SHAMANDALA 03: GLI SMILZI DI VALNERA

Le tre Streghe si  trovavano isolate nel palazzo di ghiaccio, bloccate all’interno di blocchi gelidi, uno per ciascuna. Non potevano parlare fra di loro ed era stato fatto un incantesimo che impediva loro qualsiasi tipo di comunicazione non verbale. I blocchi che le ospitavano erano stati posizionati in modo che esse non potessero nemmeno comunicare con lo sguardo. Era stata presa ogni tipo di precauzione per non farle mettere in contatto, per evitare qualsiasi tipo di insurrezione. Nonostante questo, non erano state fiaccate nell’orgoglio, mantenevano quell’aria di sfida che le aveva sempre caratterizzate e si vedeva che consideravano questo momento di prigionia come una semplice pausa, un impedimento momentaneo alla conclusione della loro missione. Dovevano portarla a compimento, era lo scopo della loro famiglia. Ero curiosa di sapere se i kanut che le osservavano avevano notato dei cambiamenti nelle prigioniere, specialmente sapendo quanto era successo ai Semi del Male. Scesi le scale che conducevano ai sotterranei, accompagnata da Jungerer, uno dei miei fratelli. Preferivamo non scendere mai da soli: se qualcosa andava storto, una strega poteva uscirne piuttosto male se si scontrava con tre streghe incattivite. Sulla porta d’ingresso della stanza che custodiva i blocchi, ci promettemmo di stare in guardia, quelle tre avrebbero potuto manipolare le nostre menti, anche se dentro il palazzo di ghiaccio i loro poteri erano meno efficaci. Entrai prima io nella stanza, seguita da mio fratello. Mi accorsi che le Streghe si erano accorte della nostra presenza, emettevano rumori striduli, come grida appena soffocate. Mi piazzai davanti al blocco della Stregona dell’acqua. Lei mi guardò con aria di sfida. Le permisi di parlarmi.

« Sei venuta a vedere come stiamo, Strega. E lo so perché sei venuta, ti si legge in faccia. I Semi del Male stanno trasformando il loro aspetto, non è vero? Cosa ti aspettavi, pensavi che sarebbero rimasti immutati nel tempo?». Rimasi perplessa: come faceva a sapere dei Cristalli?

« Ricorda: Vlore ed Olaf sono solo momentaneamente sconfitti. Ritorneranno e per i tuoi protetti e per te non ci sarà via di scampo.».

La mano di mio fratello sulla spalla mi fece sussultare, ero rimasta allibita per quanto appena udito. Ce ne andammo dalla prigione e parlammo di quanto mi era stato detto. Jurgerer era preoccupato quanto me per quello che aveva dettola Stregona, non eravamo affatto pronti ad un nuovo scontro con Vlore ed Olaf. I Semi del Male andavano distrutti e avevamo bisogno dei Durpazi, i Creatori, gli unici che potevano occuparsi di queste cose. Ma questi erano impegnati e a noi non rimaneva che aspettare. L’attesa mi logorava.

Pensai ad Isa, se era successo qualcosa in questo periodo in cui non ci eravamo viste, se aveva fatto incontri strani e se la sua caccia agli spiriti proseguiva senza gravi intoppi. Ero agitata e mi agitavo nello stesso tempo perché sapevo di dover mantenere la lucidità necessaria se si fosse verificato qualche problema. Non potevo nemmeno controllare i Semi del Male: dovevo aspettare le precise indicazioni di Grüne, ma temevo che sparissero o che si trasformassero ulteriormente. Nell’attesa di novità a palazzo, decisi di andare da Isa.

Era una notte bellissima e limpida e il cielo era pieno di stelle. Nella campagna intorno all’abitazione dei Capofreccia c’era una calma e un silenzio indescrivibile, ma era tutta apparenza: se chiudevo gli occhi sentivo brusii di fantasmi disperati che camminavano trascinandosi malconci per il sentiero. Se aprivo rapidamente gli occhi riuscivo a vederli di sfuggita e vedevo il cielo diventare purpureo, pozze di sangue emergere dal terreno, in ricordo delle mille battaglie combattute in questi luoghi. Anche la prima volta che giunsi qui era in atto una tremenda battaglia, talmente atroce che a Idropante e a me fu impedito di proseguire il nostro cammino.

Per raggiungere la località di cui parlava Idropante, il conte Auteramo ci aveva suggerito di prendere un sentiero che dalla città portava presso un fiume, un piccolo fiume che verso la pianura si gettava in un altro corso d’acqua. Seguendo quest’ultimo, saremmo giunti a Fara. Era la strada migliore da prendere: effettivamente seguendo i corsi dei fiumi non potevamo perdere la via e inoltre non rischiavamo di morire né di fame né di sete. Sul dorso dei nostri cavalli, iniziammo il nostro viaggio. Sarebbero serviti almeno quattro giorni di cammino e dovevamo fare in fretta, perché sapevamo che si trattava di un territorio problematico: Fara era stata fondata dai Longobardi e si professavano tali i suoi abitanti. Pertanto non avevano accettato di buon grado i nuovi signori. Si erano opposti con tutte le loro forze e, a differenza di quanto era successo in città, riuscivano a tenere testa ai Franchi, che secondo i dispacci che ci aveva mostrato Auteramo, erano davvero sotto scacco. Idropante aveva il compito di intervenire. Durante il nostro viaggio lo vedevo turbato, raccontava che non gli piaceva troppo l’idea di andare a imporre la propria autorità su altre persone. Era un dovere per lui, un obbligo imposto dal re, quella persona che gli aveva permesso di vivere degnamente e di ricevere un’educazione. Era fuori discussione non obbedire, ma lo faceva controvoglia, era come se si sentisse ricattato. Gli domandai se sapeva qualcosa sulle sue origini: se fosse stato un bastardo o il figlio di una schiava non avrebbe certo fatto quel tipo di vita. Non sapeva cosa rispondere, non se ne era mai curato troppo. Aveva solo risposto che a volte farsi troppe domande era come torturarsi.

Camminavamo lungo il corso del piccolo e turbolento fiume già da due giorni, doveva essere sul punto di gettare le sue acque nell’altro corso più grande, che poi proseguiva ancora più a sud. Argenteo, correva tra le rocce e la nebbia, stava per calare la notte e avevamo bisogno di riposare. Ci si prospettava un’altra notte all’addiaccio, quando incontrammo sul nostro cammino un piccolo villaggio, costruito su uno strapiombo che dava sul fiume, in prossimità di una piccola chiesa di grosse pietre grigie. Potevamo chiedere asilo, non era necessario che informassimo i contadini chi eravamo in realtà, semplicemente eravamo due pellegrini che si erano smarriti. Ci sembrava una buona scusa che ci avrebbe permesso di appoggiarci per quella notte ai villani. Per quanto mi riguardava, decisi di fingere di avere il viso mutilato, mi coprii con un velo per impedire che gli altri vedessero la mia cicatrice.

Bussammo alla prima porta che incontrammo.

« Scusate, buon uomo, l’ora e il modo. Siamo due pellegrini, ci siamo perduti e non sappiamo dove andare a coricarci. Vi chiedevamo asilo per questa notte, se possibile anche qualcosa per mangiare. Se non è troppo disturbo vorremmo stare nella stalla.».

L’uomo che ci aveva aperto la porta, un tizio piccolo e tozzo, dalle grosse mani e dal colorito paonazzo, ci sorrise e ci invitò subito ad entrare. Ci fece accomodare alla sua tavola, ci fece portare dalla serva due scodelle e vi versò dentro della zuppa calda. Poi tagliò due pezzi di polenta e ce li porse. Martius era davvero molto gentile. E ciarliero.

« Pellegrini, mangiate pure tutto quello che volete. Intanto farò preparare per voi due giacigli nella stalla. Purtroppo non posso concedervi altro, sto sistemando la mia dimora, dopo l’ultimo attacco era ridotta ad una rovina. Il mio nome è Martius, sono il signore di questa manciata di casupole.».

« Siete stati attaccati, signore?» chiese Idropante.

« Sì, ormai più di quattro lune fa. Quei maledetti che corrono su e giù per il fiume, sapete? Deve esserci in atto una guerra per il potere. E’ per quello che si combatte, alla fine. O per la  terra o per la prepotenza degli uomini. Penso che in questo caso stiano combattendo per la terra. A me l’unica cosa che interessa è che ci lascino in pace, siamo gente semplice, ma non siamo mica stupidi. Stiamo costruendo un recinto per chiuderci dentro. Non vogliamo guai.».

Il suo aspetto gioviale era alterato da uno sguardo velato di tristezza: raccontò che durante l’attacco subito quegli strani cavalieri si erano portati via il figlio, l’unica persona che rimaneva della sua famiglia. Ricordava perfettamente quanto era accaduto, in quella notte di luna piena. Dopo il pasto serale, si stavano preparando per andare a letto quando, ad un certo punto, sentirono nitido come non mai l’urlo di una donna. Uscirono dal loro piccolissimo castello e videro dei cavalieri magrissimi e altissimi, come delle lunghe ombre, con fiaccole in mano, intenti a bruciare le casupole del villaggio, a sgozzare i bambini e a stuprare le loro madri. Un senso d’impotenza aveva preso l’uomo, che non aveva ricordato di avere una spada con cui potersi difendere e aiutare la sua gente. Raggelato, non aveva  blaterato nessuna parola quando uno dei cavalieri caricò il suo ragazzo, che non era che un fanciullo,sul suo scheletrico destriero e se ne andò. Martius, come gli altri sopravvissuti, se ne rimase nella piazza del paese come inebetito, mentre il villaggio andava a fuoco. Dopo questa vicenda, dopo che ognuno ebbe pianto per i propri congiunti, col cuore più indurito che mai, si provvide a rimettere a posto il villaggio, ricostruendolo e fortificandolo.

« Ogni tanto li vediamo passare quei bastardi,sapete, in lontananza. Li osservi mentre corrono in sella ai loro cavalli, mentre urlano per farti avere paura. Qua non sono più tornati, per fortuna, ma hanno fatto la stessa cosa che hanno fatto a noi in altri villaggi. A me rimane il terrore per quello che può essere successo a mio figlio, non aveva ancora quindici anni, era l’unico figlio che mi era rimasto.».

Finimmo la cena in silenzio, poi fummo accompagnati nella stalla. Ringraziammo il signore per la sua ospitalità e andammo a dormire.

Quando Idropante congedò il padrone di casa, chiudendo il portone mi disse che pensava che quei cavalieri non fossero dei semplici soldati ma che fossero gli Smilzi di Valnera. Questi esseri, provenienti da una remota valle dove si parla un idioma sconosciuto, erano esseri discendenti di una strega che aveva fatto un patto con il Diavolo. Questa donna era stata allontanata dal resto della sua tribù perché, secondo la tradizione, aveva l’abitudine di rosicchiare le ossa dei compagni che morivano a causa della fame e degli stenti. Sempre secondo quelle dicerie, la donna recuperava le carcasse di notte, mentre gli altri dormivano, e, dopo aver compiuto il suo spuntino, sistemava le ossa in modo strano, leggendo in quelle posizioni dettagli relativi al suo futuro e  a quello di chi le stava intorno. Idropante continuò il suo racconto dicendo che sicuramente la donna sapeva che sarebbe stata cacciata dalla tribù: non si ribellò, andò a sistemarsi in una grotta sperduta di quella valle che è conosciuta con il nome di Valnera e, quando venne visitata dal Demonio, gli chiese di avere dei figli da mettere al suo servizio. Il Diavolo acconsentì, ma Idropante non sapeva più niente di quella leggenda, che gli era stata raccontata appena giunto in questo territorio con Carlo Magno.

Quindi, gli domandai, sospettava che questi cavalieri fossero i discendenti di quell’unione balorda. Lui annuì. Pensava inoltre che avessero preso il ragazzo di Martius per farne uno di loro. Dovevamo salvarlo, forse era ancora possibile fare qualcosa. E poi questi Smilzi erano dei non morti di cui Idropante voleva sbarazzarsi. Disse che dovevamo stare vigili: ci sistemammo sui nostri giacigli con occhi sbarrati, attenti a qualsiasi rumore udissimo.

Mentre Idropante se ne stava tranquillo e tentava di riposare un pochino, io riflettevo su quanto sentito poco prima. Gli Smilzi di Valnera, progenie del Demonio e di una strega, erano dei non morti al soldo di qualcuno, ma di chi? Ritenevo poco probabile che la loro “madre” fosse una strega come me. Una tizia che leggeva il futuro in ossa incrociate era semplicemente una negromante e, essendo un’umana, doveva essere morta già da un po’. Che il suo spirito fosse rimasto sulla terra per comandare i suoi innumerevoli “figli”? Le mie riflessioni furono interrotte da un grido selvaggio che si udì in lontananza, proveniva dai campi che si allungavano verso il fiume. Idropante si drizzò in piedi e corse subito al portone della stalla: proprio da dove provenivano quelle urla acutissime si vedevano i cavalieri con i loro destrieri e delle fiaccole accese in mano. Non servì nemmeno che lo domandasse: ero già pronta a partire per vedere dove andavano. Con quelle torce infuocate non sembrava che avessero intenzioni pacifiche, anzi, era evidente che volessero seminare il panico nelle campagne della zona. Dovevamo fare qualcosa. E poi, seguendoli, forse avremmo scoperto da chi erano manovrati.

La notte era freddissima e l’aria tagliava la pelle  come se fosse una lama ben affilata. Gli Smilzi di Valnera correvano piuttosto velocemente, ma riuscimmo a riprenderli. Ci fermammo poco distanti da loro, che si erano fermati a loro volta. Non riuscivo a leggere nelle loro menti, erano protetti da una bolla violacea che tratteneva tutto quello che si dicevano fra loro e che pensavano. A nostro svantaggio giocava anche il fatto che le condizioni atmosferiche erano buone. Niente temporali, niente Idropante cacciatore.  Dovevamo assolutamente escogitare qualcosa. La situazione precipitò quando gli Smilzi ripresero la loro corsa verso un mucchietto di casupole impastate col fango che si trovavano poco distante.

« Ecco dove vogliono andare!» mi gridò Idropante. Gli Smilzi avevano già dato fuoco alla prima capanna, gli abitanti ne stavano uscendo disperati e il massacro stava per cominciare quando io mi intromisi. Di questa faccenda dovevo occuparmene io, il potere di Idropante non era adatto contro quello demoniaco degli Smilzi. Scesi dal mio destriero e provocai una scossa di terremoto battendo un piede a terra. Gli Smilzi si fermarono all’istante e guardarono tutti verso di me, che mi stavo avvicinando a loro. Non riuscivano a vedermi; con un gesto della mano spaccai la terra sotto i loro piedi, per fare in modo che non fuggissero. Intanto chiesi ad Idropante di occuparsi dei villani. Gli Smilzi sibilavano, vedevo le loro lingue biforcute muoversi nell’aria e i loro artigli graffiare la terra in cui erano incastrati. Appena fui visibile, mi sputarono addosso il loro veleno. Uno sputo mi colpì la mano, bruciandomela. Roteai gli occhi ed iniziai una danza stranissima ed irripetibile e sussurrai col pensiero queste parole: « Su ki Dimoniu otrassu ghidipi! Dittalama nizeia!».Gli Smilzi bruciarono all’istante, la stessa sorte toccò ai loro destrieri. Il pericolo era scampato, i villani, per quanto spaventati, erano più sereni al pensiero che sarebbero stati di nuovo al sicuro. Ci accorgemmo di uno Smilzo sopravvissuto nel momento in cui tutti furono rientrati nelle loro casupole. Ci avvicinammo, Idropante lo toccò con il fodero della spada e, quando vedemmo il suo viso, capimmo che eravamo davanti al figlio di ser Martius. Il processo per renderlo uno Smilzo non era del tutto completato e l’incantesimo che avevo fatto aveva eliminato la sua parte demoniaca.

« Dobbiamo riportarlo da suo padre, Shamandala.» disse Idropante, caricandolo sul cavallo. Ero d’accordo, ma prima di consegnarlo al padre era necessario sottoporlo ad un rituale che gli permettesse di cancellare dalla sua mente e dal suo corpo quest’esperienza. In caso contrario, se ci fossero stati altri Smilzi, questi sarebbero venuti a prenderlo nuovamente.

Appena tornati nella stalla, lo feci adagiare sul fieno, gli avvolsi il capo con una pezza e tolsi dalla mia sacchetta tre pietre di fiume, mettendone una su ogni occhio e una sulla fronte. Poi meditai, raccontai al ragazzo cosa leggevo nel suo animo per fare in modo che la sua vita riaffiorasse nella sua memoria. Era quasi l’alba e con un pugnale gli tagliai i polsi: dalle ferite uscì il liquido verdastro che gli Smilzi mi avevano sputato addosso. Una volta che il veleno uscì completamente, ricucii le ferite al ragazzo semplicemente sigillandole con le mie dita. Tolsi le pietre e il panno dalla testa del ragazzo e chiesi ad Idropante, che era stato accanto a me durante tutto il rituale, di andare a chiamare Martius, poiché il suo ragazzo avrebbe ripreso conoscenza in breve tempo. Quando il padre entrò nella stalla, vide suo figlio seduto, un po’ affaticato, ma sorridente. Non avevano parole, l’uomo per aver ritrovato un figlio che pensava perduto, e l’altro, che non sapeva raccontare cosa gli era capitato.

Partimmo nuovamente per Fara, con la promessa che se avessimo avuto bisogno di qualcosa avremmo potuto contare sulla disponibilità di messer Martius. Ci sentivamo sereni, contenti di riprendere il nostro cammino, senza immaginare minimamente che l’episodio accaduto non era isolato, ma era l’inizio di una battaglia che ci avrebbe fatto incontrare di nuovo gli Smilzi.

Isa si spaventò molto quando, aprendo gli occhi, mi trovò ai piedi del suo letto: non era più abituata a queste mie entrate furtive. Appena si riprese, le raccontai quanto stava accadendo al palazzo di ghiaccio. Ascoltò attentamente e poi, grattandosi la testa, mi disse che anche sua madre aveva notato che qualcosa stava cambiando nelle pietre blu  che avevano recuperato dopo che erano state attaccate da quella serpe mandata dagli Stregoni. La madre di Isa raccontava che le gemme erano diventate rosse come rubini e scottavano, tanto che erano giorni che non venivano spostate dalla cassa di piombo che le conteneva. Doveva esserci un legame con i Semi del Male, ma quale? Chissà se Grüne, a colloquio con i Durpazi, era riuscito a scoprire qualcosa in più.

« Quindi mi tengo pronta per ballare di nuovo: bene! Mi sto annoiando ultimamente!» disse Isa. Me ne andai promettendole che mi sarei fatta vedere al più presto possibile e che, se avesse avuto bisogno, mi sarei subito presentata. Andai al palazzo. Grüne doveva aver terminato il suo colloquio con i Durpazi.

Roberta Lilliu