IL CAMPING DELL’INSOMNIA

Sto per laurearmi (con tutti i patemi che questo comporta, visti i tempi) in Lettere, con una Laurea in Antropologia Culturale. Il tema, o uno dei temi centrali, della Tesi riguarda proprio le leggende urbane che, nel precedente pezzo scritto per la Zona, si concentravano sulla mitologia del Cropsey maniac nell’area dello Staten Island.

A questo punto, prima di continuare, faccio subito una deviazione per spiegare alcune cose.

Anzitutto volevo ringraziare Davide Longoni e la redazione della Zona per avermi accettato tra loro col mio umilissimo articolo. Fin da bimba sono appassionata ai film e alla letteratura horror. Lo slasher, in particolare. Crescendo mi sono iscritta a Lettere nella mia città, Vercelli, senza particolari idee sul futuro. La recente riforma della scuola ha aumentato i miei dubbi su una probabile carriera da prof. A 25 anni e una crisi spaventosa che ancora morde alle caviglie, ho visto troppi amici andarsene via. Non vorrei farlo, ma comincio a guardare all’estero con rinnovato interesse. Parlo bene l’inglese, ho parecchi conoscenti in giro per il mondo e anche qualche parente, eccetera. Comunque lo studio non è stato vano. All’università (e questo è il motivo della devizione) mi sono appassionata allo studio del folklore popolare e ho potuto leggere testi fondamentali come la “Metamorfosi del Teatro” di Fernando Mastropasqua. Proprio al corso del prof. Mastropasqua ho conosciuto due miei compagni di corso, anche loro di Vercelli: Daniele Vacchino & Davide Rosso.

Ricordo con infinito piacere le lezioni pomeridiane del Corso; Mastropasqua è un signore sulla sessantina, non molto alto, barbuto e dallo sguardo mite e intimidito. Sulle prime, la classe ridottissima (eravamo in tutto una decina), se la ghignava quando ad esempio gocciolava giù qualcosa dal soffitto e lui manco si accorgeva di avere la bella cravatta lordata di ruggine. Vacchino poi guidava le truppe dei rivoltosi. Studente brillante e cinico, credeva già pochissimo al suo futuro di Laureato e meditava di fantomatici colpi in banca o speculazioni finanziarie. I corsi (eravamo insieme anche a Latino 2 e Glottologia) lo annoiavano e ne contestava alla radice il senso. Sulle prime anche Mastropasqua gli parve un barone inutile strapagato per dire quattro cose (lui ha usato un’altra parola, però). Poi, man mano che le lezioni proseguivano il prof, con la consueta timidezza nei modi, ci dispiegava davanti i significati remoti dell’uso della maschera come riflesso perduto, Fata Morgana, metamorfosi di una fuga (dalla morte) impossibile; certe volte accendeva un proiettore appartenente ai moti del ’48 e mostrava diapositive sugli arcani di un remoto Carnevale lucano, o una sagra di paese, o ancora i fanes contenuti nella maschera di Pulcinella. Ho visto la critica feroce di Daniele appianarsi, i suoi occhi farsi conquistare da quelle materie. Alla fine io, lui e Davide ne rimanemmo toccati nel profondo. Scoprimmo inoltre di avere interessi comuni (l’horror) e paure comuni (il futuro, il lavoro). Loro finirono prima di me (io sono più piccina), si laurearono e, per un breve periodo, ci perdemmo di vista. Recentemente, l’argomento della mia tesi e i loro interessi letterari (oddio, se non scrivo “amatoriali” poi Davide mi insulta!) ci hanno riavvicinato. Ho scoperto per caso che scrivevano pezzi e racconti per il blog della Zona (che non conoscevo, sigh!) e ho contattato Daniele su Facebook. Ed eccoci qui! Loro hanno insistito perché pubblicassi alcune cose che ho scritto sulle leggende urbane ricavate dal nostro territorio. Volevano il pezzo sul tempietto di Saletta e le molte fole cresciute intorno a quel posto, vera meta di pellegrinaggi in odor di Satana nel vercellese. Io ho preferito rimandare e anticipare alcune scoperte che ho appena fatto e che si legano al mio primo articolo: The Cropsey film.

Così ho modo di dar sfogo alla mia passione per lo slasher e intitolare un articolo (mi pare magnifico, a voi?): Il camping dell’insomnia.

Uno sleepaway camp piemontese!

L’idea è nata dall’articolo su Cropsey e, ancor prima, da alcune ricerche fatte nella mia provincia.

Come molte leggende urbane, anche quella di Cropsey è universale e può attecchire ovunque, dallo Staten Island alla Baraggia!

Ma andiamo con ordine.

Anzitutto, cos’è una leggenda urbana?

Davide Rosso se ne è occupato qui sulla Zona in un articolo che metteva a confronto i film slasher coi racconti superstiziosi. Vediamo cosa ha scritto.

“Le leggende metropolitane sono, secondo un bellissimo studio di Sergio Benvenuto – “Dicerie e pettegolezzi”, Il Mulino, 2000 – delle dicerie che si propongono come saperi, come voci reali, camuffate da storie vere. Benvenuto spiega che le leggende metropolitane sono la vox populi, narrazioni orali, collettive, a cui chiunque può contribuire modificandone o alterandone dei passaggi, narrazioni che esprimono quello che la gente pensa, quello che la gente desidera, quello di cui la gente ha paura. Proprio come i film slasher, le leggende metropolitane sono storie appiattite, concise, semplici, basate sull’accentuazione di alcuni particolari per imprimersi meglio nella memoria. Le leggende sono ombre minacciose che si spalmano sul nostro quotidiano e corrodono le sicurezze delle nostre quiete vite consumistiche. Ci sono leggende su ogni cosa. Dal sesso (la coppia incastrata, l’AIDS, il rene sottratto), ai cibi o bevande tossiche (Nutella, Coca cola), al razzismo (i segni sulle porte opera degli zingari). Le urban legends tradiscono la nostra visione manichea del mondo, ossia il bisogno innato di dare un ordine e un senso alle cose, di trovare una spiegazione per tutto, anche per le cose più strampalate, al fine di non avere più zone grigie, ambiguità. Tuttavia, se da un lato la diceria, con le sue spiegazioni astruse, dà un ordine al caos, dall’altro crea un altro mondo, retto da regole imprevedibili e surreali, dove gli ossimori possono convivere, dove i bambini vengono rapiti da pullman neri e abusati negli scantinati delle scuole durante delle messe nere; dove l’esposizione ai thriller in giovane età può produrre comportamenti maniacali; dove dietro al crollo delle Torri Gemelle c’è un complotto; dove i supermercati esistono solo per permettere ai trafficanti di rapire i bambini e usare i loro organi; dove topi giganti, coccodrilli nel cesso e tarantole sulle banane la fanno da padrone; dove il rock serve a Satana per arruolare e corrompere i giovani. Un mondo insomma basato sulla chiacchiera, sul sentito dire da “un amico di un amico”, un mondo banale, non verificabile, credulone, che basa il proprio sapere su voci ufficiali, claque autorevoli come tv, giornali, uomini politici, internet. Una rete di fonti mai verificate o verificabili, ubique e fantasma. Flussi di sapere, di informazioni, di identità a cui ci affidiamo al 99% e che ri-costruiscono il mondo in cui viviamo. La diceria viaggia veloce nel mondo digitale. Magari non crediamo che se ci cade la Coca Cola per terra al mattino troviamo un buco, però possiamo credere che i Greci sono i soli responsabili della loro situazione. Che è stata la loro corruzione e la loro ingordigia a metterli in ginocchio, dimenticando che se si sono indebitati così tanto (e noi con loro) è stato anche per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumismo superfluo e dannoso, a vantaggio dei prestatori/usurai. Magari non crediamo alle sfortune delle catene di Sant’Antonio interrotte, ma possiamo credere al modello di sola virtù dei tedeschi, il cui successo economico è segno di nazionalistiche virtù contro gli inaffidabili greci. Magari non crediamo che le sigarette Camel contengono oppio, ma crediamo che grazie al job act le imprese creino posti di lavoro e non che il mercato sia sempre più flessibile e senza vincoli, coi lavoratori merce in mano alle aziende”.

Bene.

Ciò che ci interessa è proprio l’universalità delle leggende urbane. Il loro attecchire ovunque, adattandosi a tutte le geografie del mondo. Questo per dire che anche nella nostra piccola (e dimenticata) provincia vercellese, ho potuto rintracciare alcune leggende urbane di chiara origine americana. E mi ha fatto piacere indagare come si siano adattate tra aironi, ibis sacri e molinie.

In particolare ho riscontrato tracce evidenti di dicerie ascrivibili al Cropsey Maniac su cui Lee Haring & Mark Breslerman hanno scritto un articolo seminale sulla rivista New York Folklore del 1977.

Mentre lavoro a queste note, ho ancora parecchio da scoprire e mi riservo di farlo al più presto, sempre sulla Zona.

Quel che posso dire con certezza è che il Cropsey vercellese è ascrivibile a un’area limitata e precisa, ossia il Parco delle Lame del Sesia, quasi 1000 ettari su un tratto di quasi 10 chilometri attraversati appunto dal fiume Sesia e a cavallo tra le province di Vercelli e Novara.

Si tratta di un territorio continuamente interessato dalla dinamica fluviale e caratterizzato da meandri fluviali e da estesi ghiaieti, inframmezzati da isolotti. Lungo le rive si affacciano boschi, ultimi lembi delle antiche ed ormai scomparse foreste planiziali. Le radure ghiaiose e una serie di stagni, localmente chiamati “lame”, nati da meandri e rami abbandonati dal fiume, completano il quadro del paesaggio golenale.

Attorno al parco la garzaia delle risaie e la nostra brughiera baraggiva, sorprendentemente simile alle savane africane.

Proprio in quest’area Cropsey ha trovato un inedito terreno in cui allignare e io ne posso dare una testimonianza precisa, in quanto credo di essere stata testimone del fatto “reale” alla base del quale la leggenda urbana si è sviluppata.

Ma andiamo con ordine.

Il nostro Cropsey non ha bisogno di resurrectionism, di messe nere anatomiche o di manicomi euclidei dove, sotto i ferri del bisturi o le lenti fredde dei microscopi, si cerca di isolare i virus patogeni del male. Tutte robe da film che qui nella piana sarebbero paradossali. E non ha bisogno nemmeno di strane morti o sparizioni avvenute nel corso dei decenni. A vivificare le superstizioni locali basta la noia longitudinali del nostro Vietnam vercellese unita alla goliardia studentesca. Dicevo: andiamo con ordine. E torniamo indietro nel tempo. Non molto. Diciamo all’inizio degli anni 0, quand’ero una giovane studentessa liceale. A scriverlo è facile, eppure sembra un altro mondo. Vivevamo in un paese che era una sola e gigantesca leggenda urbana fatta di televendite, egoismo e un milione di posti di lavoro sfumati in un jingle. Era l’Italia dell’impero Fininvest e della seconda Repubblica già pronta a tracimare. Un mondo in cui Berlusconi era isolato nel bunker di Arcore dai processi e dai vizi; un mondo in cui il crollo greco era imminente; in cui l’astensionismo diffuso avrebbe portato all’esplosione del Movimento Cinque Stelle. Ero una ragazza e non guardavo oltre il mio naso. Per me tutto era colorato e musicale. Ogni giorno, intenso e spensierato. Eppure nascevano allora i rancori, le paure e le incertezze di questa crisi odierna. Noi ragazzi non ci pensavamo e il senso di disfacimento e frantumazione che gravava nella società nella quale ci stavamo formando non ci interessava. E così, mentre Berlusconi era pronto a farsi dimettere, noi boys architettavamo uno scherzo la cui eco sarebbe rimasta aggrappata alle infiorescenze del paesaggio. Uscivo con un gruppo di amici e amiche del liceo. E come ogni gruppo avevamo un nostro leader, Luigi – Per non ferire la sensibilità di nessuno, ho deciso di usare nomi di fantasia. Solo i nomi però! (n.d.A.) -. Lui era figlio di una famiglia in vista, molto ricco, ma di buon carattere, sempre gioviale, forse un po’ troppo incline al bere. Si usciva la sera per sfuggire un pochino dalle pressioni della famiglia e per esorcizzare gli impegni della scuola. Cercavamo un modo di ammazzare il tempo, consapevoli di vivere in un posto che non offriva granché, a parte qualche bar in cui ingozzarsi d’alcool. Per questo veniva voglia di rompere la routine dei pettegolezzi e degli amoreggiamenti, per lanciarsi in qualcosa di stupido e adatto ai nostri 18 anni. Così Luigi tirò fuori l’idea della villa di Albano e dello scherzo ai danni di Saverio, un ragazzo che da poco s’era trasferito in città. Saverio era il classico timido e impacciato. Non era brutto, anzi. Alto, un fisico forgiato dalle ore di decathlon e dotato di una intelligenza vivace, fantasiosa. Ciò che lo separava, agli occhi di noi ragazze, dall’essere un bel tipo era proprio la sua eccessiva riservatezza e un morboso attaccamento alla sua famiglia. Spesso, tra i nostri sorrisi di scherno, declinava le uscite per paura che i genitori lo aspettassero alzati. Saverio era troppo sensibile e delicato per noi ragazzacci della piana. Così a Luigi venne in mente di fargli uno scherzo. Le intenzioni non erano cattive, ma ci sembrava troppo ghiotto approfittare dell’incredibile ingenuità di Saverio. I suoi spessi occhiali neri, sopra i tratti delicati e femminili del viso, sembravano trattenere nelle lenti tutte le superstizioni e le dicerie di cui era pregno. Saverio credeva a tutto e a tutti. Luigi cominciò poco per volta. Una sera dopo l’altra. Conosceva i luoghi, le persone, la musica del caso. Mentre eravamo al solito bar, fecondi di birra e patatine, buttò lì delle Lame del Sesia e della villa abbandonata di Albano, un luogo inquietante intorno al quale sorgevano sinistre leggende. Naturalmente, a parte esser veramente abbandonata, la villa non era circondata da nessuna storia. Nessun omicidio. O sparizione. Luigi le inventò sul momento. Mi pare che parlò di ragazzine scomparse nei ’70, di resti umani ritrovati nel bosco e di animali parzialmente divorati. Continuò improvvisando una specie di film horror a metà tra Blair Witch e Halloween. Un proto-slasher tra le ombre acquitrinose degli ericeti. Andò avanti per un pezzo e ricordo gli occhi illuminati di noi tutti. Per farla breve andammo di notte ad Albano, alla villa. Saverio naturalmente era con noi e all’oscuro di tutto. Luigi usò il crik dell’auto per allargare le sbarre ferrose del cancello. Entrammo senza essere visti da nessuno, tanto la costruzione sorgeva fuori dall’abitato, a un passo dalla marea scura del bosco.

Ci inoltrammo nell’erba alta del giardino, silenziosi come indiani di pianura. Saverio, poverino!, continuava a girarsi verso la strada per controllare se arrivava qualcuno. Temeva di dover finire la serata in Questura, sotto lo sguardo carico di aspettative dei suoi. Ancor più temeva che nelle parole di Luigi ci fosse un briciolo di verità e che, in quel posto, fossero avvenuti fatti orribili. Se chiudo gli occhi ricordo il gracidare dei grilli e una atmosfera sospesa, quasi magica. Al di là di tutto, ognuno era affascinato dalla costruzione imponente e dalle persiane divelte e nere come bocche spalancate. Sotto una grossa quercia c’erano alcune lapidi scheggiate. Dalle scritte incise, capimmo che chi ci viveva doveva aver seppellito i cani nel giardino e la stranezza giovò al racconto macabro di Luigi. Ancora più intrigati dal posto ci spostammo sul retro della villa, dove trovammo dei gradini dissestati e una porta finestra sfondata che ci permise di entrare.

Muniti di torce, illuminammo un lungo corridoio con porte su entrambi i lati. Ovunque regnava il buio più impenetrabile, la polvere e il silenzio. Saverio, nonostante il fisico, tremava come una foglia e camminava robotico sui ceppi delle gambe. Da quando eravamo entrati nessuno lo aveva sentito proferire parola. Sembrava ipnotizzato dal corridoio, lanciava occhiate febbrili alle varie stanze e ci cercava in continuazione con dei cenni. Può servire a poco dirlo adesso, a tanti anni di distanza, ma provai pietà per lui e desiderai andarmene via. Credo che anche le altre ragazze provassero il medesimo sentimento. Tuttavia Luigi era al settimo cielo e, arrivati a quel punto, nessuno lo avrebbe fermato. E poi anche il resto del gruppo si divertiva un mondo e aspettava di vedere come sarebbe finita. Vedemmo vecchi mobili del primo Novecento, alcuni rovinati, altri ben conservati. Molta mobilia era accatastata al centro delle stanze, coperta da pesanti lenzuoli chiazzati. Notammo delle cassapanche, degli armadi con dentro dei vecchi abiti appesi a grucce marcite. Una scala in pietra, a spirale, ci fece salire al piano superiore e in una stanza trovammo una culla per neonati, delle bambole agghindate dalle ragnatele, insomma un perfetto set per un film horror. Ero affascinata da quegli oggetti che perdetti di vista Saverio. Dopotutto mi piaceva quel posto e il fascino di cripta che emanava. C’erano persino una sala biblioteca dalle pareti nude, forse un tempo foltissime di arredi e drappeggi. Ovunque si scorgevano i segni ripetuti di mutilazioni e vandalismi all’arredamento. Chissà quante cose erano state rubate da un posto come quello, ormai incustodito e alla mercé d’ogni ragazzino annoiato. Comunque, per farla breve, un suono metallico e cimiteriale salì dai piani bassi della casa. Era come una melodia inceppata, un miagolio funebre che sembrava avvicinarsi e salire verso di noi. Nessuno fiatò più. Basta risolini, strizzatine, bacetti. Anche Luigi si prestava alla comica. Fece spegnere ogni torcia e intimò a tutti di non muoversi. Potevamo sentire la polvere volteggiarci attorno per poi posarsi sulle forme sfasciate dei tavolini e delle finestre. La musica, sempre più somigliante al sorriso ghigno di un pazzo, saliva dalla scala di pietra e s’avvicinava. Non potevo vedere Saverio ma immaginavo bene cosa stesse passando. La sua presenza era tradita dall’ombra massiccia e da un mugolio soffocato tra i denti. Quasi, nella tenebra più fitta, potevo scorgere il bianco accecante della sua pupilla. Un rozzo cocomero bianco di terrore primordiale, primigenio. Alla fine il suono secco e maligno arrivò vicinissimo e Luigi gridò di accendere le luci di colpo. Fu allora che la leggenda del nostro Cropsey nacque. Ciò che vedemmo, anche se sapevamo già tutto, ci spaventò davvero. Una sagoma massiccia si ritagliava nella luce incerta dei faretti. Aveva dei capelli bianchi sparati attorno alla testa e un viso raggrinzito e grumoso, radici di carne allignanti nella faccia. Il resto era un abito rozzo, stagnante, con camicia di flanella e pantaloni grezzi. Ma ciò che più importava era l’ascia enorme che l’essere reggeva tra le mani. Un urlo primitivo eruppe da quella bocca sanguinante e noi con lui. Corremmo via e per certo pensai che qualcuno trascinasse con sé Saverio. Arrivammo alle macchine come un corteo di pazzi che sciamava nella notte. Forse svegliammo qualcuno e interrompemmo il sonno giusto dei lavoratori. Comunque ci sembrò che i fari delle auto rompessero la trama umida e nera del buio e fu come respirare di nuovo. Cercavamo di strozzare le risa, ma l’adrenalina ci rendeva simili a un corteo bacchico ebbro di vino e paure. Ce ne andammo prima di svegliare l’intero paese e attirare l’attenzione di qualche pattuglia. Nel delirio nessuno si preoccupò di Saverio e della sua salute. Ognuno diede per scontato che lui era lì, con noi, in macchina. Ognuno diede per scontato che qualcuno l’avesse trascinato via. Solo a Vercelli, a casa e il giorno seguente, ci rendemmo conto che non era così. Ancora una volta, lucidissimo e incupito, fu Luigi a dirci che nessuno aveva trascinato via Saverio. Nella fuga lo avevamo lasciato nell’oscurità della villa. Solo con la figura di Cropsey, o di quel che era. Naturalmente un nostro amico che ci aveva preceduto alla villa, pronto a balzar fuori e farci prendere un colpo, truccato con una maschera da cartoleria. La musica era solo un carillon suonato al contrario e amplificato dalla confezione di latta di un liquore. Noi lo sapevamo, Saverio no. Era rimasto pietrificato nella villa. Forse aveva aspettato che tutto tornasse in silenzio e la luce rischiarasse i suoi grandi occhi bruciati alla radice. Forse tornò a casa a piedi, strascinandosi nella mota dei campi. Forse la febbre gli penetrò nelle ossa e smosse qualcosa. So che non vedemmo più Saverio. Pochi mesi dopo lui e la sua famiglia lasciarono la città. Non sapemmo più nulla di lui. Solo Luigi, per pacificare gli animi, si informò e ci informò. Saverio era venuto a sapere dello scherzo, s’era fatto 4 risate e ci salutava tutti. La sua scomparsa coincideva soltanto con un trasferimento del padre, graduato dell’esercito. Noi tornammo alle nostre miti sere. Alla noia. Alla scuola. All’università. Alla vita adulta. E dimenticammo.

Ho scritto di questa lontana nottata un po’ per farvi capire come possa nascere una leggenda urbane e un po’ per sopire certi sensi di colpa verso Saverio. Sapere che quello scherzo non costò nulla di grave non mi rasserena. Molte volte, da una scemenza come questa, può nascere una tragedia, quindi non prendeteci da esempio. Oggi Luigi è un fotografo d’arte affermato e, nel leggere queste righe, si farebbe certe risate. Così credo, e spero, Saverio.

Comunque ciò che ci interessa è come da uno scherzo banale, sia cresciuta una leggenda che non ha nulla a che vedere col nostro territorio.

Me ne sono accorta cercando materiale per la tesi.

I primi germogli li ho trovati in un sito locale che si occupa appunto di raccogliere miti e leggende del luogo. In mezzo alla bambina bianca di Saletta, alle coppie di macchine parcheggiate nel piazzale del centro commerciale o la casa della strega di Strella, si parla appunto della villa abbandonata di Albano e di strani fatti che vi accadono a mezzanotte, il suono di un carillon e l’apparizione di un pazzo con l’accetta!

Incredibile vero?

Praticamente lo scherzo che ho vissuto io in prima persona.

Com’è possibile?

Quella sera, tranne Saverio, tutti sapevamo che sarebbe successo qualcosa. Nonostante ciò l’apparizione del finto uomo nero ci spaventò davvero. Molti di noi raccontarono l’episodio omettendo che si trattava di uno scherzo. La voce circolò velocemente fuori dal nostro gruppo e si perse nelle dicerie locali. Alcune volte, con altra gente estranea a quella notte, mi è capitato di sentir accennare alla villa di Albano e al suo carillon. Insomma eravamo direttamente responsabili di aver creato una leggenda urbana!

Altre notizie le ho pescate da un articolo della Sesia, un quotidiano del posto, di alcuni mesi fa. Si parla del cimitero di Darola (in verità abbastanza lontano da Albano) e di alcuni sfregi alle sepolture. L’argomento, nel vercellese, non è nuovo. Gli autori sono rimasti ignoti ma immagino pallidissimi adolescenti coi capelli sciolti sulle spalle, le pupille dilatate, con le magliette dell’heavy metal e un distillato di frustrazione e droghe per cancellare il lavoro nei supermercati, i padroncini d’azienda stronzi e i bocconi amari in famiglia. Ragazzi & ragazze non più tanto giovani, senza un lavoro fisso, bloccati in una attesa eterna davanti a maxischermi per le stragi virtuali dell’ultima Playstation. Non sono una sociologa e non mi dilungherò, però, da queste parti, da decenni, sono parecchi i cimiteri o le chiese abbandonate sfregiate da sedicenti satanisti. Anche quello di Darola presentava un copione già visto: fuori mano, lontano da centri abitati, interamente ricoperto e avvolto da arbusti e rovi, tanto che risulta difficile entrarvi; un cancello, delle mura assalite dall’edera, oltre le quali si apre lo spazio delle sepolture, le ultime risalenti agli anni ’60; una distesa di verde dalla quale spuntano le architetture cimiteriali; nella cappella interna i segni abituali delle candele nere, ombre caliginose di croci bruciate sui muri, ossa di animali e scritte. Tra queste un graffito che nulla ha a che vedere con la Bestia o l’Apocalisse. Solo due parole: “Cropsy” e “Albano”. Una coincidenza curiosa, vero?

Tuttavia il vero colpaccio l’ho fatto da pochissimo.

Per la precisione ieri, ed è stato il fatto che vi racconterò ora a spingermi nella stesura di questo articolo quasi autobiografico.

Da un po’ di mesi, per rilassarmi dalla scrittura della Tesi, ho preso l’abitudine a passeggiare lungo i sentieri del Parco delle Lame, a pochi chilometri dalla villa di Albano. Era da quella notte che non ci tornavo. Forse per un latente senso di colpa o boh? Comunque ho riscoperto quell’area meravigliosa, isolata dai trambusti cittadini. Camminavo e pensavo ai fatti miei, oppure mi perdevo a fare fotografie ai colori delle betulle, dei pioppi o della frangola. A tratti la via riemergeva su ampie distese di molinia, altre si inabissava sotto le cupole vegetali del bosco. In certi punti la luce faceva fatica a filtrare. Quand’ero stanca sostavo su una delle panche di legno da picnic del Parco, vicine ai casotti di legno adibiti per rimirare la fauna paludosa del fiume. Davvero sembrava di essere sul set parzialmente smontato di uno slasher americano, uno sleepaway camp dell’insonnia appunto!

Proprio ieri, al termine di una di queste passeggiate, mentre ancora rimuginavo su alcuni punti morti della Tesi, ho notato due ragazze che sostavano nell’area da picnic, intente a sbafarsi una torta comprata in qualche supermarket. Graziosissime, entrambe mi hanno invitato a unirmi a loro. Si chiamano Marika ed Erika. Marika aveva degli occhiali a farfalla enormi, camicetta e pantaloni di lino. Erika una camicia in voile e dei gins. Ci siamo messe subito a parlare. Abitano in un paese qui vicino e sono appena rientrate da lunghe vacanze in Grecia (“sai laggiù si sta benissimo e non è vero quel che dicono i Tgì, solo hai la rottura di portarti dietro rotoli di banconote nascoste nelle scarpe!”, “dormivamo nelle chiese, sì beh si chiama champing, praticamente trovi la chiave sotto una pietra vicino all’ingresso, hai il tuo sacco a pelo e dormi immersa in un fresco che non ti dico, sotto finestre affrescate e lume di candela!”) dopo gli esami della maturità. Marika si iscriverà all’Università. Erika s’è iscritta al collocamento e a varie agenzie interinali. Per mantenersi ogni tanto lavorano come comparse (“Facciamo le figuranti dalle superiori. Guadagni bene senza sbatterti in un bar di qui a farti toccare il culo dai vecchi! Praticamente c’è la scena in un ristorante e devi mangiare? Mangi. C’è una discoteca? Balli. Magari ti ritrovi in spiaggia in costume a Natale e devi fingere che sia agosto. Ti danno 90 euro lordi al giorno, se poi le riprese sono notturne allora c’è lo straordinario e se devi dire una battuta schizzi anche sui 150 euro! Ormai a fare la figurazione sono tutti esodati o disoccupati, tanto non bisogna essere belli o magri.”). Le ascolto parlare e sorridere. Ritrovo in loro la stessa limpida luce che avevo io a 19 anni. Quasi le invidio. Poi chiedono di me. Racconto della Tesi sulle leggende urbane e poi provo il colpo sulla villa di Albano. Loro abitano lì vicino, fingo curiosità e buttò lì qualche voce sulla strana storia di un tizio armato d’ascia. Subito Marika ed Erika saltano in piedi sulle panche e paiono incontenibili. Fanno di sì con la testa e dicono che quella storia le faceva palpitare fin da piccine. Dicono che il pazzo è armato della sua fedele ascia e nelle notti di luna esce dalla villa, aggirandosi nel bosco. Se senti il suono di un carillon e lo incontri allora muori. Chiedo se ci credono. Loro sorridono e spazzano le briciole dal tavolino. Da piccine sì, però certi vecchi si fanno il segno della croce quando passano dinanzi alla casa. Addirittura! Penso a quanta gente abbiamo infettato da quella notte di 7 anni fa! Nella versione delle ragazze, Cropsey (gli rimetto la “e” persa dai satanisti della Darola) esce tranquillo dalla villa e s’aggira nel cuore denso di ombre del bosco, magari soffermandosi su questi tavolini da picnic. Meraviglioso! Quasi non sto nella pelle e voglio tornare a casa e scrivere questo articolo. Marika deve leggermi nel pensiero perché ha un ghigno bizzarro e mi chiede se vorrei entrare a fare delle foto nella villa. Loro non ci sono mai state, e poi sarebbe un bel modo per chiudere i ponti coi legacci dell’infanzia, anche quelli più sciocchi, conclude Erika. Guardo l’ora e la frenesia di scrivere è troppo forte. Avrei voglia di varcare nuovamente quelle sbarre allargate da un crik, ma l’euforia adolescenziale ha lasciato spazio al noioso timore di farmi beccare da una pattuglia. Ho già passato quella fase. Mi scuso e lascio intendere che sarebbe meglio anche per loro sorvolare.

“Hai paura, non è così?” insinua Erika.

“Beh forse. L’uomo nero del bosco è laggiù, no?”

“Ma non è mezzanotte” cicaleggia Marika.

Hanno occhi accesi come mozziconi di sigaro.

Bramano dare un senso diverso alla monotonia.

Ormai non le fermerà nessuno. Hanno deciso.

Sono bambine affamate di tesori meravigliosi.

Ci lasciamo con una promessa vaga.

Io, codarda, me ne andrò a casa a scrivere.

Loro andranno alla villa e faranno delle foto coi cell.

Domani ci rivedremo nell’area picnic.

Giusto per scoprire se l’uomo nero le ha prese.

Ci salutiamo tra la ridacchia e promesse di chiedere l’amicizia su Facebook.

Ed eccoci arrivati alla fine di questo excursus su come uno scherzo giovanile possa trasformarsi nel tempo e divenire una vera leggenda urbana.

Ho scritto di getto quanto avete letto, cari lettori della Zona, e adesso non ci resta che aspettare domani per sapere se l’uomo nero delle Lame avrà fatto scempio dei corpi di Marika ed Erika o se qualcuno (cosa molto probabile) le avrà sorprese mentre cercavano di sgusciare tra le sbarre delle villa.

(…)

C’è ancora molto caldo per essere settembre.

Il cielo ha cacciato via ogni nuvola e il sole arde feroce.

Per ripararmi cerco il tendaggio pesante della selva.

Sono qui all’area picnic.

Nel camping dell’insonnia.

Sola nell’indifferenza del bosco.

Le ragazze non si vedono.

Fumo e mi perdo nei riflessi degli stagni.

Il tempo scorre e pozzanghere di luce scivolano lungo l’ossatura dei tronchi.

Scrivo sul cellulare queste poche righe.

Da un momento all’altro mi aspetto di alzare gli occhi e trovarmele di fronte.

Sfrontate e rivoltose, con un bottino di polaroid dall’antro dell’orco.

(…)

L’area picnic si sta facendo buia.

Forse stanotte la luna rimarrà impigliata fra i rami di qualche ontano.

Le ragazze non arrivano e ho voglia di quelle foto.

Sarebbero perfette per l’articolo.

Ho il mio cellulare.

Perché esitare?

E cosa potrebbero dirmi?

E’ un posto fatiscente, cosa ruberei?

Al diavolo!

Voglio quelle foto!

Marika ed Erika si staranno divertendo alle mie spalle.

Ma non sanno che ho visto nascere questa leggenda.

Che l’ho fatta crescere.

E la farò conoscere!

Basta scrivere!

Andiamo!

Carlotta Caron

Lo scritto di Carlotta Caron si conclude qui.

Purtroppo sappiamo quel che è accaduto dopo e preferirei non insistere troppo su fatti tanto brutali. Io e la Zona non vogliamo sfruttare le tragedie per fare pubblicità. Leggendo i giornali locali è possibile ricostruire l’epilogo di questa storia.

Carlotta arriva alla villa (che più correttamente è ciò che rimane del castello di Albano Vercellese, risalente al XV secolo e riedificato su precedenti fortificazioni), spia i riflessi delle grandi finestre a sesto acuto. Scatta delle foto (qui allegate assieme ad altri scatti fatti successivamente da Daniele Vacchino) alla torre di ingresso e si decide. Dentro, nei corridoi fatiscenti già superbamente descritti, Carlotta ha capito che un pezzetto del suo mondo interiore era vero. Non stava più scrivendo un articolo per la Zona o per la sua Tesi di Laurea. Non stava catalogando uno dei suoi amati film slasher americani. Non studiava più una delle infinite varianti della leggenda urbana del “Cropsey maniac”. L’uomo nero dei boschi era divenuto una macabra e ingombrante realtà! Probabilmente Carlotta trovò i corpi delle due ragazze inchiodati a una delle poltrone lignee della biblioteca. Col batticuore, o incurante del pericolo, s’era spinta fin lì, attraversando quei saloni pregni d’un sacello ottocentesco. Infine i corpi inghirlandati dai chiodi, esposti come bianchi fantasmi, devono averla paralizzata, resa incapace di chiamare aiuto, correre via. E gli ultimi brandelli della sua persona si sono sciolti quando l’ombra resa enorme dal terrore è scivolata alle sue spalle. Immagino un suono rugginoso sfuggirle dalla gola un attimo prima di girarsi e fissare quelle pupille non più umane o animali, né d’uomo o di spettro, indefinibili. In quegli ultimi istanti deve essere scivolata fuori dal mondo, in un ritmo runico di campane. La immagino afflosciarsi a terra e singhiozzare, gemere, priva del conforto pietroso del cellulare. Allora il mostro ha rullato l’ascia, l’ha sollevata e picchiata giù, forte come un rimbombo, un clangore vibrante nell’aria. Come un rintocco…

La scomparsa delle ragazze aveva messo in allarme le famiglie. Già erano partite le ricerche. Le loro biciclette abbandonate dinanzi alla villa accelerarono i ritrovamenti. Arrivarono le autoambulanze, la polizia, i curiosi. I cadaveri scempiati di Marika ed Erika erano stati parzialmente coperti da lenzuoli muscosi. L’uomo nero giaceva nella febbre d’un sonno profondo, lieto del palpitare della sua ascia. Fu trascinato via, dissolto dai cazzotti degli agenti. E Carlotta? La trovarono nel silenzio dell’ombra, con gli occhi di cristallo fissi sul pezzetto di luna impigliato nei finestroni. In lei non vi era più bellezza, intelligenza, ambizione. Solo un mare pacato di oblio e follia. Non disse nulla. Non proferì più parola. Ancora oggi, da quel pochissimo che trapela dai famigliari, sappiamo che i tortuosi sentieri della sua mente rullano soffocati sotto i veli delle medicine. L’uomo nero con l’ascia risultò essere quel Saverio X, vittima involontaria di uno scherzo adolescenziale. Luigi, l’amico di Carlotta, aveva taciuto a tutti loro quel che scoprì sul conto del ragazzo dopo che ebbe abbandonato la città. Tacque sull’internamento in manicomio, gli anni di riabilitazione, una guarigione incollata con pezzetti di psicofarmaci e i soldi del padre pezzo grosso nell’esercito. Anche Saverio non parlò mai, non spiegò mai a nessuno cosa gli era successo quella notte, cosa aveva visto. Non uno scherzo, non una vigliaccata o una leggerezza da liceali, bensì il volto nudo del male. Da allora una liquida luce fitta di tomba si installò in lui. Saverio uscì dalle cliniche, continuò le cure, lavorò persino come dipendente in un McDonald’s milanese. Le indagini scoprirono che da circa un anno, quando staccava dagli aromatizzanti, dai dolcificanti e glutammati del McMondo, il ragazzo prendeva la macchina e correva a Vercelli per immergersi nel regno notturno della villa e dei suoi sogni. Saverio tornava là dove tutto era finito (o iniziato) e cominciava una nuova vita, lontano dalle paure, dai pensieri, dagli allarmi della sua esistenza. Là, nel centro profondo di quei ruderi, il suono del suo cuore smetteva di strillare al crescere e decrescere della notte e delle sue minacce. Laggiù si tramutava in ciò che più l’aveva sconvolto. Dava corpo al suo incubo. L’uomo nero. “Cropsey”. Carlotta, senza saperlo, era andata incontro a un destino beffardo. Un contrappasso. Mi fermo.

Con l’intera redazione della Zona, auguro alla mia amica di trovare una via d’uscita dal labirinto in cui è caduta.

Nota finale di Davide Rosso

(fotografie di Carlotta Caron & Daniele Vacchino)