IL DOTTOR PHILLIDOR

LONDRA, 14 FEBBRAIO 1873
 
Dalla piccola finestra che dava sul vicolo s’insinuavano tremolando i deboli raggi della luce di un fanale.
Durante la notte ci pensava la nebbia a deviarli, spezzettandoli in fili insignificanti, ma quando alle prime ore del giorno la bruma si diradava un poco, il loro bagliore entrava indiscreto e cominciava a giocare con tutto ciò che incontrava. E, in verità, nell’unica stanza che costituiva l’abitazione del vecchio Geremia, di cose con cui giocare ce n’erano molte. I pochi, necessari mobili erano soffocati a cianfrusaglie d’ogni genere: libri quasi privi di copertina passati tra mille mani, una vecchia lampada a olio, giornali raccolti nei cestini, chissà perché, e la tavolozza usata da un pittore malinconico e vestiti sudati troppo a lungo e la gabbia di un canarino ormai morto e il timone di un peschereccio a riposo e ancora e ancora… tutto ammassato alla rinfusa, tutto senza valore, tutto solamente suo.
Quella mattina il vecchio si era svegliato più presto del solito. Era martedì, giorno di mercato in Fortune Square e lui avrebbe tentato, come ormai faceva da molti anni, di vendere i suoi oggetti accanto alle bancarelle di frutta e verdura. Scostò delicatamente le pesanti, ammuffite coperte e si mise a sedere sul bordo del letto che emise un secco, tetro cigolio d’assestamento.
Sbadigliò a tutta bocca, poi, raccolta la testona quasi calva fra le mani, prese a grattugiarsi le dita sulla barba ispida. Si concesse qualche minuto in quella posizione, aspettando che gli occhi smettessero di lacrimare e solo quando fu sicuro che il sonno se ne fosse andato del tutto si alzò per iniziare la lunga giornata di lavoro.
Sapeva che non avrebbe potuto far tardi al mercato; chi fosse giunto per primo si sarebbe assicurato i posti migliori e avrebbe venduto, per gli altri… le briciole. Non si lavò, faceva troppo freddo, ma si vestì con cura muovendosi a fatica nel suo ciarpame: vagava qua e là nella stanzetta, scavalcando ora questo ora quello, in cerca della sciarpa, della cuffia, del cappotto.
Quando fu pronto fece scorrere con entrambe le mani il catenaccio della porta, l’aprì promettendo a se stesso che un giorno o l’altro avrebbe fatto fare a quei cardini un lungo bagno d’olio e uscì direttamente in strada.
Il delicato, gelido venticello che aveva allontanato la nebbia lo salutò con un inchino la cui ruffiana eleganza gli giunse fin nel profondo delle ossa. Il vecchio, per tutta risposta, tossì un paio di volte e si aggiustò la cuffia sul capo.
Richiusa con cura la porta si diresse sul retro della casetta dove teneva il carretto dei mercati già carico di carabattole e coperto da un telone; afferrò i manici di traino e con un sospiro di rassegnazione cominciò a tirare.
La strada, ancora deserta di suoni e di facce a quell’ora del mattino, era stretta da ambo i lati dagli umidicci muri delle misere case dei poveri.
Per quanto uno si fosse sforzato non sarebbe mai riuscito a vedere il cielo perché quei muri s’innalzavano talmente irregolari nella loro stanchezza che parevano ripiegarsi in prossimità dei tetti richiudendo il viandante in un tunnel di profondo silenzio.
Geremia avanzava faticosamente sul selciato bisunto, a testa bassa, facendo attenzione a non finire con le scarpacce nel rigagnolo di acqua putrida che serpeggiava in mezzo alla strada in cerca di un tombino non intasato in cui scaricarsi.
All’improvviso, dall’ombra di un angolo, emerse un ratto nero come la pece e cominciò a lavarsi in una pozza d’acqua.
Il vecchio si fermò a guardarlo: abitudine, pensò, l’abitudine ci fa accettare qualsiasi cosa… Gli venne da sputare addosso al topo, forse per scaricare quella familiare malinconia che lo stava assalendo, o più semplicemente perché odiava i topo che parevano passarsela un po’ meglio di lui.
Richiamò dai polmoni con un ruggito soffocato un filo di catarro, suo tenace compagno delle notti più fredde, lo appallottolò con la lingua, prese la mira e lo sparò sul bersaglio. “Mancato!” sembrò gridargli l’animaletto quando il missile appiccicoso gli passò sopra la testa… e zampettò via alzando piccoli, irriverenti spruzzi d’acqua.
Geremia riprese a tirare. Superata che ebbe la bottega di Tom Perck, il fabbro suo amico, si trovò in Farm Road dove vivevano ammassati con le loro famiglie in piccole fatiscenti casette gli operai della vicina fabbrica tessile.
Il vecchio rigattiere percorreva quella strada quasi tutti i giorni, ma ogni tanto, per fare prima, imboccava un sentiero erboso che costeggiava un grosso canale di scarico delle fogne. Alzò per un istante gli occhi al cielo, da lì poteva vederlo: lassù, molto in alto, i venti stavano combattendo fra loro una furiosa battaglia spostando senza sosta nuvole multiformi in ogni direzione. Forse pioverà, pensò Geremia, e decise per la scorciatoia.
La stradicciola era quasi impraticabile e dall’acqua stagnante del canale saliva un acre fetore che indusse il vecchio ad alzare la sciarpa di lana fin sopra il naso.
Il passo lesto che si era imposto, il peso del carretto e il suolo sconnesso lo costringevano ad un grande sforzo, così, giunto sul retro della casa dei McGriff, si fermò per qualche istante di riposo.
Ora non aveva più nemmeno freddo, anzi, si allargò la sciarpa sul collo e azzardò qualche respiro profondo dilatando le narici e soffiando sbuffi d’aria spessa, come il fumo di una pipa, e bianchissima: sembrava proprio un vecchio mantice e tossì.
Stava per rimettersi in cammino, di malavoglia, quando un grido acuto si fece strada in quell’aria gelida e maleodorante per giungergli improvviso alle orecchie.
Geremia si guardò intorno più sorpreso che spaventato e ci mise qualche secondo prima di individuarne la provenienza e di mettere a fuoco nella sua mente poco sveglia la situazione. Giù in basso, alla sua destra, sul greto ghiaioso e sudicio del canale, due figure indistinte stavano discutendo a suon di spintoni: quello più alto sembrava il più propenso ad avere la meglio, finché, nella mano dell’altro, non comparve una pistola, costringendo l’avversario a indietreggiare protendendo le mani e a lanciare un nuovo grido d’aiuto.
E l’uomo della strada e il povero e l’ignorante capiscono solo la giustizia del più debole che, appunto perché si trova di molti scalini più in basso, ha sempre ragione anche quando è responsabile di atroci malefatte.
E’ allora che la quantità di sofferenza patita, che come medaglie luccicanti sul petto di un generale, distingue i miseri tra loro, decretando a chi, tra i tanti disgraziati, debbano essere perdonate le furberie e le bricconate a cui la fame e la miseria inevitabilmente conducono.
Se sei grande e grosso, non approfittare dei più piccoli; se sei armato, non affrontare vigliaccamente chi non si può difendere. E fu in base a queste considerazioni che Geremia decise chi dei due avesse ragione e, di conseguenza, bisogno di aiuto.
Fu velocissimo, nonostante la pancia che lo zavorrava più ancora del pesante pastrano: afferrato un mestolo dal carretto, si lasciò scivolare lungo l’argine del canale arrivando improvvisamente alle spalle dell’uomo armato. Con una poderosa mestolata lo disarmò e con un cazzotto in pieno viso lo mandò lungo disteso sulla ghiaia incrostata di brina, privo di sensi. Geremia rimase allora come paralizzato dalla consapevolezza di ciò che aveva fatto: sì, aveva probabilmente salvato la vita di un uomo, aveva tenuto alto il principio di giustizia in cui, nonostante la sua vita di stenti, da sempre credeva, ma che rischio aveva corso.
Il suo cuore stava lentamente rallentando e le mille piccolissime gocce di sudore che gl’imperlavano la fronte presero a riunirsi in esili rigagnoli che sparivano velocemente tra i peli della barbaccia.
E l’altro? Si girò verso di lui: era un uomo alto e magro, come aveva potuto vedere prima di lanciarsi alla carica, ed era anche ben vestito, un signore… e la vittoria sembrò a Geremia un po’ meno piacevole.
Gli venne tesa la mano che il vecchio strinse senza troppo impegno.
“Non so proprio come ringraziarla”, disse la sconosciuto con tono sincero, “lei mi ha salvato la vita, se ne rende conto?”. Aveva un volto magro con le guance infossate e le labbra eccessivamente sottili, ma ciò che maggiormente colpì Geremia furono gli occhi: neri, assolutamente privi di espressione. Il vecchio s’era aspettato di leggervi gratitudine, oppure di rinvenirvi i bagliori della paura di sentirsi attraversare le viscere da una rovente palla di piombo, invece… nulla.
“Ma si rende conto”, proseguì lo sconosciuto, “lei si è scaraventato contro quel criminale armato di pistola (e così dicendo indicò il suo assalitore che giaceva ancora immobile) rischiando la vita! Lei è un coraggioso e io sono l’uomo più fortunato della terra ad averla incontrata nel momento del bisogno!”.
Oh, le parole d’elogio dette con tono elegante e franco, quanto bene possono arrecare ad una nullità.
E chi potrebbe biasimare il vecchio Geremia, uno sciocco ingenuo che nulla sapeva dell’efficacia delle parole gentili o sulle tecniche dell’oratore impegnato ad attirare l’attenzione nella piazza per accattivarsi l’uditore incantato, se in cuor suo cominciò a nascere una frettolosa simpatia per l’uomo che aveva appena salvato?
“Che sbadato”, proseguì quello, “non mi sono ancora presentato: mi chiamo Ben Phillidor e sono un medico”.
“Io mi chiamo Geremia Sullivan e faccio il rigattiere riparatore di vecchie cose, quasi antiquario”. Rispose Geremia cercando di darsi un po’ d’importanza.
E i due si strinsero nuovamente la mano.
Phillidor si mise poi a raccontare con tono sommesso e senza risparmiarsi i particolari di come fosse giunti fin lì, in quel canale di scarico, inseguito dal furfante.
“Sono arrivato questa notte alla stazione, di ritorno da un lungo viaggio. Non ero troppo stanco, ma non vedevo l’ora di tornare a casa; ammetto di essere stato uno sciocco a pensare di percorrere da solo le vie londinesi nel cuore della notte, ma che altro potevo fare? Non ero riuscito a trovare una carrozza e non mi andava di aspettare il giorno sdraiato su una panca come i barboni. Lasciai per comodità le valigie al deposito bagagli e mi incamminai. Ero giunto a metà strada quando udii alle mie spalle un rumore di passi che invano tentavano di mantenere il ritmo dei miei; mi girai abbastanza velocemente per scorgere quel delinquente che si ritraeva in un cantone”.
Si concesse una pausa per assicurarsi che Geremia lo stesse seguendo, poi riprese.
“Il panico mi assalì, non ragionai più e cominciai a correre, e quello dietro a me… Persi quasi subito l’orientamento, finché mi ritrovai in questo canale dove, ormai stanco morto, decisi di provare a difendermi. E siete arrivato voi”.
Concluse con un sospiro.
“L’avete scampata bella”, disse Geremia sorridendo, “e adesso che volete fare?”.
“Vorrei far ritorno a casa”, rispose il dottore, “e vi sarei molto grato se mi accompagnaste; dopo quello che è successo non me la sento di proseguire da solo”.
Geremia avrebbe voluto rifiutare, pensava al mercato e a quanto tempo avrebbe perso, ma Phillidor insistette con tale gentilezza che alla fine il vecchio accettò, convinto anche dalla promessa di una ricompensa che per nulla ferì il suo orgoglio come aveva temuto il dottore.
“Ma che ne facciamo del vostro assalitore?”, chiese Geremia.
Phillidor si passò lentamente la mano sul mento aguzzo, poi disse: “Lo lasci pure dov’è; quando si riprenderà ripenserà due volte prima di assalire un’altra persona”.
Il dottore fece poi cenno al vecchio di seguirlo; si arrampicarono sulla sponda erbosa del canale e, siccome Geremia non aveva alcuna intenzione di lasciare il carretto, ne afferrò i manici, lo girò e cominciò a seguire Phillidor.
Dopo pochi minuti lungo il canale era tornata la quiete. Sul greto del fiumiciattolo melmoso, lentamente, una figura minuta si stava rialzando a fatica; aveva un volto straniero, dalla pelle color bronzo, i lineamenti marcati ed un naso aquilino con le narici leggermente dilatate. Era un volto triste, segnato dalla disperazione da cui tuttavia trasparivano una cieca determinazione e fermezza d’animo.
I due nuovi amici, intanto, avevano percorso la scorciatoia fino all’angolo di Farm Road dove presero la via opposta ad essa, verso Spring Street.
Camminavano lentamente, con Phillidor leggermente più avanti, nel più assoluto silenzio. Il dottore, visibilmente contento, pareva assorto in chissà quali pensieri; Geremia, dal canto suo, tentava invano di interpretare una inconsueta sensazione che lo turbava, e le tante piccole domande senza risposta che quell’insolito incontro gli stava pigiando nel cervello cominciavano ad essere troppe.
Immerso in tale confusione, il rigattiere non s’era accorto di aver voltato l’ennesimo angolo e di essere entrato in una delle zone più lussuose di Londra.
Il dottor Phillidor ruppe il silenzio: “Ecco, ci siamo, quella è la mia dimora”. E così dicendo, indicò una casa, sulla destra, poco più avanti.
Geremia alzò lo sguardo e finalmente si rese conto di come il paesaggio fosse cambiato.
La via era ampia e pulita, senza rigagnoli nel mezzo, senza topi impertinenti.
Le abitazioni che vi si affacciavano erano solide e illuminate da numerose finestre. Le porte d’ingresso erano presentate da piccoli giardini ben curati, anche se, in quella stagione, l’erba era di un verde spento, senza vita, che intristiva il cuore. La casa del medico, come lui con una punta d’orgoglio aveva chiamato la sua dimora, si trovava quasi in fondo alla strada. Non era, a prima vista, dissimile dalle altre abitazioni, ma più Geremia la guardava, più gli pareva estranea a quell’ambiente, chiusa in se stessa, come isolata dal resto del mondo.
Spesse tende color verde impedivano ad occhi indiscreti di vederne l’interno e la porta, che il dottore aveva testé aperto dopo quattro giri di chiave, era massiccia come quella di una cella carceraria.
Geremia aveva lasciato il carretto sul marciapiede ed ora si trovava sotto il piccolo portico dell’ingresso a sbirciare dalla porta appena aperta con riverente curiosità e con un briciolo di qualcosa d’indefinibile che gli stringeva lo stomaco.
Non era più tanto convinto di ciò che stava facendo; quel suo sesto senso che lo aveva aiutato a sopravvivere alla tremenda vita della strada gli stava suggerendo di andarsene, di salutare prima e poi di filare.
Ma Phillidor la sua carta vincente l’aveva già giocata, imponendosi su quel vecchio con il suo forte carattere, con la sua sicurezza nel parlare, con la sua misurata piacevole gentilezza tanto da mettere Geremia in condizione di non contraddirlo, a meno che avesse voluto passare per un cafone, per un villano, per un mulo traina-carretti che prende a calci chi gli offre lo zucchero.
Entrarono e Phillidor chiuse la porta.
Per qualche istante rimasero nel buio più completo, poi, all’improvviso, lo schiocco d’un cerino… e la luce di una lampada cominciò a dissolvere l’oscurità, illuminando un ampio salone arredato con cura.
“Bene”, disse il dottore con tono trionfale, “eccoci qua, ma prego, si accomodi”. E indicò una vecchia poltrona a destra del camino.
Geremia si sedette, appoggiò entrambe le braccia sui braccioli imbottiti, allungò maleducatamente le gambe per rilassare i muscoli affaticati e cominciò a guardarsi intorno.
Il camino era freddo come una tomba sicché la temperatura all’interno della casa era di poco superiore e quella esterna.
L’attenzione del vecchio fu poi attratta da una miriade di piccoli oggetti che occupavano una grande bacheca appesa alla parete di fronte a lui: si trattava di piccole e grandi statuette tra le quali riconobbe quella con forme femminili così accentuate, quattro braccia e lo sguardo nel vuoto. Quella l’aveva vista una volta in un libro, ma non si ricordava chi rappresentasse, una divinità forse. Era terribile il suo sguardo… eppure le mani avevano un che di così aggraziato e dolce.
“Gradisce qualcosa da bere?”. La voce di Phillidor lo distolse da quel curiosare interessante: Geremia rimase in silenzio, solo un momento, poi rispose che un bicchiere di sherry sarebbe andato benissimo, e, mentre il dottore si accingeva a versare il vino, continuò a girovagare con lo sguardo.
Notò che i quadri avevano tutti la medesima cornice e rappresentavano paesaggi esotici dai colori caldi… Frammenti di natura d’altri luoghi.
La parete di destra era nascosta da un enorme libreria occupata da numerosi volumi abilmente rilegati, affiancati per dimensione. Ciò che Geremia stava osservando gli piaceva molto. Vedeva ordine e amore per le cose belle, anche se ricoperte da un notevole strato di polvere, il che era comprensibile visto che il dottore era stato lontano da casa per molto tempo.
“Ecco a lei”, disse Phillidor porgendo all’improvviso un calice di vino color rosso cupo.
Geremia quasi si spaventò; era stato colto di sorpresa in quel suo attento curiosare come si sorprende un ladro con le mani nel sacco. Phillidor si sedette di fronte a lui.
“Allora”, disse, “beviamo alla vostra salute, beviamo alla salute di un coraggioso”.
Si concesse una pausa alla maniera dei grandi oratori, si portò il bicchiere al naso, odorò il liquore roteando dolcemente il polso, poi sollevò in aria il calice dicendo: “Beviamo alla salute di un uomo di buon cuore!”.
E bevve tutto in un sorso.
Geremia non disse nulla, solo ingollò anche lui d’un fiato il suo sherry, che sherry non era.
In pochi secondi fu invaso da un freddo intenso: prima in gola, poi nello stomaco, infine in tutto il corpo.
I nervi gli si irrigidirono, ma non tutti insieme, bensì con agghiacciante simmetria: cominciò a non percepire più le gambe, quindi il tronco gli si fece duro come quello di un albero.
E fu la volta delle braccia, del collo, poi sempre più su fino a paralizzare i muscoli facciali. Per ultimo sentì la pelle del capo tendersi fin quasi a rompersi.
Dopo esattamente un minuto le uniche cose che era ancora in grado di fare erano vedere, udire e sudare, oltre che, naturalmente, essere cosciente di ciò che gli stava accadendo.
Avrebbe voluto gridare, e come se lo avrebbe voluto, e con tutta la forza di volontà di cui si sentiva ancora capace tentò… Niente; le corde vocali erano bloccate, cementate in gola, inerti come il resto del suo corpo.
Giunse allora il panico ad offuscargli la mente: un panico selvaggio, incontrollabile (ma lo era perfettamente visto che non si poteva muovere), alimentato dall’espressione che si stava facendo strada sul volto del suo maledetto anfitrione. Phillidor, che era rimasto calmissimo, lo stava infatti osservando attentamente con l’interesse con cui si osserva un insetto raro appena catturato o una pietra preziosa trovata per caso nella sabbia in riva al mare.
Posò il suo bicchiere sul tavolino accanto alla poltrona e si alzò di scatto cominciando poi a gironzolare per la stanza pensieroso. Si fermò accanto alla statuetta di un ginnasta greco; cominciò a percorrerne il corpo pallido con l’indice e, giunto alla testa, prese a parlare: “Stai per diventare parte di un mondo stupendo, povero ardito straccione, di un mondo certamente migliore di quello in cui vivevi fino a qualche ora fa”.
La voce era sempre gentile, le parole accarezzate da sapienti pause e da toni appropriati.
“Il liquore che hai bevuto era un liquido speciale, composto dagli estratti della clorofilla di tre diverse piante originarie della foresta dell’India meridionale, allungato con alcool. La ricetta, se così mi è consentito chiamarla, è conosciuta solo dai seguaci di un’antica setta religiosa… e da me, naturalmente”.
Il dottore aveva ora ripreso a passeggiare, con una calma sconcertante, dando l’impressione che il tempo, per lui, avesse smesso di esistere.
“Eh l’India”, disse a bassa voce, “che paese stupendo! Credimi, caro amico, se ti dico che è il più bello dei luoghi terreni e se lo dico io che ho girato il mondo, puoi giurare che sia così. Se penso che solo un mese fa mi trovavo laggiù”. Concluse il dottore sospirando.
Seguirono alcuni attimi di silenzio, poi Phillidor si portò di fronte a Geremia, puntò le mani su quelle del vecchio, strette ai braccioli della poltrona, e si avvicinò col naso sottile a quello più grosso del suo prigioniero; i due sguardi si incontrarono.
“Ora”, disse Phillidor, “ti condurrò al posto che ti sei guadagnato, attraverso i ricordi della mia esistenza”.
Detto ciò si diresse in una stanza il cui ingresso, sulla sinistra, era rimasto nell’ombra. Geremia lo sentì aprire e chiudere le ante di un armadio, poi gli sembrò che stesse trascinando qualcosa, finché non fu nuovamente di fronte a lui.
Il dottore aveva portato con sé una sedia a rotelle sulla quale, non senza fatica, sistemò il vecchio paralizzato.
Geremia vide la stanza girare su se stessa, il camino si aprì, digrignando sui cardini arrugginiti, e inghiottì il vecchio in una gola di tenebre nella quale stagnava un soffocante odore di muffa. Un passaggio segreto.
I nervi del rigattiere parvero tendersi ancora di più, mentre gli occhi sbarrati cercavano di abituarsi a quel buio quasi materiale. Phillidor spinse facilmente la carrozzina lungo il corridoio che scendeva verso il basso per chissà quanti metri.
Finalmente sbucarono in una grande stanza che il dottore si affrettò ad illuminare accendendo alcune lampade ad olio che pendevano dal basso soffitto insieme a mille fili di ragnatele. Alla tenue luce delle lampade il vecchio poté finalmente orientarsi a capire dove si trovasse.
Era un ampio vano dalle pareti marcescenti in cui facevano bella mostra, con il loro contenuto, alcune teche di cristallo di varie dimensioni.
“Questo è il museo della mia vita, i miei ricordi”. Mormorò il dottore e, spingendo la carrozzina con nervosa lentezza, cominciò ad illustrare al vecchio il contenuto delle teche con la voce che gli tremava per l’eccitazione.
Geremia ascoltò; che altro avrebbe potuto fare?
Venne allora a conoscenza della storia del mazzo di carte fortunato con cui il medico aveva vinto il suicidio di un uomo; e venne a sapere di come Phillidor si fosse salvato dal crollo di un ponte di corda, durante un viaggio di Nepal, attraverso la fune che lo aveva sorretto e la mano che aveva stretto la fune. Due occhi ormai spenti, galleggianti in un vaso di formalina, erano ciò che restava di chi aveva visto per lui quando, in seguito ad un colpo alla testa, aveva perso la vista per una settimana.
Il rigattiere cominciava a capire. Phillidor aveva speso la vita tra mille avventure dalle quali era uscito sempre intero e, anzi, ogni volta con qualcosa di più. Tuttavia quella macabra collezione voleva ricordare non tanto le avventure quanto la straordinaria fortuna che le aveva accompagnate ad un lieto fine… per Phillidor.
 
… In fondo alla stanza una figura famigliare si muoveva sicura attorno ad un tavolo di marmo su cui era sdraiato un vecchio a torso nudo.
 
“Caro Geremia”, disse il medico palesemente eccitato, “ora manterrò la promessa che stamane, dopo che mi salvasti, feci a me stesso; Ben, mi dissi, grazie a quest’uomo che ti ha salvato la vita, la fortuna è stata ancora una volta la tuo fianco,procurandoti un altro pezzo da collezionare. Ma non tutto di te m’interessa”, continuò il dottore abbassando il tono della voce, “solo ciò che pulsa nel tuo petto farà parte dei miei ricordi, perché, come già ho avuto modo di dirti, tu sei un uomo di buon cuore”.
Si avvicinò con il bisturi al torace del suo “paziente”.
 
Sentì salirgli il sangue alla testa; il suo cervello gridava giustizia… e vendetta.
 
Decise dove praticare il primo taglio.
 
Strinse con entrambe le mani il calcio della pistola che gli danzava davanti agli occhi al ritmo del suo respiro.
 
Avvicinò la piccola lama alla pelle.
 
Tirò il grilletto.
Un bagliore illuminò il corridoio che portava alla stanza…
Il proiettile incandescente sibilò nell’aria sfiorando le ragnatele e si piantò nella testa di Phillidor che cadde all’indietro, fulminato.
Il colpo improvviso aveva fatto sobbalzare Geremia che scoprì di potersi muovere, a fatica.
Girò lentamente la testa verso la porta e lo stupore fu grande quando riconobbe nel giovane di bassa statura dal viso abbronzato il ladro che aveva affrontato nel canale.
“State bene?”, gli chiese lo sconosciuto avvicinandosi. Parlava un inglese goffo, ma il lieve sorriso che gli addolciva il volto fu sufficiente a Geremia per capire di essere salvo.
Lo straniero lo aiutò ad alzarsi e lo fece sedere sulla sedia a rotelle.
“So che le ha fatto bere la sua maledetta bevanda, ma l’effetto non dura a lungo. Tra qualche minuto potrà camminare di nuovo”. Detto ciò prese a camminare tra le teche con fare inquieto.
Si fermò di fronte a quello che sembrava essere un mobile, ricoperto da un telo di pesante velluto rosso. Allungò la mano incerta, strinse il drappo e tirò rivelando ciò che stava cercando: chiuso nella sua gabbia di vetro era malamente conservato il corpo di una donna. Indossava uno splendido abito di foggia esotica ornato di perle e ricami multicolori. Il volto, quasi irriconoscibile, era coperto da un velo. E lo straniero scoppiò in lacrime.
“Riuscite a camminare?”, chiese all’improvviso a Geremia con un filo di voce. Il vecchio ci provò: barcollava un po’, ma si reggeva in piedi.
Lo sconosciuto lo aiutò ad attraversare il passaggio segreto e ad arrivare all’entrata dell’abitazione di Phillidor.
“In India il dottore era ricercato dalla polizia”, disse mentre camminavano, “perché ritenuto responsabile di strane faccende. Mia sorella s’innamorò di lui e quando sembrava essere finalmente in trappola lo aiutò a fuggire. La portò con se”.
Si interruppe mentre uscivano dal camino, fece un respiro profondo e riprese a parlare: “Tre mesi fa fece l’errore di tornare nel mio paese credendo che nessuno lo avrebbe riconosciuto, ma io lo stavo aspettando, sapevo che sarebbe tornato, amava troppo l’India e nemmeno la paura di una condanna e del carcere sarebbero riusciti a tenerlo lontano. Quando s’imbarcò per tornare in Inghilterra lo seguii di nascosto; volevo vedere cosa aveva fatto a mia sorella. Al canale era finalmente nelle mie mani, finché non siete arrivato voi”. Geremia si sentì proprio uno sciocco, ora che capiva con quanta facilità aveva giudicato la situazione, e mandò al diavolo gli insegnamenti della strada e il suo dannato senso di giustizia.
“Quando mi sono ripreso”, continuò l’altro, “sono salito sulla sponda del canale dove ho trovato le tracce del carretto che, dopo una corsa disperata per vicoli e stradine, ho ritrovato fuori da questa casa… sono arrivato in tempo!”.
Il vecchio ringraziò con lo sguardo, poi chiese: “Cosa farete ora?”.
“Tornerò nel mio paese”, rispose quello, “ed è meglio che voi torniate a casa”.
Non aggiunse altro. Riattraversò il passaggio del camino e sparì nel buio del cunicolo.
Geremia si massaggiò i muscoli delle gambe che finalmente avevano ripreso vigore, poi scese in strada, afferrò i manici di traino e cominciò a tirare. Al solito.
Lo aspettavano giorni nebbiosi di lavoro per dimenticare e notti agitate per ricordare, ma, come si stava lasciando alle spalle quella strada così pulita, si sarebbe scordato prima o poi anche di quella giornata.
Pensò alle sue cose vecchie, raccolte senza un motivo… la sua misera collezione. Aveva fatto solo pochi passi in quel pensiero, quando gli venne da chiedersi se, in fondo, lui e Phillidor fossero…
No! Si rifiutò di procedere oltre; si rifiutò!
 
Originariamente pubblicato sul numero 1 SPECIALE FUORISERIE de LA ZONA MORTA, dicembre 1990

Corretto e ampliato per il sito LA ZONA MORTA, aprile 2007

14/04/2007, Stefano Vietti