CRISI (ECONOMICA E FINANZIARIA) IN “THE WALKING DEAD”

Quasi sette anni dopo l’inizio, mi chiedo se l’apocalisse al centro della trama di The walking dead abbia qualcosa a che fare con quella giudaico-cristiana, oppure se alluda ad altro. Opterei per la seconda ipotesi, qualcosa d’altro da specificare.

Lasciamo perdere le letture bibliche, o altre elaborate tecniche culturali come le religioni in generale.

L’apocalissi moderna e contemporanea mi pare susciti dubbi e problemi che ci portano lontano dall’escaton cristiano (ma non da quello marxista), avvicinandoci a questi ultimi 16 anni di insostenibile globalità.

Mi spiego meglio.

L’apocalisse raccontata da tanta fiction contemporanea (di cui The walking dead è la punta di diamante) rappresenta un mondo che, nonostante il crollo di quanto c’era prima, nonostante il vanificarsi di regole e procedure, continua a esistere, a sopravvivere. In un modo o nell’altro, ibridandosi, non smette di produrre eventi.

Ed è questo ciò che ci interessa.

Più che una fine definitiva e assoluta, l’apocalisse raccontata dai vari showrunner flessibili (prima Darabont, poi Glen Mazzara, adesso Scott Gimple) assume i contorni di una Krìsis, una malattia del bene comune, uno scioglimento dello Stato in qualcosa d’altro, arcana imperii da definire. Come avrebbe rilevato Gramsci (se avesse potuto seguire le gesta di Rick Grimes/Andrew Lincoln), il vecchio mondo è morto e il nuovo mondo non riesce ancora a nascere, lasciando i vari personaggi (e noi con loro) in un indefinito interregno popolato di zombi e predoni d’ogni risma. Ecco la crisi, il tempo critico raccontato con minuzia di particolari in The walking dead, sorta di doppio (neanche troppo metaforico) della grande crisi economico-finanziaria del 2007-2008, ma anche della crisi seguita all’11 settembre 2001, alle campagne disastrose in Iraq e Afghanistan, al terrorismo globale. Nella crisi che colpisce il gruppo di Rick Grimes (e del suo socio Shane Walsh) assistiamo a una rottura del tempo normale, a uno sbocco a un tempo bloccato, senza decisione. Al gruppo di superstiti non rimane (salvo illusorie speranze di isolare il virus e risolvere scientificamente il problema, cosa subito abbandonata già alla fine della prima stagione, con una chiusa di raro nichilismo) che sopravvivere alla meno peggio in un mondo in cui lo Stato (insolvente) non può più difendere i suoi cittadini dalla minaccia della paura. Come all’indomani del terrificante uragano che ha cancellato New Orleans, la legge e l’ordine sono svaniti e con esse le abitudini della vita quotidiana. La legge e gli avvocati, così come le astrazioni della filosofia (o dell’arte, come in un episodio della quinta stagione, dove si raccoglie un Caravaggio dai rifiuti e ci si chiede se abbia ancora un senso l’astrazione delle idee), servono a poco per resistere in un mondo primario, de-civilizzato, in cui solo i più ricchi (e qui il rimando sarebbe facile con quell’altro testo esemplare sulla “crisi” che è La notte del giudizio 1, 2 e 3, dove si dice una volta per tutte che ogni istituzione politica si forma al servizio dell’egoismo di una sola classe sociale, benestante e indifferente al destino tragico della plebaglia, dell’orda indistinta di poveracci, barboni, lavoratori, esodati, eccetera) hanno i mezzi per sopravvivere. Nelle giungle distopiche di questa grande narrazione moderna, la crisi corrode ogni cosa e non solo gli assetti economici della società, bensì intacca soprattutto la fiducia nel genere umano, nella capacità di costruire delle relazioni stabili e durature. I rapporti umani (e qui sembra quasi di citare lontane poesie degli anni ‘60 di Antonio Porta) si sciolgono, diventano ambigui, inaffidabili.

Puntata dopo puntata, Rick perderà sempre più la capacità di fidarsi degli altri, di nutrire speranza verso il suo prossimo. La pandemia di The walking dead non porta il pianeta alla distruzione completa, ma lo rende inabitabile per l’uomo, aumentando la crescente disuguaglianza tra le persone: il gruppo di Rick in balia degli eventi e il Governatore, che si è costruito un mini mondo di felicità – apparente – e vita confortevole, mantenuta solamente in quanto privilegi da non condividere col resto dell’umanità. Il Governatore, come un dittatore o un tiranno archetipico, assolve un compito straordinario ma pur tuttavia costituzionale della machina machinarum dello Stato; la nuova enclave planetaria che gli si rivolge ha ben compreso l’opportunità offerta dalla catastrofe: liberare il pianeta in evidente difficoltà dagli scarti umani, dalla troppa gente, dal sovraffollamento. Il Governatore divide l’umanità in gente meritevole di cura e in gente senza valore (la medesima cosa faranno i poliziotti deviati della quinta stagione), da lasciar fuori dalle porte chiuse e medievali della nuova città. Fuori dalle mura s’aggirano gli zombi, metafora planetaria di tutto ciò che si agita dentro le nostre paure “liquide”: attentati terroristici, al-Qaida, Isis, morti di fame, mullah, migranti, disperati a cui abbiamo già tolto tutto e non hanno nulla da perdere. L’ingresso nel paradiso moderno ce lo si deve guadagnare (e in questo Romero aveva già visto tutto, ancora una volta, quando aveva messo ne La terra dei morti viventi Dennis Hooper dentro un grattacielo iper-protetto, tagliando fuori tutti gli altri disperati del pianeta); una volta entrati scopriremo che anche lì, nella parte più sviluppata del mondo (Alexandria, la società quasi utopica della quinta stagione), la paura erode le sicurezze e i comfort, appena scalfita dallo scudo protettivo della democrazia superstite.

Oppure l’esperienza di Terminus (tanto ricercata e anelata dai numerosi componenti della famiglia di Walking dead dopo la diaspora nella seconda parte della quarta stagione) insegnerà definitivamente a Rick che l’inimicizia e l’ostilità regna sovrana tra gli uomini, e che le paure spingono le persone a prendere provvedimenti atroci per difendersi, trasformando individui potenzialmente positivi in orchi e killer cannibali. Lo stato sociale non esiste più, il welfare ha fallito, per lasciar posto a governi retti da un’economia globale di sopravvivenza, dove il più forte resiste a scapito dei più deboli (Terminus, ancora una volta, nella quinta stagione, stato globalizzato in negativo, quotidianamente in dissesto, tenuto insieme da una devastazione sociale, da individui senza più legami umani che depredano e sgozzano con un modus operandi che non è lontano dalla banalità del male dei lager nazisti). Dopo Terminus ci sarà spazio solo per la overclass globale di super ricchi e chic intellettuali della comunità di Alexandria, operante nella quinta e sesta stagione.

Dunque la crisi nella serie televisiva smaschera la vera natura della società globale, rende palese l’essenza ultima dell’autorità statale e chi è il vero sovrano, alla faccia dei lumi illuministici. Il velo che copre l’ipocrisia delle società avanzate si solleva quel tanto che basta per mostrare le grandi finzioni globalizzate, rivelando i perturbanti contrasti tra le classi sociali. Chi scrive è un adepto del marxismo e crede che dai massimi sistemi della prima rivoluzione industriale non ci siamo mossi poi molto. Globalizzazione, digitale, social media sono solo delle parrucche, delle finzioni dietro alle quali si agita imperturbato il capitalismo più gretto e gerarchico. Il lampo di una crisi smaschera brevemente questo ordine delle cose e ci ricorda chi comanda e perché, tutto il resto (democrazia rappresentativa compresa) è solo un palliativo per farci credere di vivere nel migliore dei mondi possibili. La crisi ci libera dalle false utopie (spacciate a piene mani dalle pubblicità e dalla tecnologia) e disegna una società in cui nessuno rinuncia ai propri interessi personalistici (via via che la serie procede è interessante al riguardo assistere allo sfarinamento morale di Rick, riportato sempre più allo stato di natura, quello del cane mangia cane). Le differenze tra forti e deboli riesplodono alimentando una finta competizione che si risolverà sempre a favore dei più ricchi (e quindi più forti), dando nuovo impulso a una re-distribuzione delle risorse planetarie.

Nel mondo immaginato da Darabont e compagni l’obsolescenza dei poteri democratici appare con evidenza: nessuno stato assistenziale, nessun ospedale, centro di accoglienza per profughi, niente di niente, solo isole, città stato, cintate, delimitate, perimetrate, il cui accesso è controllato da una casta che vive sugli svantaggi di chi rimane fuori. Precarietà, disoccupazione, povertà sono i segni di una geografia concreta di un potere indifferente, afasico, borghese.

A questa disumanità potrà aspirare anche il gruppo di Rick, dopo aver passato varie peripezie e dopo esser stati investiti dal benestare dei padri (e delle madri) autorevoli della comunità di Alexandria, o da nuovi ordini giuridico piramidali dominati dall’incubo perpetuo di un mercato del lavoro che vive sullo sfruttamento della forza lavoro dell’uomo, qui ridotto a macchina predatrice e razziatrice. L’America di The walking dead è un centro metafisico per l’irradiazione di molte altre crisi successive nell’immaginario collettivo; centro al cui interno ritroviamo i terremoti economico-finanziari di tanta altra letteratura catastrofica.

Davide Rosso