POST BLUE

Bologna, Borgo Panigale. Otto e dieci del mattino.

C’è una pioggerella sporca oggi, che picchietta sui vetri delle auto incolonnate verso Modena. Gas di scarico, sciabordio di gomme sulle pozzanghere e un freddo che ti scava nelle ossa come un coltello da macellaio.

Le prostitute di via Rigosa sono arretrate fin sotto alla tettoia del distributore di benzina. Ridono sguaiatamente, giarrettiere e cosce in bella mostra. Non ne hanno mai abbastanza.

Dal bar che si affaccia sull’incrocio sbuca un damerino in giacca e cravatta, ai piedi un paio di scarpe di vernice nera che ricordano quelle di un ballerino di tip-tap. Corre e si sbraccia, cravatta al vento, mentre l’autista del bus-navetta suona il clacson. Il damerino s’impala davanti al rosso pedonale e freme, un uomo gli poggia la mano sulla spalla come a rassicurarlo. O a contenerlo. Il damerino scalpita. In bocca ha il retrogusto amaro di un caffé sbevucchiato in tutta fretta, le briciole del cornetto appiccicate alla giacca. Una giacca di gran valore, per la cronaca, comprata grazie alla liquidazione dell’azienda dove lavorava come ingegnere. Il resto del suo guardaroba occupa ben tre portapacchi della navetta, venti chili di abiti firmati che non gli serviranno mai. Non nel posto dove sta andando.

Dai finestrini della navetta, i compagni lo incitano con grida selvagge. Sembrano una torma di studenti in gita, ma l’età e le griglie ai vetri li tradiscono.

«Miki, Miki!» gridano in coro e per poco quello non prende il volo sopra una pozzanghera viscida come l’acqua saponata. L’autista s’innervosisce e lo acceca con un flash d’abbaglianti mentre uno sbuffo di aria compressa spalanca le porte della navetta.

«Alla faccia della pisciatina» mugugna.

«Il signorino ha voluto far colazione» ribatte il collega asciugandosi le mani bagnate sui pantaloni. La visiera del suo cappello d’ordinanza è fradicia. E’ stato mal ripagato per quella debolezza di accontentare Miki.

«La prossima volta te la fai addosso.» L’autista digrigna i denti. Conosce Miki da nemmeno tre giorni, eppure lo ha già preso di mira. Tipico di Miki, aver stampato in fronte la scritta “bersaglio” fin dai tempi della scuola. Essere incontinente non lo aiuta. Ieri i bulli all’uscita del liceo, oggi i compagni di sventura che gli tirano i capelli da dietro i sedili.

«Ehi femminuccia, svuota le tasche!»

La rabbia si allarga nello stomaco, mercurio bollente che risale in gola bruciando tutto ciò che incontra: parole, razionalità. Perfino gli occhi vedono come attraverso il vapore di una pentola sul fuoco.  Ma la paura, quella non la caccia via nessuno. Il coltellaccio di quei brutti ceffi che pungola lo sterno, il rivolo di urina calda che corre tra le gambe. E questa forza stretta in pugno, inerme, inespressa… nessuno gli ha mai insegnato a difendersi e sua madre che a diciotto anni suonati ancora gli dice di fare il bravo, ancora gli cambia le lenzuola ogni mattino come un poppante. Il cucciolo di casa, il cane dei bulli a scuola.

Quante pagine di diario Miki ha riempito da giovane. Fosse oggi, farebbe un bel post sul Blog personale e forse qualcuno lo aiuterebbe, magari prima di arrivare a quella tragica confessione informatica che l’ha condotto in tribunale.

«Hai capito, idiota?» L’autista rincara la dose.

«Sbirro bastardo» gracchia Miki salendo a bordo. Eppure dovrebbe saperlo che a reagire è ancora peggio.

L’autista dà un’accelerata che lo scaraventa a gambe levate per lo stretto corridoio tra i sedili. Atterra di schiena su quella specie di bava di lumaca lasciata dagli ombrelli, la camicia che gli esce dai pantaloni troppo larghi.

«E che Cristo!» grida il Dottor Chiarini dall’ultima fila, doc per chiunque lo conosca da più di un giorno. L’autista incassa la testa nelle spalle e si sorbisce la ramanzina mentre Miki piagnucola. «Stronzo!» grida menando i pugni per aria.

Doc scatta in piedi e gli prende le mani. «Va tutto bene», dice cercando di spegnere la vena scarlatta che si contorce negli occhi del suo paziente.

(Miki’s Blog. Post del 12 aprile 2011)

Paura del buio? Adesso ve lo dice il Miki come si fa. Stanotte mi si para davanti questo tizio con un coltellaccio, io ho appena prelevato al bancomat. «Ehi femminuccia, svuota le tasche!» dice ridendo, sicuro del fatto suo.

Mi sono rivisto brufoloso e occhialuto nel cortile del liceo, vent’anni in meno e quegli schifosi che mi costringevano a pisciarmi addosso dalla paura. E’ stato allora che ho sentito il click, quel maledetto relé difettoso che finalmente funzionava.

«Crepa!» sono scattato e gli ho rifilato una testata al naso. Quello mica se l’aspettava, ha perso la presa… allora ho afferrato il suo stupido coltello e gliel’ho ficcato in gola. Quante volte non so, alla fine gli ho quasi cavato la testa. Bel lavoro, Miki!, mi sono detto. Se solo lo avessi fatto ai tempi del liceo forse non sarei incontinente. Sono uscito dal bozzolo, volo, una sorta di dopo-Miki, post-Miki… boh… sono un ingegnere non un filosofo. So solo che sto da Dio.  

La forza calma di doc vince. Miki si siede e si ficca le cuffie in testa. Il ticchettio sincopato dello Speed Metal fa storcere il naso al suo vicino, ma Dino è troppo buono per protestare. Troppo.

«Hai capito?» dice parlando allo schienale di fronte a lui dove siede un cinquantenne con la bava alla bocca e gli occhi semichiusi. «Io sono buono, io sono educato.» Dino conta i suoi “difetti” sulla punta delle dita. «E tutti se ne approfittano. Quell’arpia di mia madre, per esempio.»

«Sssh!» lo zittisce una testa ricciuta che si agita sul sedile dietro al suo. Ester.

«Sì, quella cornacchia» rincara la dose Dino. «Dinuccio sei sordo? Dinuccio, cambiami il pannolone, Dinuccio accendi la tele, fammi da mangiare.»

«Se siedi in riva al fiume, prima o poi passerà il cadavere del tuo nemico.» Ester ha letto di recente “101 Storie Zen”ricavandone una massima per tutti, anche se quella di Dino è particolarmente azzeccata. Labbra sottili ma piene, occhi verdi, boccoli ramati che scendono su un collo latteo: Ester è la carnalità fatta persona. In grembo, carezza Tobia, un gattino da cui non si stacca mai. La sfilza di segni di sutura che marchiano la pancia dell’animaletto rovina quello che, nell’insieme, sarebbe un quadro degno di un impressionista. Ester scrive un nome sull’alone di condensa nel vetro: Edipo.

(Forum al Femminile – Post del 15 giugno 2011)

Il mio problema è Roberto, mio figlio quattordicenne, un ragazzino mentalmente iperdotato appena entrato nell’adolescenza. Mio marito lo idolatra per quella storia di aver saltato le prime due classi delle scuole superiori per meriti acquisiti, di come ha ereditato genialità e sregolatezza dal nonno. A me fa paura. Stamattina mi è piombato in bagno mentre ero mezza nuda e qualcosa gli passava dietro gli occhi, non so se un pensiero cattivo. “Sei bella” mi ha detto. Qualcuno sa aiutarmi? – Ester

 

Commenti (4)

Anna – Ma lo sai che sei strana? Bella mamma davvero, se potessi ti denuncerei!

Puffetta80 – Tutti passiamo momenti del genere coi figli. Un kiss, su col morale e… parlane con tuo marito.

JaneEire – Vedrai che si risolve tutto. A proposito… tutti cervelloni in famiglia?

Doyle47 – Fai più sesso…ovviamente con tuo marito.

 

(Forum al Femminile – Post del 20 giugno 2011)

Sono entrata in camera sua e c’era sangue ovunque. E il nostro gattino, Tobia… aveva la pancia aperta, le viscere di fuori. Mi girava la testa, tutto quel tanfo d’incenso, candele, sangue. E Roberto nudo, in piedi al centro di un pentagono tracciato col gesso sul parquet, Mi sorrideva, mi faceva motto di entrare con solennità, neanche fossimo in una sala da the. Avanzava brandendo il coltello e con lui si muoveva un’aura strana e conturbante… finché non ho visto l’erezione. Insomma mio figlio, la creatura che ho partorito! Allora ho preso la mazza da baseball poggiata all’angolo e ho cominciato a colpire e a colpire e il gattino piangeva e io pensavo che avrei dovuto chiamare il veterinario, mio marito…

(commenti bloccati)

Dino si zittisce, vergognoso. Ha fatto la figura della pettegola, quando lui è invece un pacifista convinto, uno di quegli esteti che amano l’arte, i musei e il cinema d’autore.

«Non la volevo uccidere» singhiozza.

«Ma non l’hai uccisa» ribatte Ester. «Tua madre ha preso fuoco col materasso per colpa di una sigaretta che tu le avevi detto di spegnere.»

«Sì ma io l’avevo sperato… tutte quelle ore a pulire escrementi, quel culone schifoso. Io lo volevo! I miei pensieri l’hanno uccisa.» Dino si nasconde il viso in palmo. Per questo è assieme a tutti gli altri. Per non far male a sé stesso, come ha scritto il giudice nella sentenza.

«Ci sono giorni in cui vorrei sparire» sospira con voce strozzata.

«Non durante il mio turno, voglio sperare.» Doc scocca un’occhiata circolare. La navetta si sta inerpicando sul dolce pendio della collina, l’aria e lo smog di Bologna lontani chilometri. Perfino la pioggia ha un profumo diverso, sa di erba tagliata, di terra vergine. «Il centro di recupero vi aspetta, datevi una possibilità.»

«Fosse per me li avrei lasciati in galera» borbotta l’autista.

«Sono stati tutti assolti» ribatte il Dottor Chiarini.

«Sono schizzati» mugugna l’autista. Stacca la mano destra dal volante per disegnarsi un cerchio sulla tempia col dito indice, nel noto gesto.

«No. Lasciati in pace non avrebbero fatto male a una mosca.» ribatte doc con la consueta pacatezza. «Oggi si ama tanto fare statistica: loro sono la devianza dalla media, il percentile di cui nessuno spera di far parte, lo zero virgola zero uno percento di persone a cui capitano eventi così inconsueti da essere ritenuti impossibili. Nessuno si domanda cosa avrebbe fatto al loro posto, la società stessa non vuole che ce lo domandiamo. Sarebbe come se una formica si chiedesse cosa accadrà se qualcuno darà fuoco al suo formicaio. Sarebbe il panico, non muoverebbe più una zampa, la fine di un’intera specie. Amo definire questo stato come “post blue”. Blue in inglese significa tristezza. Pensi al dopo sbronza, amico autista: barcolli, cerchi un appiglio, non ti riconosci più. Così queste persone. Hanno vissuto un evento che le ha scaraventate al di fuori delle certezze di una società civile organizzata e adesso ne pagano il prezzo. A pensarci bene soffrono anche per lei, essere umano in perfetta media statistica.»

I cancelli del centro d’accoglienza si spalancano. L’autista si gratta la testa pensieroso mentre le infermiere sciamano attorno alla navetta come profumate api operaie.

Eva Bassa