IL CORPO DEI SETTANTA

Se l’ampia contestualizzazione del personaggio oggetto della biografia è tratto fin qui distintivo delle opere di Stefano Loparco (si pensi ai libri su Iacopetti e Kinski), in questa sua prima fatica, Il corpo dei Settanta (2009), esso viene ancor più ampliato e sottolineato dall’aspetto fortemente autobiografico che l’autore esibisce senza mezzi termini in apertura: la sovrapposizione – anche per immagini – della figura di sua madre a quella di Edwige Fenech.

Sempre all’inizio, quando racconta dell’attrice ancora bambina, Loparco arriva quasi a sfiorare toni da romanzo… e poi l’aspetto analitico prevale con i suoi schemi consueti, ma in qualche misura riconciliati con l’esistenza individuale.

E’ importante chiederci perché.

Se il materialismo scientifico denuncia come falsa pretesa l’oggettività di un’analisi quando non si presenti innanzitutto nella forma dell’ammissione della propria soggettività di partenza, mi pare che Loparco sia in questo senso un materialista: dal mio punto di vista è intellettualmente onesto, so che se commetterà errori saranno in buona fede. Mi dice qual è il suo pre-giudizio, cosa posso pretendere di più?

Andando oltre il suo approccio metodologico, dallo studio dell’icona Fenech emerge come, a partire dal 1973 (Giovannona Coscialunga) e fino al 1979 (La poliziotta della squadra buoncostume), sceneggiatori e registi siano riusciti a produrre di lei e per lei un’immagine capace di creare un proprio pubblico di fans contemporanei idolatranti all’interno delle pellicole grazie ai diversi panni sociali che le vengono fatti indossare (solo perché scivolino via il più presto possibile, è chiaro): i personaggi dei suoi film (imprenditori, uomini politici, clienti di prostitute, mariti e giovani insoddisfatti, scolari, bidelli, insegnanti, poliziotti, soldati, burocrati e uomini di legge) sono i primi ammiratori di Edwige allo scopo di garantire – per il buon vecchio effetto imitativo che funziona sempre – un plebiscito maschile, ma questa volta in sala, ovvero nella realtà sociale dell’epoca, fatta di veri scolari, mariti insoddisfatti, soldati ecc. ecc. Il che, in termini di botteghino, sappiamo bene cosa significhi.

Infine, va segnalato come una gustosa chicca il capitolo dedicato a Nando Cicero, insigne rappresentante del cinema spazzatura, che trova una risposta inappellabile a livello di film d’autore solo nel capolavoro di Ettore Scola Brutti, sporchi e cattivi, casualmente (?) datato 1976, proprio come La dottoressa del distretto militare.

Gianfranco Galliano