ASIA ANDERSON E I FANTASMI DAL TEMPO

Proseguono i nostri consigli letterari per arricchire la vostra personale biblioteca del fantastico, presentandovi “Asia Anderson e i fantasmi dal tempo” (208 pagine; € 12,00) di Marco Bonafede, pubblicato da Navarra Editore nella categoria “Narrativa”.
Cominciamo con la trama. Una figura di donna appare misteriosamente dal passato: fenomeno paranormale o realtà? Mark Smith, medico psichiatra, si trova, suo malgrado, coinvolto in un’indagine inquietante. Cosa sono realmente i fantasmi? Chi è Asia Anderson? Mark Smith è uno psichiatra inglese che lavora nel consultorio pubblico di Beckett Street a Oxford. È uno strizzacervelli scettico; dice di essere “praticante ma non credente”, perché esercita la professione ma non ha fiducia in nessuna delle teorie correnti sul funzionamento del cervello. Una mattina un paziente anglo-indiano, Arun Majumdar, gli racconta un episodio che ha dell’incredibile: dice di avere visto una figura di donna dall’aspetto ottocentesco venire fuori dalla parete della sua living room… Dopo avere esaminato accuratamente il caso, il dottor Smith si ritrova coinvolto in un’indagine su un fenomeno paranormale sul quale si affacceranno inquietanti spiegazioni razionali. Con cosa possono essere identificati i fantasmi? Quale può essere la loro vera natura?
Un romanzo con l’incipit di un medical thriller che vira verso un fantasy scientifico, per finire in una spy-story fantapolitica. Senza perdere neanche una virgola di credibilità.
Marco Bonafede è nato a Cefalù nel 1959. Ha scritto e disegnato il libro a fumetti “La psicoanalisi spiegata al popolo” (Glenat Italia) e i romanzi “L’ultima notte di Crowley” (Dharba Editore) e “Mutande Virtuali” (Muzzio Editore).
Sentiamo cosa ha da racontarci in merito alla sua ultima fatica, “Asia Anderson e i fantasmi dal tempo” appunto.
QUALI SONO LE IDEE DI BASE DA CUI SI SVILUPPA “ASIA ANDERSON”?
Riguardo alla storia, preferirei non scoprire le carte…
Posso dire che è ambientata in Inghilterra nell’anno 2005 e inizia con uno psichiatra che ha a che fare con una storia di fantasmi. Preferisco non aggiungere altro.
Per quanto riguarda invece lo stile, l’idea è stata mischiare diversi generi letterari, scrivendo un romanzo che in realtà, alla fine, li tradisce tutti. Credo che quando si racconta una storia non ci si debba solo preoccupare d’incontrare il gusto del lettore, ma anche di stuzzicarlo, modificarlo, proponendogli nuovi sapori.
QUANDO È NATO IL PROGETTO “ASIA ANDERSON”?
Una decina di anni fa, ma non sapevo come svilupparlo. Poi, tre anni fa, c’è stato un momento molto particolare della mia vita: mia moglie era incinta e io non uscivo quasi più di casa, la sera. Così ho iniziato a scrivere e ne è uscito fuori il romanzo, che ovviamente dedico a mia moglie e a mia figlia. Anche se è meglio che lei non lo legga prima di avere compiuto 14 anni…
C’È UN ROMANZO A CUI PARAGONERESTI “ASIA ANDERSON”?
I libri di narrativa, a mio parere, sono tutti legati da complesse reti di parentela e sono influenzati non solo da altri romanzi, ma anche dai generi musicali e dal linguaggio cinematografico. Tuttavia, il criterio della somiglianza può essere un’indicazione utile per il lettore, può evitargli la delusione di ritrovarsi a leggere un libro che non gli interessa. Direi quindi che “Asia Anderson” è un “Harry Potter” per adulti.
NEL SENSO CHE È UN ROMANZO SULLA MAGIA?
No. Al contrario. “Asia Anderson” è un romanzo sulla razionalità. Ma come nella serie di “Harry Potter” l’elemento fantastico − non magico − è predominante. In ogni caso, io credo che la razionalità non sia affatto in contraddizione con la fantasia.
Ed ora, grazie alla gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo di seguito in versione integrale il Capitolo 1… giusto per darvi un’idea di cosa vi aspetta.
 
Perché i fantasmi attraversano i muri?
Alla fine era solo questa la domanda giusta.
Da tutta la storia ho imparato che non esistono risposte giuste, che tutte le risposte sono imperfette e parziali; ma esistono le domande giuste, quelle che aprono nuove prospettive, quelle che cambiano la visione che si ha del mondo.
Il mio coinvolgimento nella vicenda cominciò giovedì 8 settembre 2005, senza che avessi mai lontanamente sospettato di poter avere un ruolo in simili questioni.
Da dodici anni lavoravo come psichiatra presso il consultorio pubblico di Beckett Street a Oxford, in una zona periferica della città.
Maggie Williams, l’infermiera dell’accettazione, depose sul mio tavolo le cartelle dei pazienti che avrei dovuto visitare quel giorno. Me ne porse una:
– Dottor Smith, questa è l’accoglienza. Il paziente è già arrivato.
– Grazie Maggie.
Nel gergo psichiatrico chiamiamo accoglienza il primo contatto con qualcuno che richiede di essere visitato. Quasi sempre mettiamo le accoglienze prima di tutte le altre visite: è il momento in cui lo psichiatra è più fresco, non ha ancora ascoltato altri pazienti e si presume possa dedicare il massimo dell’attenzione alla persona che incontra per la prima volta.
Diedi una rapida occhiata ai dati anagrafici che erano già presenti in cartella: Arun Majumdar, 38 anni, celibe, genitori viventi, un fratello ed una sorella in apparente stato di buona salute, nato a Londra, residente in Parks Road n. 4 ad Oxford, occupazione ricercatore, nessun contatto precedente con psichiatri pubblici o privati, nessun ricovero in reparti psichiatrici, mai assunti farmaci psichiatrici.
Majumdar, “un cognome indiano”. Trentotto anni, “un anno più di me”. Occupazione ricercatore, “non specifica in quale settore”. Guardai più giù, dove era indicato il motivo della visita come lo aveva espresso il paziente: “Riferito singolo episodio allucinatorio circa due settimane fa”.
Ho il vizio di corrugare visibilmente le sopracciglia quando qualcosa richiama la mia attenzione: le allucinazioni richiamano l’attenzione di qualsiasi psichiatra, perché quasi sempre sono un sintomo di patologie molto gravi. Ma, d’altro canto, è molto raro che un paziente dica di aver avuto delle allucinazioni,
perché quasi mai ne è consapevole.
– Fai accomodare il paziente.
Maggie annuì e uscì dalla stanza.
Quando visito le persone cerco di controllare la mia abitudine ad aggrottare le sopracciglia e di mantenere col paziente un’espressione serena e imperturbabile. Molti miei colleghi portano la barba o i baffi: credo che li aiuti a nascondere le espressioni del viso quando parlano coi pazienti. Io ne faccio a meno, non perché sia uno psichiatra migliore, ma perché sono un buon giocatore di poker. Trovai una posizione rilassata e sistemai la cartella dell’accoglienza di fronte a me sulla scrivania.
Arun Majumdar era alto per essere originario dell’India, magro, giovanile. Era vestito con un elegante completo grigio ma non portava la cravatta. Aveva una folta capigliatura nera e inforcava degli occhiali tondi con la montatura sottile sul naso aquilino. Entrò con un’andatura tranquilla ed elastica e si fermò
di fronte alla mia scrivania.
– Buongiorno, sono il dottor Mark Smith. Si accomodi.
Majumdar ricambiò il mio saluto e si sedette.
– Perché ha richiesto di essere visitato?
Majumdar si schiarì la gola; notai una fugace espressione di inquietudine nei suoi occhi.
– Dottor Smith, devo confessarle di essere enormemente imbarazzato. È accaduto un episodio che mi ha fatto dubitare delle mia capacità mentali, un episodio sconcertante e inspiegabile.
Il suo inglese era perfetto, assolutamente privo di inflessioni.
– Mi racconti cosa le è successo.
– È accaduto nella notte del 27 Agosto scorso, a casa mia, tra le 22.00 e le 22.10. Posso indicarle questo orario perché dopo qualche minuto dall’episodio ho guardato l’orologio e ho segnato l’orario. Tirò fuori dalla tasca il portafogli ed estrasse un foglio quadrettato che sembrava strappato da un notes. Lo aprì e me lo appoggiò sulla scrivania, in maniera che potessi leggerlo:
22.13 freddo
metri 2.40 dalla parete della libreria, apice 1.60 dal pavimento
pavimento 70 cm per 20. retro 1.30, 40-20
– Vede, è segnato l’orario delle 22.13, – riprese Majumdar.
– Non penso che siano passati più di sette od otto minuti, dal momento in cui è accaduto il fatto a quando ho pensato di prendere l’appunto.
Repressi l’impulso di chiedergli cosa significassero le altre parole e le cifre scritte sul foglio:
– Cos’è accaduto?
– Senta dottore, è difficile da spiegare… le racconterò esattamente cosa è successo. Ero seduto sul divano a casa mia e stavo leggendo una rivista scientifica. Io vivo da solo, quasi da solo: ho un gatto. Ho sentito il gatto soffiare, come se avesse paura di qualcosa. Il gatto, che prima era sdraiato sul tappeto, indietreggiava e alla fine è scappato via dalla stanza. Ho guardato il punto che sembrava aver attirato la sua attenzione: sulla parete di fronte al divano ho notato una forma indistinta, bluastra, che a prima vista sembrava solo un riflesso. L’ho guardata con maggiore attenzione ed essa ha cominciato a prendere forma.
Majumdar indugiò e mi sentii in dovere di incoraggiarlo:
– Che forma?
– Era una figura in tre dimensioni. Sembrava incastrata nel muro o, meglio, sembrava uscire dal muro.
– È questa figura che lei ha chiamato allucinazione esponendo il problema alla nostra infermiera?
– Sì, esattamente.
– Mi descriva la sua allucinazione.
– È difficile perché è durata un minuto circa. All’inizio era abbastanza indistinta, poi si è fatta più definita, – abbassò lo sguardo, come se fosse imbarazzato, poi mi guardò dritto negli occhi e riprese. – Alla fine era più o meno l’immagine di una donna con abiti scuri, credo dell’ottocento, girata di tre quarti, non del tutto frontale rispetto a me. Sembrava muoversi leggermente, come se respirasse. Sono riuscito a distinguere dei guanti e i merletti del vestito, poi è sparita improvvisamente nel giro di una decina di secondi.
Majumdar disse le ultime frasi tutto di un fiato, come per liberarsi di un peso.
Confesso che il suo racconto mi fece provare per un attimo un brivido freddo lungo la schiena. Ma subito dopo lo scetticismo prese il sopravvento. Pensai: “O questo è tutto matto o mi sta prendendo per il culo”. Rimasi zitto per un po’, poi decisi che era meglio sdrammatizzare e provocarlo:
– La sua allucinazione assomiglia molto ai nostri buoni, vecchi fantasmi inglesi, – dissi sorridendo.
Majumdar ricambiò il mio sorriso: – Anche in India ci sono storie di fantasmi. Ma io non credo ai fantasmi, dottore.
La mia provocazione non aveva avuto effetto, il mio interlocutore aveva risposto razionalmente e nella sua risposta c’era anche la piena accettazione delle sue origini indiane. Mi sentii un po’ in colpa per aver usato l’espressione “fantasmi inglesi”: Arun Majumdar era un cittadino inglese come me.
Mi chiesi se l’uomo di fronte a me stesse deliberatamente mentendo, e per un attimo pensai anche di poter essere vittima di uno scherzo. Da parte dei miei colleghi del dipartimento? Improbabile, certi passatempi da studenti universitari non sono nel loro stile. Mi si affacciò alla mente l’idea che potesse trattarsi di un giornalista a caccia di scoop sulla credulità degli psichiatri.
Mi sentii minacciato da ciò che aveva detto l’uomo di fronte a me, e lui sembrava guardarmi come se mi stesse mettendo alla prova. La visita si stava trasformando in una vera e propria partita a poker. Lui aveva rilanciato, dicendo di non credere ai fantasmi, e io decisi di stare al gioco e di vedere se il suo era un bluff.
Smisi di rigirarmi la penna tra le dita e la posai sul tavolo, cercando di avere un atteggiamento il più composto e professionale possibile.
- Neanche io credo ai fantasmi. Quindi adesso ci occuperemo della sua allucinazione e dopo della sua personalità e del suo stato di salute generale.
Majumdar annuì.
– Innanzitutto non si tratta di un’allucinazione, ma di una pseudo-allucinazione, dal momento che lei non è convinto che si trattasse di una persona vera. In poche parole una pseudo-allucinazione è un’allucinazione criticata dal soggetto che la percepisce. Detto questo, – presi il foglietto che aveva posato sulla mia scrivania – lei ha sicuramente da dirmi qualcosa di
più preciso su questa pseudo-allucinazione.
– Sì, dottore. La prima cosa che ho fatto dopo che l’allucinazione… la pseudo-allucinazione è sparita, è stata alzarmi dal divano e andare a toccare il muro. E qui c’è un’altra questione che mi ha lasciato perplesso: in corrispondenza del punto in cui avevo visto la figura, la parete era più fredda della zona circostante.
– Come fa ad esserne sicuro?
– L’ho toccata, dottore. Ho appoggiato le mani e la zona del muro dove avevo visto la figura era notevolmente più fredda della restante parte. Guardi, per essere sicuro ho controllato anche col dorso delle dita, per escludere che fosse una sensazione legata al sudore delle mie mani. Con un pennarello ho disegnato sul muro la sagoma della zona più fredda: coincideva con la visione che avevo avuto.
– Cioè la zona di muro dove aveva avuto la visione era più fredda?
– Sì.
– Quanto più fredda?
– Non posso definirlo con certezza: credo una decina di gradi. Penso che le pareti della stanza avessero una temperatura di 25 gradi e la zona di muro fredda di 15 gradi Celsius, ma non avevo un termometro a casa.
– E cosa significano il resto delle annotazioni?
– Partiamo dall’ultima. Esplorando con le mani mi sono accorto che la zona fredda non era limitata al muro, ma ce ne era anche una piccola sul pavimento a forma semicircolare. Ecco, dottore, è questo che mi ha sconvolto, in quel momento mi sono reso conto che la figura che avevo visto nel muro era strana, come se avesse la parte inferiore meno sviluppata, come se avesse le gambe corte. La figura non era solo incastrata nel muro, ma anche nel pavimento.
Arun Majumdar mi fissò, in attesa di una mia reazione.
Credo che la mia faccia abbia avuto un’espressione fortemente perplessa, nonostante mi sforzassi di apparire imperturbabile.
Non sapevo cosa dire, e non mi ero fatto nessuna idea clinica della persona che avevo di fronte. Era una persona estremamente precisa, quasi maniacale, ma non sapevo altro.
– Senta, signor Majumdar, mettiamo da parte la pseudo-allucinazione, parliamo un po’ di lei. È d’accordo?
Majumdar si rilassò sulla sedia ed allargò le braccia:
       Certamente.
 
A questo punto non ci resta che augurarvi buona lettura: il resto lo trovate in “Asia Anderson e i fantasmi dal tempo”.
25/03/2009, Davide Longoni