V TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: II CLASSIFICATO

IL FABBRICA NUVOLE

di MICHELE TOMASETTI

Il sentiero s’inerpicava, ripido, sulla costa della montagna. Sembrava aggrappato, con dita scheletriche, al pendio. Come fosse un folle scalatore, sul punto di cadere da un momento all’altro. Radi cespugli ne nascondevano per brevi tratti la vista. Pareva che, per dispetto, un dio arrabbiato avesse cancellato, con rapidi colpi, brevi lembi di quell’impervia via.

Joanni sorrise a quel pensiero. “Decisamente ostile come via principale per la cima” rimuginò tra sé, controllando la mappa che teneva stretta tra le mani. Era una vecchia pergamena, ma perfettamente conservata grazie ad uno speciale unguento dai Mastri Copiatori di Verdan. In questo modo, gli antichi tomi, non subivano gli insulti del tempo.

Gebedanian, il “Viandante di Zefiro”, aveva compilato la mappa. Era una delle poche che riportava l’esatta strada per lo Zigil-Gathol. Quelle linee, tracciate oltre cento anni prima, Joanni le stava seguendo da un mese abbondante.

Giunto a un basso altipiano immerso nel brugo, il cavaliere osservava mappa e paesaggio. Cercava di ritrovare, nella natura, somiglianze con i tratti di Gebedanian. Lasciò la sua montatura addentare un cespuglio di erica. Una fredda bruma allungava le sue volute di tetra foschia dal fondovalle, fino a lambire le propaggini meridionali del pianoro. – Quando saremo là, amico mio, ognuno forzerà le proprie gambe. È la prima volta che i tratti lasciati dagli scalpelli sono più sottili di quelli lasciati dalla penna! – disse Joanni accarezzando il proprio cavallo.

Strinse le cinghie della sella, e si aggiustò il mantello di pesante pelliccia di “lupo delle selve”. La temperatura stava calando con l’avanzare della nebbia e della notte. – Forza Roscio, abbiamo almeno due ore di luce da sfruttare! – Diede un’affettuosa pacca sul fianco del quadrupede, che rispose scuotendo vigorosamente la criniera. Nitrì. E iniziò la nuova salita.

Giunto al sentiero scheletrico, Joanni scoprì trattarsi di una meravigliosa illusione ottica. “Grandi furboni! Se solo avessero piantato qualche cespuglio in più, questo viale sarebbe stato totalmente invisibile!” pensò. Quello che, dal pianoro, sembrava poco più di una pista per capre, si rivelò essere un ampio stradone. Tre carri affiancati sarebbero passati agevolmente. Alte sponde nascondevano la cavalcatura di Joanni, fino al garrese. – Se smontassi, nessuno potrebbe mai vedermi avanzare, o discendere. Né dal basso, né tantomeno dall’altopiano. – rifletteva a voce alta l’uomo.

– Ma saresti facile preda di chi sta sopra di te! – Una voce squillante, lo raggiunse da un basso rovo aggrappato al fianco del monte, una decina di metri più in alto.

Istintivamente, la mano del cavaliere corse alla piccola balestra che teneva pronta al suo fianco. Con lo sguardo cercava di cogliere un movimento, o un rumore, che tradisse la presenza dell’estraneo.

Una fugace apparizione, poco più di un lampo nero. “Preso!” pensò Joanni. Lanciò, fulmineo, un dardo in quella direzione. – Mancato! – urlò, quasi in risposta, la voce. Con somma sorpresa del cavaliere, un bambino uscì da un cespuglio di mirtilli, venti passi avanti a lui. Emise appena un fruscio. – Sorpreso che non fossi nel rovo … né dove hai sprecato la tua freccia, soldato? – Joanni guardò con un misto di dubbio e imbarazzo il suo interlocutore. – Non ci sono villaggi qui intorno.  Cosa ci fa un ragazzino, solo, su impervi sentieri, a questa tarda ora del giorno? – Cercò di imprimere un tono duro alle parole che uscirono dalla sua bocca. Ma non riuscì a mascherare il disagio di essere stato colto, così tremendamente, in fallo. E da una creatura che a stento dimostrava un quinto dei suoi anni.

Il nuovo arrivato, per nulla intimorito dall’atteggiamento del giovane, gli si avvicinò lentamente. I suoi passi non emettevano il minimo rumore. Indossava dei buffi stivali pelosi. Facevano assomigliare i suoi piedi alle zampe di una grossa lepre. I pantaloni e la giubba, attillati, mettevano in risalto un fisico asciutto e atletico. L’abbondante cappuccio della mantella nascondeva il volto. Lasciava intravedere solo il naso, lungo e appuntito. – Umano! Se la tua vista fosse migliore della tua mira, avresti notato che stai già attraversando il mio villaggio. Da almeno cento passi! Quanto a me: io sono Viburno, il Guardasentiero! E non sono un ragazzino … ma un pughelt! – disse con orgoglio abbassando il cappuccio. Due ciuffi di pelo, neri come carbone, fecero capolino sulla cima di due lunghi orecchi a punta. – Un bimbo-lince! – un grido soffocato, proruppe dalla gola di Joanni. Quella creatura non doveva essere li. Nei racconti delle nonne, quello era il suo posto. Insieme ai folletti o ai fantasmi.

– Una cosa non capisco di voi umani. – sbottò il pughelt, infastidito dallo sguardo attonito del cavaliere – Siete capaci di partire in spedizioni mortali per raggiungere posti cantati nelle leggende. Andate alla ricerca di armi o tesori raccontati in miti e ballate. Ma, quando vi trovate di fronte qualcuno che appartiene a quei racconti, lo trovate impossibile! – Ricoprì il proprio capo con l’ampio cappuccio. – Dunque, – riprese, sospirando, non notando cambiamenti nel proprio interlocutore – cosa ti porta su questa impervia roccia, lontano da ogni rotta commerciale o città umana? – A quelle parole Joanni parve riprendersi. Era abituato a toni deferenti e sprezzanti. – Una ricerca … gravosa … per la salvezza delle mie genti. Devo raggiungere la vetta, signore, e trovare … un luogo remoto. – Il cavaliere era riluttante a svelare tutti i dettagli della propria missione. In fondo, chi aveva di fronte? Poteva benissimo essere un bandito, che cercava di fargli abbassare la guardia con illusioni da ciarlatano itinerante.

Viburno intuì la mancanza di fiducia del giovane – Beh, siamo passati da bimbo-lepre a signore. È già un passo avanti! – sorrise cercando di mostrarsi affabile – Non preoccuparti straniero, non ho alcuna intenzione di rubarti il cavallo! Non sarei capace di raggiungere la sella nemmeno con una scala! – fece una buffa smorfia mentre si calava, nuovamente, il cappuccio sulle spalle. – Presto sarà notte. Qua, il freddo, diventa davvero pungente. Ti sconsiglio di restare all’addiaccio. – Il piccolo pughelt porse la mano a Joanni, invitandolo a scendere da cavallo. – Avanti umano, che non si dica che il nostro popolo ha perso il dono dell’ospitalità! Se prometti di non andare a cercare arcobaleni e bacili pieni di monete d’oro, potrai riposare qua con noi! – Il cavaliere smontò, e inchinandosi strinse la mano di Viburno – Bene straniero, ti attendono un letto caldo ed un pasto bollente … ma, se non vuoi che continui a chiamarti straniero, svelami il tuo nome! O è segreto, come la tua missione? – Il cavaliere arrossì – Sono Joanni, e sarei molto lieto di essere vostro ospite. – Detto questo, appese la balestra al suo gancio sulla sella. Seguì il piccolo individuo che trotterellava spensierato avanti a lui.

Superarono il cespuglio di mirtilli da cui era sbucato Viburno. Il sentiero compiva un’ampia svolta seguendo la curvatura del pendio. – Eccoci qua! – disse con tono allegro il pughelt, mostrando, con un ampio gesto teatrale, la strada davanti a loro. – Il sentiero prosegue, grazie dell’indicazione! – rispose dubbioso Joanni, sentendosi deriso dal Guardasentiero. In effetti, nulla era diverso dal tratto di strada precedente. La via, forse, era leggermente più ampia. I due costoni di roccia, forse, più alti. L’unica differenza evidente, che Joanni notò guardandosi intorno, era la presenza di molti più cespugli. Ricoprivano i bordi del sentiero. Sbucavano, in più punti, dalle pareti squadrate che ne delimitavano la fine. In certi tratti, coprivano quasi l’intera scarpata. – Guardi le cose da una prospettiva sbagliata! – Sorrise, sardonico, il piccolo anfitrione – Apri gli occhi … dal giusto punto di vista. – Joanni sentì il sangue ribollirgli nelle vene. Ma si trattenne dal saltare al collo del piccolo essere. Dopotutto, quella creatura era uscita dalle fiabe per pararsi di fronte a lui. Doveva esserci una ragione. E se il pughelt aveva solo l’intenzione di prenderlo in giro, ne avrebbe pagato lo scotto.

– Perché voi umani considerate il mondo solo dalla vostra prospettiva? – le parole di Viburno giunsero pochi istanti prima che Joanni potesse replicare. Finalmente, il cavaliere capì il messaggio, nascosto nelle parole della creatura. S’inginocchiò fino a portare il proprio sguardo allo stesso livello degli occhi del pughelt. Magia. Il villaggio era li, in piena vista. Ogni cespuglio, ogni fessura e intaglio nella pietra, erano posizionati ad arte. Nessuno, più alto di Viburno, avrebbe potuto vederlo. E ora, davanti a lui, si apriva un mondo fatto di porte, finestre e balconi. Persino vetrine e insegne erano state mirabilmente occultate. – Ma come … – la domanda di Joanni fu interrotta dalle parole di Viburno – … è possibile? Arte e abilità sopraffina … e un pizzico di magia! – sorrise il folletto, strizzando l’occhio all’umano. – Perché proprio io? – lo incalzò il giovane – Quante persone passano per questi sentieri? Perché proprio a me hai deciso di mostrarti? Avrei proseguito per la mia strada, senza nemmeno sapere della vostra esistenza. Cosa ti ha spinto a fare questa cosa?– Il dubbio dipinto sul volto di Joanni, fece scoppiare una sonora risata nel pughelt. – Intuito, caro gigante, intuito! Ma vieni dentro a bere e a mangiare. Tu mi racconterai quello che vorrai sulla tua missione, ed io ti indicherò la via migliore per realizzarlo! – Viburno avanzò ma il cavaliere non si mosse. Il Guardasentiero si voltò verso l’uomo. Il sorriso sul suo volto era sparito. Una serietà, difficile da adattare a quel volto rubicondo, ne aveva occupato il posto. – E allora segui la tua paura! Alzati e vai per la tua strada! Oppure ascolta il tuo istinto e la tua saggezza interiore. E vieni a farti una bella bevuta! –

Joanni entrò, bevve e mangiò. Si lasciò conquistare dalla giovialità dei pughelt e raccontò della sua missione. Della siccità che da anni attanagliava la sua terra. Del morbo che aveva invaso il suo villaggio e quelli vicini, strisciando fuori dalle spaccature del terreno arido. Quel male oscuro che aveva portato via suo padre e i suoi fratelli. Raccontò di come, una notte, si trovava nella biblioteca del vecchio Tibedia. Li, aveva trovato uno stralcio di una leggenda su Zigil-Gathol e il rimedio alla siccità. Così all’alba era partito. E da quell’alba, oltre un mese era passato.

Mentre Joanni raccontava, altri pughelt riempirono l’ampio salone dell’abitazione di Viburno. Quando ebbe finito, si fece avanti un vecchio. I suoi ciuffi auricolari erano ispidi, lunghi e bianchi come la neve. Il suo volto era lo specchio della serenità. Con voce scricchiolante, simile allo squittire di una famigliola di scoiattoli, si rivolse all’uomo. – Devi raggiungere la cima della montagna, figliolo. Là, troverai le risposte che cerchi … se il tuo intento è valoroso e il tuo cuore puro! – Poi si rivolse a tutti gli astanti – L’umano è lungo a parlare quanto è alto. Il sole è già andato a dormire da parecchio. Dovremmo farlo anche noi! Quanto a te, straniero: Viburno ti darà asilo. Dormi bene e dormi sodo. Domani ti attende una lunga camminata! –

 

La salita fu più che mai agevole. Dopo diverse ore passate ad avanzare tra brughi e cespugli erbosi, il verde cedette il passo alla nuda roccia. Poco dopo mezzogiorno, solo rari licheni spruzzavano di colore, il grigio fianco del monte. Il sole aveva già iniziato la sua discesa verso l’orizzonte, quando Joanni raggiunse le ultime propaggini di un ghiacciaio. – Ora sarà più dura! – gli uscì dai denti, mentre col piede, tastava la scivolosità del nuovo suolo. “Forse dovrei accamparmi qui e riprendere la salita domani, col sole dalla mia.” rimuginò tra sé il giovane cavaliere. Cercava con lo sguardo un buon riparo. Le prime ombre iniziavano già ad allungare le proprie lugubri dita sui fianchi della montagna. Trovò una rientranza. Vide una frattura, lungo il pendio. Alta quanto Joanni, di poco più larga, era profonda pochi metri. Se il tempo fosse peggiorato, sarebbe stato il posto ideale per proteggerlo dalle intemperie. Si preparò il giaciglio e si lasciò andare a un sonno ristoratore. La sua fida balestra era carica, nascosta tra le pieghe del mantello.

La notte passò tranquilla, nonostante il sibilo costante del vento. I primi raggi di sole filtrarono dall’apertura inondandola di luce. Il cavaliere si svegliò e rapidamente uscì dall’antro. “E questa quando è caduta?” Ai piedi di Joanni c’era un soffice strato di neve. – Non è freddo, né lo è stato stanotte. – mormorò chinandosi a raccoglierne una manciata. La meraviglia per l’evento lasciò presto la mente del giovane. Ancora tanta strada mancava prima di raggiungere la vetta. Una volta lassù, poi, non sapeva quanto avrebbe dovuto vagare.

Impiegò altri due giorni per raggiungere la cima. Il ghiaccio rendeva difficile la scalata. Più di una volta, lo scivoloso terreno, fece cadere rovinosamente Joanni con la faccia nella neve fresca. All’alba del terzo giorno, una nuova abbondante coltre bianca ricopriva il pendio. Il piede affondava fin quasi al ginocchio nella soffice superficie. La marcia era rallentata, ma le cadute meno dolorose.

Sul mezzogiorno Joanni era finalmente sulla vetta. Il suo sguardo non incontrava ostacoli. Da nord a sud, da est a ovest, il mondo intero era ai suoi piedi. Valli e monti, pianure e colline, erano piccoli e lontani. Persino la maggior parte delle nubi erano sotto di lui e non sopra. Inspirò profondamente l’aria fresca e pungente della vetta. Le fatiche, accumulate durante il lungo viaggio, parvero svanire.

La cima dello Zigil-Gathol era un piccolo pianoro. Cento passi separavano Joanni dalla punta opposta. In larghezza, a occhio, non raggiungeva i trenta. Il cavaliere decise di percorrere il perimetro di quella piccola spianata. Nemmeno lui sapeva alla ricerca di cosa: un pertugio o qualche sporgenza che tradisse la presenza di un ingresso o di una costruzione. Più volte passò dal “suo” punto di vista a quello pughelt, ma non ottenne risultati. Giunse all’estremità più lontana. Vide, sporgendosi leggermente, una specie di trono di roccia. Fuoriusciva dal fianco del monte, come una gemma da un ramo. Seduto su di esso, un vecchio. Era immerso nella neve che, abbondante, ricopriva tutto. La lunga barba e le vesti erano del medesimo colore che lo circondava. Sul capo del vecchio, una spessa cappa nera ne nascondeva il volto. Joanni chiamò a più riprese l’anziano, alzando il tono della sua voce. L’ultimo grido generò un’eco che rimbalzò senza pace sulle cime circostanti.

Vedendo l’inutilità del proprio gesto, si avvicinò con cautela all’uomo e sollevò la cappa nera. “Pover’uomo” pensò “chissà da quanto tempo è bloccato quassù, ucciso dalla rigidità degli elementi o dalla vecchiaia”. Come Joanni liberò il vecchio dallo scuro fardello, le sue membra iniziarono a riprendere colore, divenendo di un bel rosato. Il volto, dapprima una maschera di sofferenza, si distese, lasciando trasparire una serena tranquillità. Al cavaliere, parve di vedere gli anni scivolare via dal corpo del vecchio, come acqua su di un vetro. Poi aprì gli occhi. – Sei giunto infine – disse l’uomo. La sua voce era profonda e reboante come un temporale estivo. – Temevo non vi fosse alcuno, al mondo, capace di partire … sospinto solo dalla forza del proprio cuore puro. – Joanni, perplesso, lo osservò alzarsi dal proprio scranno e risalire sul pianoro. – Non ti tedierò con la mia storia o col perché indossassi quella cappa oscura. Dimmi, giovane uomo, da quanto tempo non piove sulla tua terra? – Il cavaliere guardò il vecchio. Era stupito che conoscesse il motivo della propria cerca. – Se non è caduta acqua durante il mio viaggio, sono almeno quindici mesi che non piove … ma tu chi sei? – L’anziano sorrise, vedendo il dubbio e l’incredulità nel suo interlocutore. – Io sono la fine del tuo peregrinare. Io sono il Fabbricanuvole. E tu sei il mio salvatore. Ti saresti aspettato di dover affrontare draghi e demoni, per risultare vittorioso al termine della tua avventura. Invece hai solo dovuto togliere un drappo a un vecchio … ma è il tuo cuore puro che ti ha permesso di trovarmi … di vedermi … e ti ha dato la forza di sollevare quella stoffa. Hai compiuto una nobile impresa, e te ne sono grato! – L’uomo trasse un profondo respiro, poi continuò – Ma ti chiedo un ultimo sacrificio: io riporterò l’acqua sulla tua terra, ma tu dovrai aiutarmi e non potrai più fare ritorno. Sei disposto a ciò? – Lo sguardo sgomento di Joanni fu più esaustivo di ogni parola. Il vecchio impassibile continuò – Questa è la tua vera prova! Sei disposto a non rivedere mai più coloro per i quali hai compiuto questa impresa disperata? –

Joanni deglutì a fatica. Sentiva la testa pulsargli terribilmente. Le gambe divennero molli. Tutta la fatica del duro viaggio riaffiorò prepotente. Cadde bocconi, il naso a lambire la soffice neve. Alzò la testa. Una nuova determinazione negli occhi. – Lo farò! Ma tu salva quelli che amo! –

Il vecchio sorrise bonario e sollevo un cumulo di neve da terra. Lo avvicinò alle labbra e soffiò con forza su di esso. Il mucchietto bianco, sospinto da quel magico alito, si librò in cielo. Più saliva in alto, più si gonfiava. Dopo pochi istanti una grossa nuvola correva veloce. Il Fabbricanuvole continuò, con ritmo incalzante, a comporre ammassi di neve dalle forme più varie. Che fossero piccole palline tonde o grossi blocchi squadrati, salivano trasformandosi in nembi. Mentre procedevano verso oriente, Joanni li vide mutare colore: il bianco candido cedeva il posto al grigio cupo, carico dell’agognata pioggia. A ogni nuvola che lasciava la terra, una nuova fitta, lancinante, colpiva il giovane. Sentiva la testa andargli a fuoco. Petto e braccia parevano carboni ardenti. La vista si annebbiò. La terra iniziò a vorticare.

Poi il buio.

“Hai superato la prova, torna da loro …”

 

La pioggia scrosciava violenta. Spazzava via polvere e arsura. Il mefitico morbo era ricacciato nelle profondità della terra da cui era sorto. Rivoli impetuosi s’insinuavano tra le crepe del suolo, spaccato dal sole dei mesi passati. – La febbre sta passando … vero, saggio Tibedia? – disse la donna avvicinandosi al letto, mentre il guaritore terminava l’imposizione delle mani sulla fronte del giovane infermo. – Questa benedizione, che scende così abbondante dal cielo, ricaccerà il male … meglio di un potente maestro. – sorrise alla giovane, socchiudendo gli stanchi occhi. – Corri fuori e riempi una brocca tenendola alta sopra la tua testa. Il ragazzo è stremato, deve bere subito! – La donna, solerte, afferrò un orcio appeso in cucina e corse fuori.

La pioggia la investì con violenza. Solo allora si accorse di quanto fosse piacevole essere bagnati fradici. Il sapore dell’acqua. Quanto era passato dall’ultima pioggia? Non ricordava nemmeno l’ultima volta che bevve della vera “acqua del cielo”. Rimase li. I piedi, nudi, immersi fino alle caviglie in una poltiglia di fango liquido. Ma non le importava. Era così piacevole sentirsi scivolare addosso quel nettare.

L’orcio era pieno. Corse rapida, per quanto impacciata dagli indumenti carichi d’acqua. Titubante, si avvicino al vecchio guaritore, porgendogli il vaso d’argilla.  L’uomo bevve un avido sorso. Parve recuperare forza e anni di vita. Avvicinò la mano destra all’imboccatura del recipiente. Si concentrò. Una tenue luce azzurra calò come bruma dalle sue dita, fondendosi con l’acqua. – E ora figliolo, torna da noi – disse sollevando delicatamente la testa del ragazzo. – Il Fabbricanuvole … – sussurrò il giovane, con un filo di voce, dopo che il liquido aveva irrorato le sue labbra, spaccate dalla febbre. – l’ho convinto ci manderà la pioggia … e sarete salvi. –

La donna, ansiosa, gli si avvicinò. Con occhi carichi d’apprensione, interrogava Tibedia. – Mi spiace mia cara, ma temo che la febbre lo faccia ancora vaneggiare – disse, sconsolato, alla donna.

– Forza figliolo … bevi e starai meglio! –

Appena la linfa benedetta gli entrò in corpo, Joanni sentì le forze crescere. Il morbo fluiva fuori di lui, come scacciato da un potente sortilegio. Un sorriso si fece largo sul suo viso. Il volto si distese in una radiosa pace estatica. – Lasciamolo riposare, Madian. È stremato dalla lunga malattia, ma sereno – disse il guaritore posando l’orcio accanto al letto. Accompagnò la donna fuori dalla stanza. – È come se avesse compiuto un lunghissimo viaggio stremante. Ma ora, grazie a questa benedizione superna, tutto andrà bene. Affacciati fuori, già la terra sembra rinata! I pozzi e i fossi si stanno riempiendo. Percepisco il morbo lasciare il nostro villaggio, sconfitto. Li senti i canti di gioia nelle case vicine? – Madian si avvicinò alla finestra e annuì, tendendo l’orecchio verso l’esterno. Vedeva, sul fondo della strada, gli uomini raggiungere la taverna. Quella sera in molti avrebbero festeggiato. – Grazie saggio Tibedia! – disse la donna, stringendo con entrambe le mani il crom, il simbolo sacro appeso alla cintola del guaritore. – Non devi ringraziare me, ma gli dei che ci hanno riportato la pioggia! – Joanni udì le parole del vegliardo, e non poté fare a meno di sorridere beato. Aveva portato a termine la sua missione o lo aveva solamente sognato? In entrambi i casi, la pioggia era tornata. Non poteva fare a meno di sentirsi, a modo suo, veramente un eroe.