V TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: IV CLASSIFICATO

L’EMPORIO, DI NOTTE

di ROBERTA LILLIU

Il vinile di Hank Williams gracidava nel giradischi nel retrobottega: per quanto il volume fosse amplificato da un microfono, la musica si sentiva a malapena dietro il bancone. Era una serata calda, fuori soffiava il vento del deserto e il cielo era senza nubi, sembrava che ci si dovesse aspettare una tempesta di sabbia. Lui, il proprietario di quella piccola bottega, se ne stava quasi sdraiato sul bancone, con un occhio guardava la partita di football, trasmessa da un piccolo televisore in bianco e nero senza audio, e con l’altro guardava l’unico cliente che gironzolava nel negozio. Sbuffava e si grattava la testa, maledetto chi gli aveva suggerito di tenere aperto ventiquattro ore su ventiquattro. Era un esperimento quello che stava facendo ed era solo da qualche giorno che non chiudeva più il negozio, voleva vedere chi erano i disgraziati che alle due del mattino sentivano la necessità di comprare delle caramelle. Ovviamente lui non era in bottega tutto il giorno, nella prima parte della mattinata c’era stata sua moglie, poi il nipote, nel pomeriggio, ed ora era il suo turno. Non se la sentiva di mandare gli altri a sostituirlo in quella fascia oraria che, secondo lui, era la più problematica. Si era armato di caffè, dei suoi dischi preferiti che a malapena riusciva ad ascoltare e di una piccola televisione sul bancone accanto alla cassa. Il tizio che gironzolava nel negozio sembrava strafatto, lo vedeva nascondersi dietro gli scaffali e sapeva che si stava intascando tubetti di dentifricio e flaconi di shampoo. Per questa volta lo avrebbe lasciato fare, sapeva che era il figlio del vecchio Jones, quello della pompa di benzina, e che era in quelle condizioni a causa delle disgrazie che gli erano capitate e delle sostanze che aveva toccato durante la sua vita. Non voleva angosciare il padre del ragazzo, ma la prossima volta avrebbe chiamato la polizia. Non voleva neanche spaventarlo con la mazza che teneva sotto il bancone, però si rendeva conto che non poteva permettere a quel giovane di svaligiargli il negozio.

- Ehi Jack, hai finito di nasconderti nei pantaloni cose che non mi puoi pagare?- chiese il proprietario, con la bocca impastata e la voce stanca. Il ragazzo fece capolino da dietro un ripiano, aveva gli occhi arrossati e forse non aveva inteso bene cosa gli veniva chiesto. Era evidente che si era affacciato solamente perché aveva sentito pronunciare il suo nome.

- Sì, sì, adesso me ne vado, va bene signor Goan, non mi metta nei guai però, prometto che le pagherò tutto…- blaterò il giovane Jones, prendendo la porta del negozio e scomparendo nell’oscurità. Ecco, Goan era solo. Erano solamente le undici di sera e sua moglie sarebbe venuta a dargli il cambio solamente alle cinque del mattino. Forse doveva infilare qualche altra persona, magari un ragazzo della città, nei turni del negozio o forse doveva lasciar perdere questa baggianata dell’emporio aperto ventiquattro ore su ventiquattro. D’altronde Yorkville, nel Tennessee, non era una città di grandi dimensioni e i suoi duecentonovantatré abitanti avrebbero sopportato l’idea che il loro unico negozio potesse chiudere la sera. Si era lasciato imbambolare da quei programmi che danno alla sera in televisione, basta avere una birra fra le mani e tutto quello che scivola via da quelli oggetti ed entra nelle orecchie di chi ascolta sembra oro colato. Aveva solo dovuto discuterne un po’ con la moglie, lei non era per niente convinta, ma alla fine aveva deciso di aprire lo stesso. Era un modo come un altro per occupare il tempo, per far lavorare il nipote, che era disoccupato ed era meglio se non stava per troppo tempo a casa a ciondolare, e per provare a recuperare qualche soldo, dato che gli affari non andavano affatto bene. Sua moglie era riuscito a strappargli la promessa che avrebbero provato solo per un mese e poi, a conti fatti, avrebbero deciso in modo definitivo se davvero ne valeva la pena.

- Chiuderò, me lo sento…- si disse sospirando, ma non ne era triste, si era stufato anche lui a quel ritmo che lo condannava a vivere di notte e dormire di giorno. Pensava che forse era il caso di chiudere definitivamente, di andare in pensione, tanto aveva sessantaquattro anni e aspettare ancora non lo avrebbe di certo salvato da una vita di miseria. Si sentiva triste a pensare alla vita da miserabile che lo aspettava e si sentiva più triste ancora perché sapeva di condannare alla stessa situazione sua moglie. Ad un tratto i suoi pensieri furono interrotti dalla campanella della porta d’entrata, che suonava ogni volta che quest’ultima si apriva. Sputò un buonasera poco convinto, mentre osservava da capo a piedi il probabile cliente. Doveva essere un forestiero, non l’aveva mai visto, ed aveva un aspetto inquietante, con quel suo cappellaccio nero calato sugli occhi. Goan strinse il manico della mazza sotto al bancone e si avvicinò il telefono, qualora fosse stato necessario.

Indossava jeans e maglietta, il ragazzo, e sulla testa aveva calato un cappello da cowboy, da cui uscivano, ricadendo sulle spalle, i suoi capelli nerissimi. Aveva risposto al saluto di Goan con un cenno del capo e aveva subito cominciato a gironzolare per le corsie del negozio che, per la verità, non erano molte. Goan non lo vide per qualche tempo e il sospetto che il tizio fosse entrato per rapinargli l’emporio si fece più pressante nella sua mente. Si raddrizzò sul bancone e guardò fuori dalla vetrina: non c’era nessuno nei paraggi, il tempo stava andando a peggiorare e dall’orizzonte si potevano vedere i nuvoloni di sabbia desertica che si avvicinavano minacciosi e la notte più cupa scendeva silenziosamente sulla cittadina. Pensò che poteva mandare via il ragazzo con la scusa della tempesta di sabbia così, se questo aveva in mente di rubare, poteva essere pronto all’evenienza, con la mano ben piazzata sulla mazza. Non fece in tempo a rifletterci di più che il ragazzo gli si parò davanti, con in mano un pacchetto di caramelle. Si era tolto il cappello e sulla fronte era evidente una cicatrice rossastra che la attraversava da parte a parte. Goan la osservò per qualche secondo, poi, come per pudore, tolse lo sguardo da quello che rimaneva di una brutta ferita e lo posò sugli occhi del suo cliente, che lo osservava con aria indifferente. Gli avvicinò le caramelle e il vecchio gliele prese, per guardare il prezzo. Batté lo scontrino e glielo porse, il ragazzo lo prese e lo ringraziò, poi prese la porta e se ne andò.

 

 

Pensava di essersi addormentato sul bancone e si spaventò molto quando venne svegliato da quella che per lui era una scossa di terremoto. Pensava di essersi appisolato ascoltando il vecchio Hank, era una cosa che gli succedeva spesso, e meno male che non aveva in bocca il suo solito sigaro, altrimenti avrebbe rischiato di bruciare l’emporio, visto la carta che si trovava sul pavimento. Si guardò intorno: era sdraiato a letto, aveva indosso solamente la canotta che teneva sotto la camicia e i calzoni che usava come pigiama. Cercò con una mano la moglie, lei non c’era.

- Sarà in negozio.- si disse, alzandosi per andare nel cucinino. Aveva proprio voglia di caffè e sentiva che ne aveva bisogno. Era piuttosto confuso e ancora molto stanco e non riusciva a ricordare com’era finito nel suo letto. Mentre metteva il caffè nel filtro ripensava alla serata appena trascorsa: il ragazzo del vecchio Jones che taccheggiava, la tempesta di sabbia che si avvicinava, la sua musica preferita che gli teneva compagnia e il giovane con la cicatrice sulla fronte che voleva le caramelle. Si sforzò ma niente, non gli veniva in mente altro. Sorseggiò il suo caffè e rifletteva sulla questione dell’apertura notturna. Era sempre più convinto che non fosse stata una buona idea e pensava che se già da quella sera avesse tenuto chiuso nessuno se ne sarebbe accorto. Finita la colazione, andò a lavarsi i denti e la  faccia. Spremette il contenuto del tubetto sullo spazzolino e iniziò a fregarsi vigorosamente i denti. La sua faccia riflessa nello specchietto un po’ spaccato sembrava più stanca del solito e anche sbiadita, come le immagini delle persone nelle vecchie fotografie. Non se ne curò particolarmente, anzi, questo lo convinse ancora di più che la sua decisione era quella giusta da prendere. Si asciugò la bocca con una salvietta, andò nella camera e, non trovando né la camicia né i pantaloni del giorno prima, si mise addosso una maglietta a manica corta e dei calzoni marroncini. Poi si recò nel salottino dove teneva il telefono, aveva pensato di chiamare il nipote e avvertirlo che aveva deciso di tenere chiuso la sera e domandargli se poteva fare lui il suo turno pomeridiano al negozio. Non si sentiva bene, aveva in bocca un sapore metallico e una brutta fitta all’altezza del costato che non si decideva a passare. Voleva riposare quel pomeriggio, magari andare con la moglie al fiume per pescare e rilassarsi. Compose il numero sulla tastiera, risultava occupato. Riagganciò la cornetta e andò a prendere le chiavi di casa con l’idea di andare dalla moglie all’emporio, suo nipote sarebbe andato a cercarlo a casa direttamente.

Si sarebbe recato al negozio a piedi, il tempo era gradevole e la strada non era in condizioni pessime. Il sole era alto nel cielo e l’aria tiepida si stava scaldando, rendendo rovente l’atmosfera intorno. Si sentiva strano, apparentemente calmo ma agitatissimo dentro, non sapeva spiegarsi il perché di questa sua sensazione che era andata a sostituire la stanchezza di prima. Non si vedeva in giro un’anima viva e, cosa molto strana, non si sentiva un rumore: né un bambino che giocava nel giardino di casa sua né le automobili che a quell’ora sfrecciavano verso le città intorno. Tutto era silenzioso. Arrivò all’emporio e rimase veramente stranito nel vedere la serranda abbassata. Fece il giro dal retro e con la chiave riuscì ad entrare nel negozio, che sembrava abbandonato. I soldi si trovavano dove erano sempre stati, dentro al cassettone sotto al bancone girato verso il muro, i prodotti sugli scaffali erano ordinati e impolverati, come se al negozio non vi entrasse nessuno da sempre. Il vecchio Goan era piuttosto perplesso. Cosa stava succedendo? E dov’era finita sua moglie? E suo nipote? Uscì rapidamente dal negozio, chiudendo di nuovo la porta a chiave, con l’idea di andare a controllare alla tavola calda di Sue Perkins, dall’altra parte della strada, dove la moglie aveva l’abitudine di andare a fare quattro chiacchiere e a mangiare il pancake migliore della contea. Attraversò la strada guardando a destra e a sinistra, come se si aspettasse che le automobili la percossero: non ce n’erano, il deserto non si era animato. Anche la serranda del ristorante era abbassata ma le veneziane alle finestre non erano chiuse. Goan si avvicinò e sbirciò all’interno del locale, che sembrava anch’esso chiuso da moltissimo tempo. Sul pavimento rotolavano fiocchi di polvere, gli oggetti erano in ordine e sicuramente Sue Perkins non entrava là dentro da molto tempo. Il vecchio si grattò la testa, la moglie non era nemmeno lì. Riprese a camminare pensando a dove potesse essersi nascosta. Che gli stesse facendo un dispetto? Era impensabile che per un bisticcio lei avesse voluto punirlo coinvolgendo tutta la comunità. La sera precedente, prima che lui si recasse al lavoro, avevano avuto una piccola discussione riguardo all’attività e alla possibilità di andar via da Yorkville. Dopo tanti anni in Tennessee lei avrebbe voluto andare in un luogo dove all’orizzonte non si vedevano montagne, ma lui non era troppo convinto e le aveva detto che avrebbe preso del tempo per decidere sulla questione. Lei la prese male, lo accusò di aver già deciso, di non volersi spostare dalla cittadina e se ne andò a letto borbottando improperi. Lui non voleva dirle di no, solo voleva del tempo per pianificare i dettagli, programmare il viaggio e le soste in un modo che fosse godibile e poco costoso. Glielo voleva dire subito, ma doveva andare all’emporio perché il turno del nipote era quasi finito. Le scrisse un messaggio sulla lavagna e prese la porta di casa.

Pensandoci seriamente, sua moglie non era una persona rancorosa e sicuramente, quando si sarebbero visti, gli avrebbe chiesto scusa per la reazione un po’ eccessiva della sera prima. Doveva solamente trovarla. Dove poteva essere? Magari era a casa del nipote, così Goan decise di recarsi da quelle parti, nella speranza di trovarla seduta al tavolo della sorella a mangiarsi una fetta di torta. La casa del nipote si trovava al di là di Yorkville, con una bella vista sulle Smoky  Mountains, e ci viveva lui con la madre, la sorella più anziana della moglie. Il marito, un indiano Chickasaw, era sparito nel momento in cui lei gli aveva detto di essere incinta e da quel momento il nipote era diventato quasi un figlio per lui e sua moglie, che di bambini non ne avevano avuti. Lo avevano aiutato negli studi e si erano occupati di lui anche economicamente, visto che lo stipendio da cameriera della madre non bastava quasi a sfamarli. Ad un tratto della sua vita però il ragazzo aveva iniziato a stare male: bave, sudori freddi, nervi tesi, occhi sgranati intenti a scrutare cose che le altre persone non riuscivano a vedere. Goan si pentiva ancora di aver portato il ragazzo da quel ciarlano che credeva di guarirlo lobotomizzandolo, ma così era andata, uno spillone nell’orbita del nipote, due leggere martellate e qualche schizzo di sangue lo avevano ridotto all’ombra di quello che era prima. Al ragazzo non era rimasto altro che fare il commesso nel negozio dello zio. Per quanto riguardava sua madre, Goan e la moglie la ritenevano sciroccata già da tempo; all’inizio era stato il forte dispiacere per l’abbandono del compagno e la paura di affrontare la vita con un figlio tutta da sola, poi era come se fosse stata toccata da uno spirito evocato da un santone della tribù del vecchio amante, che talvolta la faceva salire sul tetto di casa sua ad ululare alla luna. Goan aveva raggiunto la casa della cognata, sembrava che non vi abitasse nessuno da molto tempo. Tutto era in rovina, la staccionata cadente, il giardino, a dir la verità mai troppo curato, era invaso da erbacce di ogni sorta, i vetri rotti, la scala d’accesso al piccolo portico era piena di buchi. L’uomo guardò dalla finestra. Tutto era stato lasciato come se le persone che abitavano quella casa se ne fossero andate con molta fretta, lasciando il contenitore del burro sul tavolo ed un coltello sporco di marmellata su un piattino appoggiato sulla credenza. Goan cominciava davvero a preoccuparsi. Cosa diavolo stava succedendo a Yorkville? Decise di entrare in casa, il danno che faceva buttando giù la porta non si sarebbe di certo notato in mezzo a tutta quella decadenza. Con un leggera spallata la porta cadde e il vecchio iniziò a perlustrare il cucinino della cognata. Non notava niente di particolare, a parte dei giornali piuttosto vecchi datati il cinque ottobre del millenovecentosettanta… Continuò il suo giro nella camera del nipote: il letto sfatto, riviste sulla pesca accantonate su un mobile, vestiti sparsi sul pavimento. Ad un tratto si accorse di una macchia marrone scuro sulla federa del cuscino: sembrava sangue rappreso. Goan indietreggiò, doveva essere successo qualcosa di brutto ai suoi parenti, ma cosa? A volte, nei suoi momenti di pazzia, la cognata minacciava di uccidere se stessa e suo figlio, che avesse portato a termine il suo monito? E se si fosse intromessa sua moglie per evitare guai? Quel sangue poteva essere il suo. Goan cominciava a perdere la calma e la lucidità. Non poteva neanche immaginare che la moglie fosse morta, doveva ancora parlarle, doveva portarla via da quel luogo per andare a vedere l’oceano. Decise di tornare al negozio, avrebbe chiamato la polizia per denunciare la strana  situazione che sembrava avvolgere Yorkville. Uscì correndo dal rudere e corse verso il suo emporio…

 

 

L’ho sognato diverse volte da quando non è più con me e mi sono sempre svegliata piangendo, nonostante mio nipote, che adesso vive a casa mia insieme a sua madre, mi consoli e mi asciughi sempre le lacrime. Fatto sta che è sempre penoso per me, una sensazione peggiore di quando l’abbiamo trovato steso dietro il bancone con un proiettile nel cuore, gli occhi ancora aperti e il vecchio Hank, come lo chiamava lui, che gracchiava nel giradischi. E’ andata così, secondo la ricostruzione della polizia: un uomo sulla trentina è entrato nell’emporio e, dopo aver gironzolato un po’ fra gli scaffali, ha intimato a mio marito di consegnargli l’incasso, a dir la verità veramente scarso. Lui si era rifiutato e quasi subito aveva tirato fuori la mazza che teneva sotto il bancone, ma  il giovane con la pistola era stato più veloce di lui e gli aveva sparato dritto nel petto. Aveva preso l’incasso ed era fuggito, portandosi a casa anche qualche lattina di cibo sottovuoto. I poliziotti erano venuti a svegliarmi nel cuore della notte e il vederlo riverso in una pozza di sangue mi aveva provocato dei conati di vomito pazzeschi. Avevo deciso di seppellirlo subito, volevo che avesse un posto tutto per lui dove poter riposare per sempre e dove io potevo andare a piangerlo ogni volta che volevo. Era morto ed io ero arrabbiata, lo sono ancora, perché quella sera, prima che andasse al lavoro, avevamo litigato per una sciocchezza ed io non avevo fatto in tempo a scusarmi. Lo sogno spesso che gironzola in una Yorkville deserta e abbandonata, preso dal panico perché mi cerca ma non mi trova, convinto che mi sia successo qualcosa di grave, ma io sono con lui ma lui non mi vede. E’ uno strazio perché sono consapevole che mio marito crede di essere vivo e pensa che io sia morta, quando invece la realtà è capovolta. Non so se troverà mai pace.