PREDESTINAZIONE E CONSUMO NEL CINEMA HORROR AMERICANO

Prendiamo tre film paradigmatici degli ultimi anni: Insidious, Dark Skies e Sinister. Pur trattandosi di opere differenti nella trama (due di fantasmi o demoni, uno di alieni), molti elementi semantici (e produttivi) li accomunano. I produttori sono i medesimi, segno di una certa inclinazione a concepire prodotti di qualità con un medesimo standard aziendale. A cosa mi riferisco? Vado a braccio, in quanto non ho voglia di rivedere i film in oggetto, quindi perdonatemi certe inesattezze.

In tutti e tre ci sono delle famiglie, delle tipiche famiglie americane. In ognuna di queste famiglie ci sono dei problemi alle spalle (un perturbante) che si credono superati. La famiglia di Patrick Wilson in Insidious ha appena fatto trasloco e ha bisogno di rimettere a posto le finanze. Lui lavora come insegnante in un college, quindi fa parte della classe media. Lei è una musicista o roba del genere, tuttavia deve riprendere confidenza col lavoro (per seguire la crescita dei figli è uscita dal giro). I soldi non sono molti e il lavoro non può mancare, dato che l’America è la patria della libertà, nondimeno se non hai una carta di credito sempre funzionante laggiù paghi pure l’aria. Quando iniziano i casini (demoni, apparizioni, figlio in coma) i contrasti tra i coniugi sono esasperati dalle difficoltà economiche. Lei, legando i guai alla nuova casa, insiste per trasferirsi e lui, più volte oppone un rifiuto legato ai costi della faccenda. Alla fine dovrà cedere e la famigliola opterà per una nuova abitazione decisamente meno fastosa della precedente, segno che stanno scendendo nella scala sociale. Comunque: perché tanti dolori e guai a una famigliola così? Gente bellina, pure simpatica nella loro moscia caratterizzazione (potrebbero essere la coppia giovanile che abita davanti a noi…). Perché tanti guai proprio a loro?

Cambiamo film.

Sinister con Ethan Hawke che fa lo scrittore di nera e ha alle spalle un luminoso futuro; adesso pure lui è alla canna del gas e la moglie lo sa. Se il nuovo libro non sfonda la carta di credito non pomperà più dollaroni e prestigio sociale. Lei, la consorte americana, al principio sempre disponibile, di carattere, tuttavia subordinata al marito, tranne quando è il momento di sfoderare le unghie e rivendicare il copyright sui figli, non appena cominciano i guai, inizia a dubitare sulla sanità mentale del consorte, successivamente a mettere i bastoni fra le ruote.

Quasi tutti questi film sono girati, interpretati, editati benissimo e funzionano alla medesima maniera, in quanto prodotti industriali fabbricati per soddisfare uno spettatore culturalmente colonizzato dai marchi, dai brand.

Dicevamo: Hawke fa lo scrittore, poi incappa nella storia del demone babilonese e sono cazzi amari, bene. Anche qui, finché si tratta di sostenere il maritino che sgobba (e guadagna) tutto bene, dopo moglie e figli remano contro e intuiscono che le cose potrebbero finire maluccio per tutti. Hawke, da rispettato cittadino, finisce pure per avere dei problemi con la Legge (e in America è meglio non scherzare con gli sceriffi dagli occhiali a specchio). Ripeto: Hawke e mogliettina sono ceto medio/alto in caduta libera.

Passiamo a Dark Skies.

Inizio canonico con viali e quartieri americani da benessere diffuso inquadrati da un dolly a salire e musichetta confortante (come a dire: ehy, questo è il paradiso, adesso te lo facciamo intravedere, poi ti esibiamo cosa potrebbe succederti se non fai il bravo e finisci fuori dai binari). Ognuno con la sua villetta, cane, macchina, moto falciatrice e giornale buttato dal solito ragazzino in bici. Benessere. Ceto medio. La famiglia Barrett è in crisi: lui non lavora da parecchio (è un architetto o roba del genere), lei vende case, è una libera professionista, tuttavia non sufficientemente scaltra e cinica per un lavoro simile. Lei, Lacy, è l’insopportabile fighetta di legno. Mi spiego. In principio, prima dei segni inquietanti, prima degli incubi, degli alieni eccetera, quando Daniel (il marito) cerca un lavoro e si fa il mazzo preparando le salsicce in giardino per gli amici (insomma per rispettare le apparenze, le convenienze sociali a cui la donna tiene molto), Lacy dice di amarlo e di essere fiera di lui; dopo un ennesimo colloquio fallito, Daniel, comprensibilmente, nasconde la cosa alla moglie e le dice di non preoccuparsi; lei lo smaschera e pata-bum!, niente più sesso, niente più grigliate, niente più di niente; solo litigi e musi lunghi, coi due adolescenti figli nelle camerette ad ascoltare e interiorizzare la sconfitta della middle class, quasi un monito per il loro futuro lavorativo. Poco dopo, Daniel, inaspettatamente, riesce a trovare un ottimo impiego, allora Lacy riprende il corollario di premi: sesso, cenette, affetto e fiducia nel progresso, nel mondo e nel suo uomo. Bene.

In tutti e tre i film c’è, al centro della vicenda, mostri a parte, una famiglia della middle class in difficoltà economica. La crisi (non avere i soldi per pagare il mutuo, la macchina, la benzina, la scuola ai figli) si riflette sui rapporti umani e li corrompe.

In ogni pellicola, la caduta nel vortice della disgrazia è scandita da tappe identiche, sovrapponibili con la carta velina: un inizio roseo, i primi sintomi del male, l’ottimismo di facciata di tutti i membri del nucleo familiare, le prime difficoltà, la paura di perdere il controllo, le liti tra i vari componenti, le incomprensioni, la rottura dell’armonia, l’inesorabile sconfitta finale.

In ogni pellicola, alla fine, i protagonisti, nonostante una eventuale unione ritrovata (Dark Skies) perdono tutto.

Perché questo pessimismo?

Perché fa parte della predestinazione calvinista insita nella morale americana. I piccoli borghesi non sono capaci di tenersi un lavoro (Daniel), o non sono rapaci come dovrebbero (Lacy quando non vende una casa e si lascia andare a confidenze e sincerità inopportune in un venditore senz’anima), oppure hanno sacrificato il proprio talento per i figli (la Renai di Insidious), o ancora sono dei mediocri rintanati in un impiego di poco prestigio (come Wilson che fa l’insegnante anonimo in un college anonimo). Hawke è l’unico ad aver conosciuto un certo successo, tuttavia non ha saputo rinnovarsi, continuare a espandersi, a crescere economicamente, tutte qualità del vero money man, della vera azienda totale. Tutti i personaggi sono incapaci di tenersi il lavoro o aumentare i profitti e salire i gradini del consorzio civile. Per questo si espongono alle insidie dei morti, dei demoni babilonesi o degli alieni giocherelloni. La predestinazione calvinista dice che ogni uomo, fin dalla nascita, è destinato da Dio alla salvezza o alla dannazione: e come fa l’interessato a saperlo?

Semplice: se nella vita avrà successo (e per successo si intende la fortuna negli affari, nel lavoro, nella vita sociale), allora vorrà dire che, dall’alto, Dio strizza il suo occhio benevolo. Cavolo!

E agli altri? Solo mazzate.

La predestinazione calvinista è smaccatamente presente in questi lavori, intrisa in ogni immagine.

E come sono raccontate queste storie?

Appunto allo stesso modo, perché sono la medesima storia,  la storia di una punizione: la punizione dell’incapace. Il lupo di Wall Street non verrà mai scocciato da un demone babilonese, perché, anche se in modo poco ortodosso, lui al successo ci è arrivato e saprà sempre rialzarsi da ogni tonfo. Thor, l’Uomo Ragno, Hulk o altri super-uomini a stelle e strisce non hanno paura degli alieni (o degli imprevisti della vita); loro li prendono a calci nel culo gli imprevisti.

E’ l’inetto, sembrano suggerirci questi movie, a doversi preoccupare;  è come se dicessero: cari europei, mentre vi pappate i nostri lavori “culturali”, meditateci sopra ben benino e occhio: quando vi chiediamo di lavorare di più, di non rompere i coglioni con le tutele sindacali, di accettare qualunque tipo di contratto precario, voi dovete solo accettare o altrimenti avete visto come finirete, con la moglie e i figli che vi si rivolteranno contro e i demoni a tirarvi le coperte!

Vi conviene stare al passo, sgobbare come servi della gleba e non alzare mai la testa; al massimo vi concediamo di consumare qualche gadget tecnologico, qualche nuovo cellulare, i-phone, i-pad, qualche televisore ultrapiatto con cui vedervi i nuovi film istruttivi che, sotto forma di fiabe nere, vi racconteranno i nuovi pericoli per chi si avventura fuori dai sentieri tracciati dai neon del mondo globalizzato.

Alieni, demoni e fantasmi sono solo pupazzi al soldo delle multinazionali dell’immaginazione standardizzata. Provate a confrontare i tempi narrativi di questi film con quelli scellerati, trash, noiosi magari, dei vecchi film.

Mettete Dark Skies a confronto con, poniamo, un qualsiasi Rollin, Franco, D’Amato, Garrone, Al Adamson eccetera.

Da una parte abbiamo delle storie studiate a tavolino con degli algoritmi narrativi, scansionate in ogni minima parte per non avere tempi morti, scene brevissime, ultra veloci, con la macchina in continuo movimento e la scena satura di riferimenti tecnologici e sorretta da una recitazione perfetta ma fredda e da musiche enfatizzanti adatte a un pubblico che non riesce a tenere l’attenzione per più di 10 secondi.

Dall’altra opere sgrammaticate, con dialoghi a cazzo, interpreti deliranti, trame impalpabili e improvvisate e registi con le traveggole che girano per fare metraggio.

Eppure quei film erano figli di una residua libertà culturale che ancora opponeva il nostro dna latino all’uniformità di un dettato (narrativo, economico) che vorrebbe tutti uguali nei bisogni ma non nei diritti. Consumare i nuovi film vuol dire consumare un bisogno comune di riconoscimento, una accettazione implicita del nuovo mondo globalizzato e delle sue storture economiche. Il vecchio cinema opponeva una follia, una philia irriducibile che trovava negli sporcaccioni da cinema di periferia la propria elite culturale.

Prepariamoci a nuove invasioni aliene: i tempi stanno peggiorando (o migliorando come vi diranno nei tg!).

Davide Rosso