XIII TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: I CLASSIFICATO

IL CORVINO

di Giorgio Smojver

Benvenuti, amici, Iddio vi protegga! Ormai ricevo così poche visite.  Selima, versa quello buono, la vendemmia di tre anni fa. Prendete olive e mandorle, è frutto di questa terra che ora è mia, anche se nacqui altrove.

Mi chiedo a volte perché abbia sprecato la giovinezza a girare il mondo in cerca di avventure. Ma poi mi ricordo di lui.

È per lui che siete qui, vero? Volete una storia, giovani signori e graziose dame. Ma ora guardate con me il sole declinare oltre le colline. Poi ceneremo. Le storie sono per la notte e più di tutte quella che oggi narrerò.

*

Si alza la luna, è tempo di racconti. Chi sia stato Corso Donati lo sapete: il primo tra i cavalieri di Firenze. Di grande stato e grande animo, prode d’armi e acuto d’ingegno, sempre intento a grandi disegni, ambizioso, facondo nel parlare e abile nel dissimulare. Lo chiamavano il barone: nemico di popolani e mercanti, trattò da pari a pari con gli Este e i Montefeltro, che si dicono le casate più antiche d’Italia.

Quando lo conoscemmo aveva sessant’anni ed era sì gravato dalla gotta da non poter più portare armi; ma molto restava dell’antica magnificenza. Bianchi i capelli un tempo biondi, netti e fini i tratti del viso, vividi gli occhi e ancora forti e nervose le mani.

Lo  paragonai al mio signore: non avrebbero potuto essere più lontani, ché Manfredi, assai più giovane, era povero cavaliere, e pur li vidi simili nella sicurezza misurata dei gesti, nella grazia altera del portamento, nella voce bassa cui era difficile non obbedire. Si squadrarono come vidi fare ai leoni.

«Messere» disse il mio signore «Chi io sia non importa. Le lettere dei Signori della Faggiuola e di Montefeltro mi autorizzano a trattare. Avrete aiuti da Arezzo e dalla Marca al momento dell’insurrezione. In cambio la nuova Signoria cederà Bibbiena e i castelli di Castiglione e Laterina.»

«I vostri signori mi conoscono poco se chiedono questo», scattò Corso. «Sono fiorentino. È solo perché inique leggi impediscono a me e ai miei pari di aver parte nel governo, riservando ogni carica alle vili arti mercantili, che mi sono risoluto a trattare con i miei nemici di una vita. Ma mai tradirò la città che tante volte ho salvato.»

«Parliamo francamente, Messer Donati. I guelfi temono che vogliate farvi signore di Firenze: vi escludono dal governo, tramano la vostra morte. Che abbiano torto o ragione non importa. Se i vostri alleati non si fidano di voi, come potrebbero farlo i ghibellini, vostri nemici? Le fortezze sono la garanzia che, preso il potere, non rivolgerete le armi contro di loro.»

Fortezze, terre dai nomi ignoti a me, straniero. Mi occupai di valutare le tre guardie. Non ci fidavamo: se ci fosse stato tradimento, io avrei eliminato i due alla porta, e Manfredi quello in piedi dietro al Donati e avremmo preso lui in ostaggio.

I due accanto a me erano i tipici birri, forti e ottusi. Li potevo battere, la mia scimitarra è più veloce di una spada. Mi preoccupava il terzo, magro, sfregiato, con daga alla cintola e mazza in mano. Un assassino di mestiere. Manfredi era seduto e anche se è svelto non ero certo che potesse alzarsi e sfoderare la spada contro una mazza chiodata già impugnata.

Infine Donati promise i tre castelli e da ciò capii che era davvero disperato.

«Quello è il prezzo dei signori di parte ghibellina», disse Manfredi «Parliamo del mio ora.»

«Quanti fiorini volete?»

«Nemmeno un soldo. Sono un venturiero; ma un uomo d’onore non può avere due fedeltà. Ora è il conte di Montefeltro a pagare la mia spada. Ma due begli occhi colmi di lacrime mi hanno chiesto di ritrovare le ossa di Bonconte di Montefeltro, insepolte da quasi vent’anni. Voi guidaste la carica decisiva a Campaldino: se qualcuno sa dove è morto, siete voi.»

Al nome di Bonconte le dita del Donati si tesero, i mobilissimi occhi guizzarono verso gli angoli bui della stanza, male illuminata dai raggi del sole al tramonto. Ma quando parlò la voce era calma.

«È stata la figlia, Madonna Riccarda, suppongo. Bonconte era il cavaliere più prode della Marca, lo stimavo. Mi aveva superato in una giostra e gli avevo donato un mio puledro bellissimo e intelligente, un morello corvino. Nella mischia una lancia lo ferì, il cavallo lo sentì indebolirsi e fuggì nei boschi. Lo seguii per offrirgli onore e vita salva. Là dove l’Archiano fluisce nell’Arno lo raggiunsi: caduto di sella, bianco in viso e sanguinoso, era appoggiato a un ontano, inerte. Composi il corpo. I miei cavalieri vollero tornare per saccheggiare il campo nemico, e, lo ammetto, anch’io. Lo lasciai, per ritrovarlo dopo e dargli degna sepoltura. Ma il cielo si fece nero e il temporale calò dal monte gonfiando i fiumi, l’acqua tracimò e lo portò via. Nessuno rivide mai il corpo.»

«Mi basterebbe un oggetto suo per trovare i resti e dar pace all’anima con un rito. Ho un certo talento.»

«L’ho udito, Ser Manfredi di Monforte. So chi siete. Se vi denunciassi rischiereste il carcere se non il rogo.»

«Come voi il ceppo e l’ascia, se si sapesse del nostro accordo.»

«Siamo vincolati.» Il suo sguardo si perse, remoto. «Desidero anch’io dar pace all’anima di Bonconte, più di quanto crediate. Compite la vostra ambasciata a Messer Uguccione della Faggiuola e tornate. Fosco, qui, era con me quel giorno e vi condurrà nel luogo esatto.»

*

Tornando ad Arezzo, Manfredi mi chiese cosa pensassi di Messer Corso.

«Aveva paura», risposi «anche se la mascherava bene.»

«Paura, sì, ma non dei suoi nemici. È al nome di Bonconte che ha trattenuto a stento l’impulso di guardare alle proprie spalle, come temesse che qualcosa fosse entrato nella stanza.»

«.Quanto a Fosco, lo sfregio sulla fronte non era di spada: pareva parte di una croce inversa, seminascosta dai capelli.»

«Un praticante di arti oscure. Lo seguiremo, ma se lui sarà dietro di me, tu sta dietro di lui.»

Fummo salutati da uno strido e un figura si stagliò contro il disco solare, prima di piombare su di noi veloce come  il pensiero. Anqa, il girifalco di Manfredi, scese ad appollaiarsi sul suo polso. Era la nostra compagna, ma non avevamo potuto portarla a Firenze: un segno noto all’Inquisizione dell’identità di Manfredi di Monforte, cavaliere del Tempio e alchimista.

*

A diciannove anni dalla battaglia di Campaldino e dal saccheggio, Bibbiena era un corpo monco. Metà delle case erano vuote, e il castello arso levava le torri smozzicate al cielo.

Era l’equinozio d’autunno. Su ordine del suo padrone, Fosco ci aveva scortati di mala voglia. Smontammo a una locanda. I nostri cavalli erano insolitamente nervosi, sia Tramonto, il baio di Manfredi, che la mia quieta giumenta Ombra. Li strigliai, un compito che non avrei mai lasciato a un garzone, li facemmo bere e li impastoiammo. Entrammo, con Anqa posata sul polso di Manfredi, e l’oste ci venne incontro con un sorriso un po’ forzato, ma premuroso.

«Benvenuti, Messeri! Ho un buon rosso di Laterina e bei polli con pattona di castagne, acqua pulita e letti morbidi. La miglior locanda di Bibbiena.»

«Non è l’unica?»

«Quindi la migliore. Per un fiorino in più custodirò i vostri cavalli.»

Brontolai. «Le vostre stalle hanno lenzuola di seta?»

«C’è un dipinto dell’Arcangelo alla porta della scuderia e ho pagato il parroco perché lo benedicesse in modo solenne.»

Notai immagini di San Michele a ogni finestra. L’unico altro avventore si alzò dal tavolo. «Credetemi, Messeri, è un prezzo onesto. È l’equinozio: il Corvino correrà. Un cavallo nero come l’inferno, occhi rossi di fiamma. Io sono perugino, cozzone di cavalli, passo sempre di qui per andare a Firenze: l’ho visto una volta. Mi ha fatto impazzire le giumente e ucciso lo stallone.»

Fosco divenne bianco come uno straccio.

«Non è facile uccidere Tramonto, è un destriero da guerra» risposi.

«Il Corvino viene con la nebbia, da cinque anni, agli equinozi e nelle dodici notti dopo Natale», aggiunse l’oste. «Ha ferito viandanti e cacciatori e ucciso un buttero che s’era vantato di montarlo. Lacci e frecce sono vane.»

«Ebbene, servi i polli, la pattona e il vino e custodisci i cavalli», decise Manfredi. «Ci addentreremo nel bosco a piedi.»

*

Faggi e aceri, oro e fiamma, filtravano e ricamavano la luce. Rimpiangevo Ombra e Tramonto, ma sapevo che le radici, i rovi e i biancospini, da cui occhieggiavano bacche rosse o scure, sarebbero stati un tormento per loro. I cavalli sono nati per galoppare liberi, come avviene nel mio paese che non rivedrò più.

Anqa volava sopra il bosco, la intravedevamo a tratti quando il fogliame si diradava: ma certo lei non perdeva di vista noi.

Manfredi camminava con lo sguardo perso, teso ad ascoltare ogni canto d’uccello o ronzio d’insetto, a fiutare gli aromi dell’estate che finiva, la resina, i funghi, la castagna, il mirtillo e l’agrifoglio: una volta mi disse che anche fate e linchetti lasciano una scia, e ancora non so se parlasse sul serio o mi gabbasse.

I suoi piedi trovavano la via da soli. Fosco avrebbe dovuto essere la nostra guida, ma restò chiuso in un silenzio cupo. Scostava i cespugli con un bastone di legno di sambuco.

Poi il suo atteggiamento cambiò: si animò e ci guidò sicuro all’Arno, fino al punto in cui udimmo lo scorrere più tumultuoso dell’Archiano. Indicò un albero alto, vicino al greto.

«Lì era il corpo.»

Frugammo assieme tra le vaste radici. Manfredi se ne disinteressò, e mi chiesi se stesse fiutando l’usta delle fate.

Mi colpì la vista di un cespo di brunelle, insolite così a fondo nel bosco: forse lì la terra era più grassa.

Con il pugnale grattai via i fiori tardivi e il terriccio. Una forma emisferica. Ho visto troppi campi di battaglia per non riconoscere un cranio. Scoprii le vertebre spezzate del collo.

«È lui, è Bonconte», asserì Fosco. «Pronunciate un rito funebre e andiamo.»

Manfredi mi guardò e assentì. Prima che Fosco potesse reagire, l’inchiodai al tronco, la lama del mio kindjal alla sua gola.

«Ci credi idioti? Questo è morto impiccato, ha il collo spezzato. Dicci chi era questo infelice e come sapevi dov’era.»

Gli scucii un po’ di pelle e lui infine parlò, tra timore  e insolenza:

«Volevate un corpo? L’avete no? Era un giovane dei Lamberti che aveva offeso Messer Donati, esiliato ad Arezzo. Uguccione della Faggiuola me lo consegnò qui, cinque anni fa, e per ordine del Barone lo impiccai.»

«Uguccione è ghibellino, perché lo consegnò a Corso?»

«In cambio della nomina a cardinale del figlio. Credete che quello che avete negoziato sia il primo accordo che fanno sopra le teste della propria parte?»

«Pregheremo anche per il Lamberti. Ora portaci dove è morto Bonconte.»

Camminò, riluttante. Le sue labbra iniziarono a muoversi in parole mute, ma Manfredi gli pose il dito al segno blasfemo sulla fronte. «Non provarci, ogni maleficio si ritorcerebbe su di te. Sono un discipulus primus del Tempio.»

Il sole calante si velava. A monte si stava formando una foschia bianca.

«Presto!», incalzò Manfredi.

Alla confluenza delle correnti, tra grovigli di giunchi, si ergeva il grande ontano, le cui radici giungevano all’acqua. Cercammo attorno al tronco, tra le radici, sul greto. Nulla, non un oggetto, non una traccia d’uomo.

«Pazzi!» Ora Fosco quasi implorava. «Scappiamo finché possiamo. Non capite che cosa risvegliate?»

«Tu l’hai risvegliato! Il Corvino corre da quando impiccasti il Lamberti.»

Notai un nodo nella corteccia. Affondai il pugnale. La linfa dell’ontano scorse rossa come sangue. Allargai la crepa ed estrassi una punta di lancia e anelli di ferro rugginosi. Manfredi la prese, la tastò a occhi chiusi.

«Ha trapassato collo e camaglio. S’è infissa con gli anelli nel tronco e la corteccia è ricresciuta. Ci sono resti di sangue secco.»

Mi guardai attorno. Il sole era tramontato e una grigia cortina di nebbia aveva coperto il fiume. Filamenti biancastri serpeggiavano sulla riva.

Con un grido inarticolato Fosco prese la sua mazza chiodata e cercò di colpirmi. D’istinto scalciai il suo ginocchio, lo sbilanciai quanto bastava a mandare a vuoto la mazza. La sollevò per colpire ancora, ma ora avevo la scimitarra in mano, lo ferii al braccio. L’arma gli cadde. Manfredi non si era nemmeno girato, Fosco era compito mio.

Invece prese dalla sua sacca l’amuleto d’argento con il sigillo di Salomone, inciso dei Nomi Sacri. Vi ricorreva solo in casi estremi.

La nebbia ci avvolse, pervasa di una luce lattescente. Udimmo il nitrito.

E il Corvino apparve, nero e lucente, fiamme rosse negli occhi; la bocca  mostrava denti da belva. Galoppò dritto su Fosco, che levò la sua verga. Il legno di sambuco gli si ruppe in mano. Si girò e fuggì sul greto, urlando.

Il cavallo gli fu sopra, s’impennò, l’abbatté con gli zoccoli. Presi l’arco e scoccai: Fosco era pur sempre un uomo, anche se malvagio.

Non fallii il tiro, ma il Corvino non sanguinò. Sfondò il torace di Fosco, gli strappò il cuore con i denti. Poi si rivolse contro di noi.

Manfredi alzò il talismano che si dilatò in uno scudo stellato a sei punte. «Per Adonai, Elohim, Sabaôth Tetragrammaton: indietro!»

Il Corvino non s’arrestò. Ci era addosso, il  fiato puzzava di tomba. Alzai la scimitarra: un colpo di zoccolo me la fece cadere. Caricò Manfredi, che evitò l’impatto con un balzo di lato. Un frullio d’ali, il grido di sfida del falco: gli artigli di Anqa non ebbero più effetto della mia lama, ma almeno per un attimo distrassero il cavallo demoniaco.

Con la sinistra, ché avevo la destra intorpidita, ruppi un ramo dell’ontano e lo frustai al dorso, a difesa del mio signore.

Il Corvino nitrì. Mi rivolse lo sguardo umido, bruno e non più rosso, chinò la testa ammusando al suolo, si girò e sparì nella nebbia dell’Arno.

«Bravo, Yakub. Avrei dovuto pensarci io», disse Manfredi.

«Ho visto demoni fuggire da quel talismano. Perché non l’ha fermato?»

«Perché non è un demone, né un’anima persa. Pura rabbia animale, senza intelletto. I Nomi Santi non hanno significato per lui.»

«E un semplice ramo invece…»

«Un ramo dell’ontano che contiene l’anima del suo padrone, e lui l’ha percepito.»

Sotto lo sguardo vigile di Anqa, cogliemmo bronchi di biancospino e accendemmo un fuoco: Manfredi vi gettò erbe ignote. Il fumo era denso e aromatico. Manfredi recitò una litania e terminò gridando tre volte «Bone Comes!»

Apparve un uomo. Dimostrava trent’anni, slanciato e bello di volto. Ci indicò una ferita al costato, poi la gola squarciata. Avanzò, fulgida figura ammantata di nebbia, allungò la mano sul fumo e lo plasmò, gli diede forma e colore.

E divenne come un’immagine miniata: Bonconte, in sella al Corvino, con la cotta a bande azzurre e oro insanguinata, l’usbergo smagliato sul costato. Accanto al fiume smontò e si tolse l’elmo per bere. Un altra voluta di fumo, un altro cavaliere entrò nel riquadro, con la cotta rossa e argentea: Corso Donati. E dietro a lui, grottesco, si muoveva distorto come un granchio Fosco, la testa rasata incisa di simboli satanici.

Il Barone tese la mano aperta, Bonconte la strinse e gli consegnò la spada. Poi Corso carezzò Corvino, che l’ammusò con affetto. Fosco si accostò di lato e abbatté il cavallo con un colpo di mazza.

Corso afferrò la lancia e trafisse Bonconte alla gola. La punta strappò gli anelli dell’usbergo e l’inchiodò all’Ontano. Le labbra mute formarono il nome di Maria. La scena sfumò.

«Messer Bonconte», lo pregò Manfredi «indicateci dove giacciono le vostre ossa: veniamo da parte di vostra figlia Riccarda a darvi cristiana sepoltura.»

Lo spettro ebbe un sorriso pallido e sparì, lasciando solo un sottile filo luminoso, di un azzurro intenso. Si dipanò lungo la riva  e lo seguimmo.

La nebbia si dissolse, la luna crescente si specchiò sulle acque turbinose. Accese torce, discendemmo per un miglio sino a un’ansa del fiume. Lì il filo lucente morì sul greto.

Spalammo sassi e fango finché emersero ossa e un giaco arrugginito. Scavammo una fossa e vi piantammo una croce di rami d’ontano. Manfredi recitò il rito funebre e io pregai nella mia lingua natia.

«Perché l’uccise?» chiesi poi.

«Solo Corso Donati potrebbe rispondere. Forse per superbia: Bonconte l’aveva battuto in un torneo e gli aveva dovuto cedere il Corvino. Ricorda che il cavallo l’ammusò, Corso l’aveva allevato e l’uccise. Forse Bonconte conosceva qualche suo accordo segreto con i ghibellini, non lo sapremo mai. Fosco fece l’errore di commettere qui un secondo delitto e svegliò lo spettro di Corvino.»

«E ora?»

«Deciderà la contessa Riccarda se riesumarlo o lasciarlo sepolto qui, come farei io. Quanto a Corso, lo giudicherà Iddio, non noi.»

*

L’armata ghibellina procedeva lungo l’Arno. Uguccione della Faggiuola comandava l’esercito, Manfredi era connestabile dei cavalieri del Montefeltro. Il che significava che, per una volta, mangiavamo bene e dormivamo caldi.

Un cavaliere su un destriero nero ci venne incontro, in cotta a bande azzurre e oro; l’elmo gli copriva interamente il volto. Mosse verso Uguccione che cavalcava in testa, con Manfredi a fianco.

«Il vostro nome, cavaliere», intimò Uguccione.

Il cavaliere scosse il capo e gli porse una pergamena. Il condottiero la lesse. «Ser Manfredi, l’insurrezione è fallita. Il conte di Montefeltro mi scrive che Corso Donati è preso e morto. Torniamo indietro.»

«Messere, non credo. Corso non si sarebbe mosso prima di domani.»

«La situazione gli sarà sfuggita. Conosco il sigillo dei Montefeltro.»

Cercò con lo sguardo il messaggero, ma era scomparso.

«Ho iniziato questa impresa e voglio vederne la fine», replicò Manfredi e diede di sprone. Lo seguii.

«Se andate, non tornate e scordate la carica di Connestabile» ci gridò dietro Uguccione. E con esso il vino vermiglio e i capponi alle castagne, pensai.

Cavalcammo per le ore di luce rimaste. La notte ci trovò a dodici miglia da Firenze. Vedemmo un casolare e demmo ai villano un pugno di soldi, dormimmo e facemmo riposare i cavalli.

Quasi non parlammo, l’indomani riempiva le nostre menti. Avrei dovuto rimbrottare Manfredi: avevamo l’inquisizione alle calcagna e perdere un ingaggio e un protettore potente era pura follia.

Ma la verità era che io avrei fatto lo stesso: quella storia ci aveva impaniati come tordi al fischio e dovevamo vederne la fine.

Al mattino ci destò un nitrito squillante. Il destriero nero che ormai  conoscevamo bene ci aspettava, senza cavaliere. Sellammo i cavalli e partimmo. Corvino galoppava come il vento, veloce quanto Anqa che volava come una freccia sopra di noi, e Tramonto e Ombra, come posseduti, ne tenevano il  passo.

Entrare a Firenze fu facile, non c’erano quasi guardie alle porte. L’attacco a  sorpresa avrebbe potuto riuscire. La signoria aveva chiamato ogni soldato per arrestare Corso Donati, che s’era asserragliato con i suoi nelle sue case a piazza San Pier Maggiore. Aveva poca gente: molti che egli credeva amici avevano defezionato.

Non portava armi per la gotta, ma incitava i suoi seguaci, che bene si difendevano con lance e balestre. Ma gli assalitori erano assai di più. I popolani coi loro gonfaloni, i balestrieri e i mercenari catalani della Signoria.

Eppure noi passammo tra loro come vento nel grano. Corvino faceva scudo a Ombra e Tramonto, i quadrelli di balestra non lo ferivano. Entrammo nella piazza.

Corso ci riconobbe. «Ser Manfredi, vi è a noia la vita? Dove sono i cavalieri promessi, o credete di valerli voi da solo col vostro turco?»

«Messer Corso, un cavaliere dalla cotta azzurra e oro li ha fermati, e credo sappiate chi fosse. E che riconosciate anche questo cavallo.»

Corso Donati impallidì. «Ha tormentato i miei sogni per molte notti. Speravo scomparisse se aveste dato pace al suo padrone.»

«Avete due scelte: arrendervi e sperare nella misericordia dei vostri antichi sodali, o montare in sella a Corvino che vi porterà oltre quella schiera, ma dove, non so.»

Non esitò un attimo, glielo riconosco. «Non striscerò ai piedi di mercanti, usurai e drappieri. Meglio il giudizio di Dio del loro», e si volse ai suoi: «Siete uomini prodi, ma ora ognuno getti l’arme e pensi a sé.»

E malgrado potesse appena camminare, montò sul terribile destriero. Il Corvino scoccò come un quadrello, travolse i soldati; lance e dardi furono vani come se fosse fumo e vento. Ma il capitano dei Catalani, barbuto e possente, sbarrò la via a noi.

«Ben trovato, Martìn Peres», lo salutò Manfredi «Non ti vedevo dalla battaglia di Kibistra. Dobbiamo batterci?»

«Manfredi di Monforte e Yakub, nessuno mi paga per uccidere voi due. Ma la testa di Corso Donati è altra cosa: la Signoria  offre cento fiorini d’oro.»

«Seguiamolo allora.»

Manfredi spronò Tramonto, che come tratto da una catena invisibile trovò la pista del Corvino. Martìn e sei catalani ci seguirono. Fuori delle mura, vedemmo lontano il cavallo scosso trarre uno strascico rosso come un manto regale. Corso era caduto di sella, ma il piede era rimasto incagliato nella staffa. Corvino schiumava sangue e soffiava fuoco dalle froge. Trascinava il corpo in un galoppo vertiginoso, lo sballottava, lo straziava su pietre, rovi, sterpi.

Infine lo calpestò e svanì. Ci accostammo.

Stecchi d’ossa spuntavano dal torace sfondato. Metà del viso era polpa sanguigna, i denti spezzati, un’orbita vuota. «Uccidetemi» rantolò «vada la mia anima dove deve. Maria…» e non poté dire ora pro mihi che Martìn Peres gli spiccò la testa dal torso.

Manfredi guardò, pensoso, il cadavere straziato. Poi si rivolse al catalano:

«Hai i tuoi cento fiorini, Martìn. Vuoi vendere anche le nostre teste? Re Filippo te le pagherebbe bene.»

«La malora al Bel Felip! Io non leverò la spada contro di voi, e senza di me questi cuccioli non sono alla vostra altezza. Andate liberi, purché lontano da qui.»

Non rivedemmo mai più Firenze.

La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre,

fin ch’ella il percuote,e lascia il corpo vilmente disfatto.

Dante Alighieri, Purgatorio, Canto XXIV