
rendergli la vita impossibile.
«Allora?».
L’uomo si girò e fece alcuni passi.
«Fermati subito!».
L’uomo non si fermò.
«Ti ammazzo se non ti fermi!» disse con la voce acuta di chi
comincia ad avere paura delle conseguenze.
«Non puoi» rispose l’uomo risoluto e lievemente divertito
dall’insicurezza che trapelava dalle parole a dal tono del suo
aguzzino.
«Non posso? Non posso? Posso eccome miserabile… lurido
avanzo d’uomo! E se tu stessi cercando di scappare?».
«Sai che non posso scappare» rispose con calma.
«No… non lo so. Potresti aver trovato un modo e io eseguo
solo gli ordini!».
“Ebete ragazzo senza midollo” pensò l’uomo.
«Torna indietro e chiuditi in quella schifosa bettola» rinca-
rò.
L’uomo tratteneva a stento la voglia di saltare addosso al ra-
gazzo vestito di grigio e con i capelli scuri interamente coperti
di gel, ma la speranza, quella che gli sussurrava che presto
sarebbe cambiato tutto, lo fece desistere. Serrando i pugni si
diresse verso di lui con determinazione.
Omar si irrigidì e lasciò la postura sicura e sciolta di poco
prima. Si mise in guardia come un liceale alla prima gara di
Karate.
L’uomo gli arrivò davanti e gli parlò quasi sfiorandolo.
«Arriverà il giorno in cui pagherai e lo sai bene».
«Stupido pazzo bastardo! Tornatene in casaaa!» gli gridò
schizzandogli il viso di saliva.
L’uomo lo fissò per un lungo momento. Era così vicino…
così solo e senza armi… avrebbe potuto ucciderlo facilmente.
Alzò il pugno vicino al viso e poi imprecando se ne andò ver-
so la strada di casa.

28/01/2008, Davide Longoni