CANTANO LE SABBIE
di Stefano Palumbo
Un timido refolo freddo accarezza le antenne di Asha.
Senza mollare le redini di Sabbia, alza lo sguardo dalle dune giallastre, verso il cielo sgombro. Vento delle montagne, vento di bufera. Il deserto mormora il proprio malumore.
Anche Yokotan, in testa alla carovana, se n’è accorto. Ruota sulla groppa del suo Scorpide, il guscio di chitina verde che brilla sotto il sole alto, la guarda, una domanda silenziosa negli occhi scuri, e Asha annuisce.
Yokotan non se lo fa ripetere. Batte una zampa sulla corazza dello Scorpide, e subito le tenaglie della bestia schioccano il segnale di “fermi”. Tutti i venti Scorpidi della carovana si fermano scricchiolando nel mezzo del deserto.
La corazza di Sabbia sobbalza sotto la spessa coperta che Asha adopera come sella. Sono troppe, ormai, le lune che le pesano sulla chitina, e gli acciacchi tornano a ogni migrazione più forti.
Le tenaglie di Sabbia schioccano confuse. Asha lo accarezza sulla gigantesca testa piatta, guadagnandosi un ronzio soddisfatto.
- Promette tempesta.
Il pungiglione coperto di stracci si agita affaticato. La corazza non è più elastica come un tempo, ma la forza del corpo ingobbito come una duna è sempre la stessa.
- Che succede? – sbraita una voce. – Perché ci fermiamo?
Il giovane Baruk sta smontando dal suo Scorpide, avanza a passo bellicoso verso Asha. Di sicuro tra poco spunteranno anche Kaja e Taro… e infatti eccoli lì, che gli caracollano dietro trafelati. Si fermano davanti a Sabbia, lontano dalle grosse tenaglie. Asha li scruta dall’alto. Non sembrano nemmeno Coleot come lei. Certo, hanno lo stesso guscio, le stesse antenne, ma c’è qualcosa di più profondo a distinguerli, qualcosa nel modo di muoversi e parlare. Frettoloso, agitato, senza pace.
- Tra poco verrà freddo – Pacata, Asha smonta da Sabbia. – Ci accampiamo. Coprite gli Scorpidi.
- Stupidaggini. Il cielo è sgombro.
Asha tace. Entro sera, sarà il deserto a parlare per lei.
- Perfetto! – ringhia Baruk. La catenella di legno con l’effige di Artria che porta alla vita sbatacchia. – Altro tempo perso.
- Se continuiamo a fermarci a ogni granello di sabbia, arriveremo alle Piane Erbose che sarà già di nuovo inverno – mugugna Taro.
Asha li guarda allontanarsi calciando la sabbia. Sciocchi.
- Su, piccolo – Accarezza Sabbia. – Vediamo di metterti al riparo.
I gesti sono sempre gli stessi, ripetuti mille volte. Le zampe si muovono da sole mentre intrecciano i soliti nodi, e quando il primo brontolio turba il silenzio del deserto, la tenda è già pronta.
Venti, trenta… quante migrazioni ha vissuto? Di sicuro, più di quelle che la separano dal giorno in cui renderà la chitina al deserto. Non c’è da aver paura. È giusto, naturale, come il lento migrare dei Namib. Kolo lo capiva.
Baruk, invece, no. Fosse per lui, mollerebbe all’istante carovana e Scorpidi per una baracca qualsiasi ad Artropia. Perché raccogliere, mercanteggiare, strappare provviste ai Campi Erbosi in estate, e poi svernare nel deserto, mangiando radici e patendo la stessa fame ogni anno, quando basterebbe andare in letargo come fanno gli altri Artros?
Artropia. Non l’ha mai vista, ma ha sentito le voci. Palazzi come colline, mura di roccia, niente vento né sabbia, né musica di tenaglie di Scorpide quando scende la sera e loro discutono di chissà cosa alla luce morente.
Baruk e gli altri non hanno ancora nemmeno srotolato le tende. Infagottati nei mantelli, si affannano intorno alla loro stupida statuetta. È solo una rozza crisalide sbozzata nell’argilla secca, ma loro la ricoprono di fiori secchi e preghiere. Non ti nutrire di altro mortale, comanda Artria, colei che ha sostituito gli spiriti del deserto, e loro eseguono, a costo di morire di inedia. Asha scuote la testa, mentre sistema l’ultima stuoia. Che senso ha scolpire un dio? Non si può, e se si può, evidentemente è uno che vale assai poco.
…ed ecco la pioggia.
Il vento freddo che prima era solo suggerimento ora si è fatto sostanza. Sabbia rabbrividisce, sempre più torpido. Asha si affretta a coprirlo coi teli per proteggerlo dal freddo della notte. Cibo ce n’è poco, come dopo ogni inverno, ma non importa. Ora non le resta che infilarsi nella tenda, accendere un lume, preparare il tè di radice, e godersi il canto della sabbia e della pioggia.
A Kolo sarebbe piaciuta, una sera così.
Il mattino dopo, Sabbia si muove a stento.
Mezza giornata di sole basterebbe a rinvigorirlo, ma il cielo è coperto da nuvolacce grigie che neanche gli insulti di Baruk riescono a smuovere. La carovana resterà dov’è, per oggi. Furtiva, Asha sfila due strisce di carne d’afide dalla bisaccia, ne dà una a Sabbia, e si caccia l’altra in bocca, godendosi un solitario raggio di sole che filtra tra le nubi.
È a quel punto che nota che la coperta è sparita.
Rovista nella tenda, fruga ogni anfratto sulla schiena corazzata di Sabbia. Niente. Impossibile che sia stato il vento. L’aveva legata stretta.
Si volta. Dalla groppa del suo Scorpide, Baruk la fissa con un brillio divertito negli occhi.
- Perso qualcosa, Asha?
I due compari fanno a gara a chi sghignazza più forte.
- Potresti chiedere ai tuoi spiriti di aiutarti.
Asha tace. Se si irritasse, farebbe solo il loro gioco. Sono cuccioli, ancora freschi di uovo. Sanno poco, e hanno vissuto ancor meno. Fruga con gli occhi le dune ammorbidite dalla pioggia, ma la sabbia gelosa non rivela nulla. Forse, dietro quella duna. Con un sospiro, si mette in cammino.
Le voci dell’accampamento si affievoliscono subito. La sabbia ingoia ogni suono, stempera, sfuma. Cammina, in cerca del rosso della coperta. Se c’è, la troverà.
E poi, dalla setosa morbidezza del deserto emerge la dura pietra, e davanti a lei si spalanca la bocca nera di una grotta. Dall’accampamento era impossibile vederla, nascosta com’è dalle dune, ma l’arco di pietra è alto, e l’entrata ampia quanto venti Scorpidi affiancati.
Trema. Dentro è buio pesto, ma non è l’oscurità amica e piena di stelle della notte. No, questo è un nero denso e astioso. E poi l’odore. Folate marce esalano dal buio, e nemmeno l’aroma della sabbia riesce a coprirle.
Un brillio rosso all’interno. La coperta. Maledetto Baruk.
Cauta, Asha varca la soglia, attenta a non svegliare il silenzio.
L’odore si fa più forte. Negli angoli bui della caverna ci sono sagome informi e senza nome. Un tempo, il deserto era abitato da Scorpidi selvatici, ma ora sono migrati a oriente, dove c’è cibo. Chissà, magari qualche vecchio relitto ostinato come lei resiste ancora, incapace di accettare il cambiamento.
Lentamente, le forme nel buio prendono coraggio, si vestono di contorni, rivelando enormi cumuli di massi rossicci e impolverati. Pietre tutte uguali, con strane forme concave. Incuriosita, Asha ne sfiora una, e il terrore la aggredisce. Non è pietra. È dura, fibrosa chitina. Intorno a lei, riposano una ventina di gigantesche placche rosse, e oltre a quelle, altre più piccole. Gusci bruni di Scorpide, svuotati dalle carni.
Arretra svelta, e urta una pila di cui non si era accorta. Il rombo della frana risuona fino al soffitto invisibile della grotta, eppure, invece di spegnersi, permane. Il suono sale, sale, trasformandosi in un altro più profondo e regolare… il ticchettare di zampe colossali sfumato dal fruscio della sabbia che canta. Il terreno sotto le zampe vibra. La caverna si sta svegliando.
- Mi disturbate ancora.
Una voce profonda sorge dal fondo della caverna. Raschia come pietra strofinata contro pietra, romba come tuono. Canta di notti antiche, di morte e guerra, di regni ormai svaniti dal ricordo, di perdita e rancore.
Il mucchio di placche più alto trema, e una forma titanica si srotola dal centro dell’ammasso, in un agitarsi convulso di zampe acuminate e ondate concentriche di sabbia. Il canto è sempre più forte, più veloce. Terrorizzata, Asha prova a scappare, ma la sabbia smossa le ha seppellito le zampe, bloccandole nonostante gli strattoni.
- Già una volta la mia casa è stata invasa.
Il silenzio cala di botto, mentre quattro occhi scuri e oleosi brillano nel buio. La sabbia smette di cantare. Una testa spigolosa la scruta dall’alto, e gigantesche mandibole tintinnano.
- Erano giovani. Ho perdonato. Non perdonerò due volte.
Un basso brontolio, e la creatura si avventa verso Asha, inevitabile, più montagna della montagna stessa.
Paura, disperazione, memoria. Asha non sa cosa sia la forza che le muove la chitina. Tutto ciò che sa, che riesce a fare, è inchinarsi dinanzi alla creatura.
Il ruggito si spegne. Cauta, alza gli occhi.
È lì, davanti a lei, le occupa tutto il campo visivo. Il suo fiato le scalda il muso. Due lunghe antenne rosso vivo gli sbucano dalla bocca, la sfiorano, assaggiano l’aria. Del corpo corazzato, strabordante di zampe acuminate, Asha vede solo una mezza dozzina di placche che nemmeno il pungiglione di Sabbia potrebbe bucare, dure e spesse, coperte di graffi, abrasioni, incrinature. Il resto è sepolto nella sabbia, invisibile.
Lancia un’occhiata alle decine di gusci ormai vuoti che ingombrano la caverna. Vecchie mute. Impossibile sapere quanto è grande davvero la creatura, ma la sola parte visibile potrebbe divorare l’intera carovana senza nemmeno sforzarsi troppo.
- Conosci il rispetto, piccola Coleot – La voce del gigante si è fatta curiosa. – Cos’altro conosci?
Rapida, la mente di Asha elabora una soluzione. Fruga con zampe tremanti nella bisaccia, e dopo un attimo, porge la striscia di afide rimasta, gli occhi fissi a terra.
L’antenna sfiora curiosa la carne, assapora l’aria impregnata dall’aroma salmastro.
- Pensavo che fosse un’usanza ormai sparita.
- Non per tutti, grande spirito.
Con un guizzo, l’antenna infilza la carne e la porta alla bocca. Quella quantità forse non basta nemmeno a capirne il gusto, ma nondimeno, la semplice offerta sembra soddisfacente, e la testa si ritrae.
- Quella coperta. È arte Namib. Sei una nomade?
- Sei saggio e sapiente, grande spirito.
La chitina della creatura scricchiola mentre si arrotola in grandi spire rilassate.
- Perché mi chiami così?
- Perché è ciò che sei. Il grande spirito del deserto, colui che vive nelle sabbie ed esaudisce i desideri.
Una risata aspra risuona nella sala, colmandola di un rancore vecchio vite intere.
- Forse un tempo. Il mondo non lo pensa più, Namib. Non è forse così anche per voi nomadi? Ormai siete solo gusci vecchi, buoni solo da buttar via.
Asha tace. Meraviglia e speranza la travolgono. L’istinto le grida di tacere, ma il cuore… il cuore sta tornando a nuova vita, dopo inverni ad avvizzire, muta dopo muta, luna dopo luna.
- Ora vattene – dice la creatura, e ora la voce è un ringhio basso. – Ti faccio dono della vita. Tienila da conto, e non sprecarla tornando qui.
- Sei tornata – dice il Grande spirito, quando, l’indomani, Asha varca di nuovo la soglia della caverna. C’è rimprovero, nella voce, ma anche un certo divertimento.
- Accetta questa offerta, grande spirito – Asha appoggia a terra l’involto di foglie secche che regge. – È solo carne di moscerino, ma ci rimane poco, ormai. È stato un inverno duro.
Non che sia un problema, pensa Asha. A mangiar carne, ormai, sono rimasti solo lei, Yokotan e pochi altri. Lo fanno nascosti, al riparo dagli sguardi. Artria ha fatto proseliti.
- Un tempo erano molti, i fedeli come te. Seguivano le vecchie vie, avevano vite piene, e sogni che bruciavano. – La carne sparisce tra le zanne ricurve. – Tu hai un sogno, piccola Coleot?
Asha raccoglie le idee. Cammina su sabbia infida. Gli spiriti sono benevoli e capricciosi in ugual misura.
- Tu puoi far avverare i desideri, grande spirito. Questo, io lo so.
- Solo se sono desideri di morte.
- Mio figlio Kolo. – Il nome esce a fatica. L’ha serbato così a lungo che si è fatto ingombrante, e le graffia la gola. – È un vero fedele, lo è sempre stato. Ha portato il nome del deserto inciso nella chitina, e ha combattuto durante le guerre coi Topidi.
Sospira.
- Non è tornato. Lo rivoglio con me.
- Perché? Ha avuto una morte onorevole, degna di rispetto.
- Ti offrirò molti sacrifici.
Nel buio, le placche rosse si tendono verso di lei. Asha rabbrividisce.
- Io distruggo, piccola Coleot. Non creo. Ingoio la vita, e me la tengo.
La sabbia fruscia mentre Asha vi si lascia cadere, le zampe giunte. – Pagherò, grande spirito. Anche con la mia chitina, se la vorrai.
- E se anche fosse possibile, gli faresti il gran torto di farlo tornare di nuovo qui, su questa sabbia morta?
- Non importa, grande spirito. Voglio solo che viva di nuovo.
Asha china la testa.
- Ti imploro.
L’immagine di Kolo le lampeggia davanti agli occhi. Kolo, che impara a stringere i nodi della tenda. Kolo, che ride e corre sulla coda di Sabbia. Kolo, che canta le canzoni degli spiriti. Kolo, con gli occhi rivolti sempre a domani, e mai a ieri.
- E cosa daresti in cambio?
- Tutto. La vita. Ciò che vuoi.
Lo spirito tace, rimugina.
- Raccontami, piccola nomade.
- Chiedi, grande spirito, e risponderò.
- Puoi chiamarmi Skol-os.
Una zampa rossa si stiracchia, e schianta un masso con terrificante disinvoltura.
- Artropia. Quel cumulo di decadenza è ancora lì?
- Sì, grande Skol-os. Ormai quasi tutte le Tribù sono entrate nella Federazione di Artria.
Un’altra roccia si sgretola, e stavolta Skol-os non fa nemmeno finta che sia un incidente.
- Artria. La nuova illusione con cui hanno voluto velarsi gli occhi. E i Topidi?
- Vivono in pace, coltivano la terra, costruiscono villaggi. Non c’è più guerra tra noi.
- Il mondo è diventato assai grigio, senza il sangue a dargli colore. C’è stato un tempo in cui non era così, in cui sopravvivere era un premio… ci prendevamo ciò che era nostro per il diritto del più forte, o perivamo per il dovere del più debole. Ora, invece, pregate gusci vuoti, e mangiate erbe e semi per vivere un altro triste giorno di inutilità.
La voce di Skol-os vibra della furia di un padre tradito dalla sua stessa prole. Il rancore appesta l’aria come fumo. Asha trema.
- Io seguo ancora le antiche vie, grande spirito – mormora, ma Skol-os nemmeno la sente. E come potrebbe? Non sta parlando a lei, ma a un’intera razza. Un singolo essere svanisce, in un tale frastuono.
- Ve l’avevo mostrato, cosa volesse dire vivere. Ho sparso il sangue rosso di mille e mille Topidi, e come mi avete ripagato? Lasciando ammuffire la vostra forza tra l’erba, come chitina marcia.
Di colpo, pare ricordarsi di Asha. Con un guizzo innaturale per una massa così enorme, sfreccia verso di lei, e si ferma a una zampa scarsa di distanza.
- Il problema dell’avere le carni morbide, però, è che prima o poi qualcuno deciderà di nutrirsene.
Le antenne guizzano. La voce è tanto profonda da far vibrare la chitina.
- Lasciami solo, ora – dice infine lo spirito, e le spire si arrotolano in un vortice di scaglie. – Torna domani, con altri doni.
Fuori, il cielo è ancora grigio, e il freddo intenso resiste, ma il vento ha cambiato direzione. Non spira più dalle terre dove il sole muore, ma da quelle dove nasce l’erba. Due albe, non di più, poi le nuvole fuggiranno via, e la carovana ripartirà. La tensione le morde le zampe. Non c’è più molto tempo.
Un fruscio la fa voltare di scatto.
Dalla cresta di una duna sta franando una piccola cascata di sabbia dorata. Troppa, per essere causata dal vento. Sembra più il passo incauto di zampe giovani e arroganti. Zampe che non hanno mai dovuto cacciare in silenzio per sopravvivere.
Bagnato dalle tenebre della caverna, Skol-os ora dorme del sonno del potente. Profondo, placido, il sonno di chi non teme nulla. Non bada a ciò che striscia nel buio. Le offerte di carne, le ultime rimaste, sono sparpagliate davanti a lui.
Asha ne guarda le membra avviluppate in un cumulo rosso scuro. Dicono che il sangue dei Topidi abbia proprio quel colore.
- Ladra – dice una voce piena d’indignazione.
Si volta. Baruk è comparso sulla soglia della caverna, insieme a Kaja e Taro. L’effige di Artria gli oscilla al fianco. Le sagome snelle si stagliano nella luce dorata del deserto, poi avanzano piene d’arroganza nell’ombra della caverna.
- Baruk…
- Kaja aveva ragione! Non ci volevo credere, ma poi ti ho vista scappar via con le provviste. Sapevo che i miscredenti fossero meschini, ma questo è troppo anche per voi!
I tre la circondano, bloccando ogni via di fuga. Vicini, troppo vicini alla sagoma rossa addormentata.
- Cos’hai lì? – ringhia Taro, occhieggiando le strisce di carne secca a terra. Poi salta all’indietro, orripilato. – Bestemmia!
- Non urlare! – geme Asha, ma non le badano.
- Schifosa mangiacarogne, non ti vergogni?
- Andatevene, Baruk! È pericoloso restare qui.
- Perché? – ride Baruk. – La tua carne marcia potrebbe avvelenarci?
- Non seguo la tua dea, quindi tieni i tuoi comandamenti per te.
I tre si rabbuiano. Con un gesto pomposo, Baruk alza in alto l’effige, quasi avesse il potere di scacciare le tenebre.
- Artria ci osserva tutti. Non hai il diritto di deridere le sue leggi!
- Osi portare qui quella cosa fetida – mormora la grotta, e Asha cade nella disperazione.
- Chi è? – Kaja affronta il buio, intimorita, ma ancora non abbastanza. Non abbastanza. – Fatti vedere, vigliacco! Vieni alla luce!
- Disonori questo luogo, disonori te stesso, disonori me. – Il mucchio rosso trema, la polvere si stacca dal soffitto e piove giù come pioggia grigia. – Me!
Le placche si srotolano, si impennano. L’aria urla di paura.
- Artria, proteggici! – geme Kaja.
- Non chiamarla in questo luogo, se non vuoi vedermi divorare le sue carni.
Lento, Skol-os il grande, il senza-tempo, Colui-che-divora, emerge dalla sabbia, ed essa ne canta le lodi a ogni movimento delle membra colossali. Tanto lungo da circondare le montagne, tante scaglie quanti sono i granelli di sabbia del deserto Namib, dieci volte dieci zampe e ancor di più. E finalmente, Asha comprende di essersi sbagliata, perché questo non è l’aspetto di uno spirito. È la potenza incarnata di un dio.
Baruk cade a terra. L’arroganza è svanita, ingoiata da un terrore senza scampo. Prova ad alzare l’effige di Artria contro il male ribollente, ma quella gli sfugge e cade a terra, patetica e inutile.
- Troppo a lungo siete rimasti alla luce del sole. I vostri occhi non conoscono più l’ombra, il vuoto, il silenzio. Avete dimenticato fame e paura, e questo è il vostro più grave peccato.
Le mandibole della bestia schioccano, ed è come se fosse di nuovo tempesta.
- Non dimenticherete più – mormora, e si lascia cadere su di loro.
Senza pensarci, Asha sente il suo corpo lanciarsi in mezzo.
Cala il silenzio. La sabbia non canta più.
Quando Asha osa guardare di nuovo, Skol-os si è fermato. Trema di rabbia gelida mentre osserva Asha, ferma a zampe spalancate, a fare scudo ai tre rannicchiati alle sue spalle, muti e ciechi di terrore.
- Spostati, nomade.
- Grande spirito, risparmiali, ti imploro.
- Le loro vite sono mie ora, piccola Coleot. – Le antenne frustano l’aria con tutta la forza della loro furia. – Non te ne farò dono.
- Non te lo chiedo. Permettimi di pagarle.
Skol-os si accosta a lei, e Asha si ritrova specchiata in un occhio vasto come la sua tenda, eppur minuscolo in confronto al resto del corpo smisurato. Piccole venature rosse nuotano nel nero fatto di fame, e rabbia, e cose morte e dimenticate.
- Non credere di poter comprare una vita con della carne secca, Namib, ma solo…
- …con un’altra vita.
Skol-os tace, la sorpresa balugina nel nero vitreo.
- Rifletti bene su ciò che mi chiedi.
- L’ho fatto.
- E tuo figlio?
- È perso.
Che strano effetto, poterlo finalmente dire a voce alta. Come se qualcuno le avesse appena sfilato dieci primavere dalla chitina.
- Lo so che è perso, l’ho sempre saputo. Nemmeno tu, mio signore, puoi restituirmelo. Ciò che è passato, non torna. – Fa un cenno verso i tre disgraziati. – Ma forse posso comprare un po’ di futuro. Anzi, tre.
- Un futuro marcio – sputa Skol-os, ma Asha scrolla la testa.
- Io ho deciso la mia strada, e Kolo la sua. Che decidano della loro con le proprie zampe.
Per un po’, Skol-os tace, meditabondo, mentre Asha attende placida il suo destino. Pensieri informi vorticano nell’occhio, mentre la sabbia mormora con dolcezza. Infine, si rialza.
- Molto bene.
Una zampa cala di scatto, e schianta l’effige di Artria, lasciando che la sua polvere si mischi alla sabbia. Baruk e gli altri si lasciano sfuggire uno strillo strozzato.
- Strisciate via, indegni! Che il prezzo delle vostre vite possa schiacciarvi fino alla fine dei vostri giorni.
Le teste dei tre si rialzano, incredule.
- Via! – ruggisce il dio, e i tre fuggono, ebbri di paura, cadendo e rialzandosi, fuori dal buio, nella luce. Finalmente, spariscono.
Alle spalle di Asha, le placche di Skol-os scricchiolano.
- Ti porterò nella memoria e nella carne, piccola Coleot. Sii fiera.
E Asha, fiera, lo è davvero. Di sé, di Kolo, di ciò che è stato. Di ciò che ha visto e fatto e vissuto. Di ogni luna che ha visto levarsi e tramontare. È questo l’ultimo pensiero che riesce a formulare, prima che le zanne di Skol-os la avvolgano. Poi, finalmente, il buio la accoglie.
Quando Yukotan e gli altri varcano la soglia della grotta, la trovano vuota. Solo le placche rosse testimoniano il passaggio di ciò che Baruk e gli altri hanno chiamato mostro. Nient’altro, però. Niente creature, niente Asha.
La piangono, perché lunghi sono stati i giorni che hanno vissuto con lei, e cantano, perché non hanno nemmeno il conforto di una chitina da poter seppellire. E poi, quando il sole torna a scaldare le corazze degli Scorpidi, ripartono, perché l’inverno è stato duro, e la primavera non attende nessuno, nemmeno il lutto.
E mentre avanzano, coi cuori pesanti e la groppa di Sabbia ora vuota, nemmeno il pensiero delle Piane Erbose li consola, perché un altro pezzo della loro memoria è morto.
Avanzano, e li accompagna il flebile canto delle sabbie che giunge dal profondo del deserto, dietro di loro, proprio da lì dove le nuvole si stanno dissipando.