CLIFFORD DONALD SIMAK

Clifford Donald Simak nacque a Millville, nel Wisconsin, il 3 agosto 1904: figlio di John Lewis Simak, originario boemo, e di Margaret Wiseman. Scrittore, giornalista, ma soprattutto autore di fantascienza, nella località rurale di Millville egli visse tutta la sua giovinezza e ciò spiega l’abbondanza degli scenari agresti, tipici d’altronde di tutto il Midwest americano, che delineano il corpus delle sue opere letterarie.
Simak studiò giornalismo all’Università del Wisconsin e, a partire dagli anni Trenta, iniziò a collaborare a diverse testate in Michigan, Iowa, North Carolina e Missouri. Fra tutte però, egli legò la sua professione di giornalista principalmente al “Minneapolis Star and Tribune”, per il quale lavorò a partire dal 1939 e sino al 1976, occupandosi regolarmente di una rubrica settimanale di divulgazione scientifica. Divenne fra l’altro editore del “Minneapolis Star” nel 1949 e coordinatore del “Minneapolis Tribune” e del “Science Reading Series” nel 1961.
Sposatosi il 13 aprile 1929 con Agnes Kuchenberg, ebbe due figli: Scott e Shelley.
Simak iniziò a scrivere fantascienza per le riviste pulp nel 1931, ma uscì dal settore nel 1933 perché non soddisfatto dell’ambiente. Il suo racconto d’esordio fu “Il mondo del sole rosso”, pubblicato su “Wonder Stories”. L’unica opera “di genere” scritta invece fra il 1933 e il 1937 fu “Il creatore” (1935), sul periodico “Marvel Tales”, una notevole storia con implicazioni religiose, piuttosto insolita nel panorama della fantascienza dell’epoca: in essa s’immagina che l’idea dell’onnipotenza divina sia falsa, e che anzi il Dio venerato da gran parte dei terrestri non sia altro che l’abitatore di un universo più avanzato, pur sempre raggiungibile per mezzo di una nave interstellare.
Quando John W. Campbell iniziò a ridefinire il genere verso il 1937, Simak tornò alla fantascienza come collaboratore regolare della rivista “Astounding Stories” e vi rimase fino al 1950. Simak è dunque uno dei protagonisti assoluti della cosiddetta Golden Age (o Età d’Oro) della fantascienza statunitense. Le sue prime pubblicazioni, come il romanzo “Ingegneri cosmici” (1939, ma riveduto poi nel 1959), seguivano la tradizione del sottogenere della superscienza perfezionato poi da E.E. “Doc” Smith.
Ben presto, tuttavia, egli seppe sviluppare uno stile molto personale, imponendosi proprio per quella sua tendenza – di rado riscontrabile efficacemente tra gli autori di genere degli anni Quaranta e Cinquanta – a incentrare lo svolgimento delle storie su aspetti più umani che tecnologici, cosicché le stesse descrizioni d’ambiente, fra scenari rurali e atmosfere rarefatte, fanno da sfondo al succedersi di sentimenti, ansie, aspirazioni, mirabilmente accompagnati da una scrittura che si è giunti a definire “gentile” e “pastorale”, o anche, secondo le parole di Asimov, «semplice e immediata, assolutamente limpida».
Giusto per farci un’idea, il tipico alieno tratteggiato da Simak è più facilmente un personaggio tranquillo, riflessivo, antieroico o addirittura filosofo, come il Juwain di “Anni senza fine”, piuttosto che un “cattivo” intento magari a invadere il pianeta, secondo un’immagine più ossequiosa alla tradizione degli anni formativi della fantascienza.
Negli anni, lo scrittore rese anzi l’idea della “fratellanza universale” uno dei suoi temi più cari, e non è raro incontrare nei suoi scritti veri e propri tentativi di formulare un’etica “cosmica”. Il tema viene sviluppato da Simak a partire dall’idea che essa sarebbe possibile se, in futuro, si diffondessero i poteri extrasensoriali, in primo luogo la telepatia: secondo lui questi aiuterebbero infatti a superare i problemi di incomprensione e incomunicabilità, portando le specie viventi a un certo grado di empatia tra loro.
Ma andiamo con ordine. Il primo romanzo di Simak a ottenere una vasta risonanza fu “Oltre l’invisibile” (pubblicato nel 1951), il cui protagonista è un uomo che viaggia nel tempo: l’opera rappresenta un godibilissimo esempio di equilibrio fra i retaggi della space opera, con le sue suggestioni avventurose e il tipico sense of wonder dei suoi primi scritti, miscelato con le aspirazioni umanistiche e intimistiche che rappresentano il perno dell’originalità e, in genere, dell’interesse, dello scrittore.
Il suo romanzo più noto, da alcuni riconosciuto addirittura come “il manifesto della moderna fantascienza”, è però il già citato “Anni senza fine” (1952, conosciuto anche col titolo originale “City”), formato da una sequenza di otto racconti, scritti nell’arco di tempo compreso tra il 1944 e il 1952, più un epilogo, aggiunto nel 1973 e presente dunque solo nelle edizioni successive del libro. La genesi di quest’ultimo racconto prese il via nel 1971, in seguito alla morte di John W. Campbell, quando in modo del tutto spontaneo alcuni di coloro che in tanti anni ebbero modo di conoscerlo e che furono casomai da lui stesso lanciati come scrittori, attraverso la rivista «Astounding Stories», decisero di onorarne la carriera e la dedizione. Autori come Gordon R. Dickson, Poul Anderson, Alfred Bester, Mack Reynolds, Isaac Asimov, lo stesso Simak e diversi altri diedero così vita a un libro nel quale ognuno scrisse un racconto o un romanzo breve. Il libro ebbe lo stesso titolo della gloriosa rivista diretta per tanti anni da Campbell, della quale fu considerato l’ultimo numero. Fu in quell’occasione che Clifford scrisse “Epilogo”, venti anni dopo la pubblicazione della prima edizione del suo capolavoro.
Vincitrice dell’International Fantasy Award nel 1953, “Anni senza fine” è la storia, e l’epopea, della famiglia Webster, a partire dal prossimo futuro fino ad attraversare innumerevoli secoli. Le razze che vivono la Terra subiscono trasformazioni e mutazioni, si affacciano di volta in volta nuovi tipi di civiltà mentre il pianeta sembra vivere più d’una rinascita. Metafora delle afflizioni dei nostri tempi, il libro è ricco di simbologie delicate e umanamente identificabili con le angosce dell’essere umano moderno, con i suoi sogni e le sue paure.
Filo conduttore di tutto il libro, intessuto fra tratti fiabeschi e mitici, è Jenkins, uno dei migliori personaggi di tutta la bibliografia di Simak. Jenkins è l’automa/maggiordomo devoto alla famiglia Webster, che assume le funzioni di memoria storica dell’umanità, fino a diventare l’unico riferimento realmente “umano” del libro nonché il protagonista malinconico dell’ultimo “Epilogo”.
Durante la stesura del romanzo, Simak pubblicò anche una serie di storie di guerra e western, sempre per riviste pulp, ma più interessanti da un punto di vista letterario sono invece le altre narrazioni fantastiche di quel periodo: “L’anello intorno al sole” (sempre del 1952, tradotto in passato anche come “Mondi senza fine”), è un riuscito romanzo di mutazioni e di poteri più o meno illimitati, spunti di riflessione sociale e psicologica, mentre nel racconto lungo “L’aia grande” (1958, vincitore del “Premio Hugo”), si assiste alla trasformazione di una casa rurale nella via d’accesso per mondi ignoti.
Simak continuò a scrivere opere di successo, e qualitativamente apprezzabili, lungo tutti gli anni Sessanta.
Nel 1961 esce “Pescatore di stelle”, in cui il protagonista riesce a sondare le profondità dello spazio con le sole forze della mente. L’anno successivo viene pubblicato “Camminavano come noi”: ironico e movimentato, intreccia le problematiche terrestri con gli oscuri disegni di razze aliene, le cui “speculazioni edilizie” non vogliono essere altro che lo specchio dell’accanimento dell’uomo sui suoi stessi simili.
Nel 1964 ottenne per la seconda volta il “Premio Hugo” grazie a quello che, insieme con “Oltre l’invisibile” e “Anni senza fine”, è generalmente considerato uno dei suoi capolavori: “La casa dalle finestre nere” (1963). Il protagonista di questa sorta di libro utopico è un guardiano solitario, incaricato del mantenimento dell’unica stazione galattica della Terra, nell’eventualità che arrivino viaggiatori da altri mondi.
L’isolamento delle masse e il loro conseguente confronto con ambienti ostili sono invece gli argomenti alla base de “Il villaggio dei fiori purpurei (1965) e anni dopo anche de “La bambola del destino” (1971).
Il viaggio nel tempo si ripropone al centro della storia con “Infinito” (1967), i cui uomini si fanno ibernare nella speranza che venga un giorno scoperta la ricetta dell’immortalità. In “L’ospite del senatore Horton” (sempre del 1967) vengono riportate in auge inquietudini legate all’alterazione della natura umana.
Con “L’immaginazione al potere” (1970) Simak propone uno straordinario esercito della fantasia come unica soluzione all’imminente rovina del mondo reale. Nel romanzo “I giorni del silenzio” (1973) invece ci viene presentata una Terra esanime, trasformata ormai in un colossale cimitero dove i viaggiatori spaziali aspirano a essere sepolti.  
Se “La riserva dei folletti” (1968), “Fuga dal futuro” (1973) e “Pellegrinaggio vietato” (1975) rappresentano soprattutto validi esempi di science-fantasy, va notato che ancora negli ultimi romanzi di Simak si fa sentire il problema dello scontro uomo-natura, del conflitto fra progresso e tecnologia da una parte e umanità e valori dall’altra, talvolta visto in maniera visibilmente pessimistica, laddove Simak pare pensare che nell’essere umano alcuni impulsi distruttivi siano innati e inevitabili e che per alcuni dei suoi errori non ci sia rimedio.
La qualità delle produzioni più lunghe di Simak iniziò a diminuire negli anni Settanta, insieme con il deteriorarsi delle sue condizioni di salute, anche se i racconti brevi continuarono a essere ben accolti. Un esempio per tutti è “La grotta dei cervi danzanti” (1981), che fu omaggiato, ultimo fra i suoi scritti, da diversi premi del settore.
Tra gli ultimi titoli di Simak, procedenti in parte in tale direzione, vi sono “Eredità di stelle” (1977), “Mastodonia” (1978), “I visitatori” (1980), “Il Papa definitivo” (1981) e “Il cubo azzurro” (1982).
Fra mille difficoltà, dovute alla precarietà della sua salute, Simak riuscì, nel 1986, a completare e pubblicare il suo ultimo romanzo, “La strada dell’eternità”. Morì due anni dopo al Riverside Medical Center di Minneapolis il 25 aprile del 1988, all’età di 83 anni.

Durante la sua carriera fu insignito di numerosi e prestigiosi premi della letteratura fantastica e fantascientifica come il “Premio Hugo”, il “Nebula” e il “Grand Master Award” alla carriera, ricevuto nel 1977.

04/12/2009, Davide Longoni