STO ARRIVANDO MAMMA

Nella stanza da letto, Gioele teneva la mano di sua madre morente.

Emma si era rifiutata di finire i suoi giorni in ospedale e di questo Gioele ne era felice. Ma chi lo avrebbe protetto dal Diavolo e da tutti i suoi immondi figli, quando lei sarebbe morta? Sperava che suo fratello lo raggiungesse per dargli conforto in un così triste giorno, ma sapeva bene che non sarebbe venuto, se non per i funerali.

Perché lui e la mamma si odiavano tanto?

Mentre pregava per l’anima di sua madre, come lei stessa gli aveva insegnato, avvertiva dietro di sé una presenza costante. Si girava di tanto in tanto, per assicurarsi di essere solo, ma più pregava e più la sensazione aumentava.

Gli ritornò alla mente che Emma, sua madre, più volte l’aveva avvisato che nella stanza di un moribondo spesso si accalcavano i demoni pronti a rubargli l’anima, o peggio ancora per possedere il corpo privo di essa. Rabbrividì e riprese le sue preghiere a voce bassa, il suo stesso mormorio sembrò rassicurarlo, ma poi ebbe la netta sensazione di essere sfiorato sulla spalla e schizzò dalla sedia, lasciando cadere il rosario e il Vangelo.

«Non c’è nessuno, non c’è nessuno! Siamo solo io e la mamma…».

Si fece tre volte il segno della croce, cercando di riprendere il controllo, ma veloce la sua mente gli suggerì che con la vista non avrebbe potuto vedere i demoni, perché, come mamma gli diceva sempre, sono bravi a nascondersi all’uomo.

Il cuore prese a battergli all’impazzata e le mani iniziarono a sudargli copiosamente.

Si sdraiò accanto alla donna, accostandosi a lei. Grazie a Dio poteva contare ancora sulla sua protezione e piano, piano iniziò a rilassarsi.

Cosa avrebbe fatto quando sarebbe rimasto solo?

«Gioele…».

«Dimmi mamma, sono qui, vicino a te» la rassicurò, sollevandosi su un gomito a guardarla.

«Dovresti venire con me, Gioele, solo così potremmo andare nell’Eden, al cospetto del Signore…» gli disse candidamente.

L’uomo si alzò e riprese il suo posto sulla sedia accanto al capezzale. Intanto rimuginava sulle parole di sua madre. Era chiaro che volesse che morisse anche lui, forse perché anche lei aveva paura di restare sola.

«Non devi preoccuparti, mamma. Ci saranno gli angeli con te, ti accompagneranno loro al cospetto di Dio» le disse premuroso.

«Io non credo, sai? Non senti anche tu il Demonio in questa stanza?».

Gioele ricordò la sensazione che aveva provato e che tanto lo aveva terrorizzato. Dunque era vero, non erano soli.

«Come posso fare per scacciarlo?».

«Devi venire con me, figlio…».

«Ma che dici? Il suicidio è un peccato mortale!».

«Non se si compie il gesto per una buona causa, e quale può essere migliore di quella di un figlio che vuole stare sempre con la propria mamma? Se non verrai con me il Demonio prenderà la mia anima, vuoi questo per me? Anche tuo fratello mi ha abbandonata, vuoi farlo anche tu, Gioele? Devi proteggermi…».

Dei convulsi colpi di tosse la costrinsero al silenzio, sapeva di dover tenere duro per convincere suo figlio ad andare con lei nell’aldilà. Non poteva perderlo, non voleva! Lo voleva accanto a sé, come in vita, anche nella morte e avrebbe trovato il modo.

«Non agitarti, mamma. Troverò il modo di non farti portare via» disse amorevole, mentre l’aiutava a bere dell’acqua.

Intanto  in cuor suo Emma sorrideva.

*

Non si programma la propria morte naturale e per Emma la sua vita terminava alle 3.00 del mattino seguente. Il profondo rantolo svegliò di soprassalto Gioele che le dormiva accanto.

«Mamma! Mamma rispondimi!».

La scosse per le spalle, in ginocchio sul letto, ma la donna non rispose alle suppliche del figlio.

L’afflizione di essere rimasto solo gli lacerò il petto, e la gola gli si strinse in una morsa violenta da togliergli il respiro. Cercava di riprendere il controllo, ma il pensiero che il cadavere di sua madre giacesse lì accanto a lui, gli impediva di razionalizzare ciò che stava accadendo.

Chi avrebbe dovuto chiamare adesso? Nessuno! Prima doveva pregare perché l’anima di sua madre varcasse il cancello dell’Eden.

«L’eterno riposo dona a lei o Signore…».

Interruppe la sua ovazione per lasciare spazio alla nuova domanda che si stava insinuando con prepotenza nella sua mente: perché sua madre pensava di non essere benaccetta in Paradiso? L’unica risposta possibile era che avesse commesso un’azione immeritevole della vita eterna.

Scese dal letto, e prese il cellulare dal comodino, avrebbe chiamato Don Antonio, lui le avrebbe dato l’Estrema Unzione e tutto sarebbe andato per il meglio. Inviò la chiamata e rimase in attesa. La stanza illuminata dall’ abat-jour gli ricordò che era notte e d’istinto guardò l’orologio che aveva al polso: le 3.10. Questo significava che Emma era deceduta alle 3.00, l’ora del Diavolo! Fu in quel preciso istante che vide con la coda dell’occhio un’ombra scura calarsi sul cadavere di sua madre, ma quando si girò questa scomparve.

«Dio Onnipotente!» esclamò, con l’orrore nel cuore.

Si lasciò andare in ginocchio, lasciando cadere il cellulare dal quale una voce meccanica comunicava che “il cliente chiamato non era al momento raggiungibile”. Congiunse le mani davanti al petto, mentre il senso di colpa per non aver protetto sua madre dal Demonio, gli graffiava l’anima. Si portò un pugno alle labbra e mordendosi con violenza, si abbandonò sul pavimento in convulsi singulti.

Quando riaprì gli occhi, il sole era già alto. Il ricordo del decesso di sua madre, arrivò come una morsa al cuore: come aveva potuto dormire senza curarsi di lei?

Ancora con la guancia posata sul pavimento, il suo sguardo si focalizzò sotto il letto e la sensazione che un “parassita dell’anima” fosse nascosto nel buio lo riempì di terrore. Si alzò in modo così repentino che quasi perse l’equilibrio, riprese il controllo e raggiunse la finestra, afferrò la stringa dell’avvolgibile e tirò con violenza, inondando di luce la stanza.

Si voltò verso la salma di sua madre, il corpo giaceva immobile, il colorito della sua pelle, che ora appariva sottile come carta velina, era di un cereo giallognolo.

Tenere tanto a lungo un cadavere vicino avrebbe attirato molti più demoni, avidi di un corpo da occupare, per poter riassaporare la vita terrena.

Era giunto il momento di chiamare suo fratello Daniele, questa volta non poteva negargli il suo aiuto.

*

Il giorno dopo, nella chiesa dove Gioele lavorava, si svolgeva la messa per l’ultimo addio a Emma Melis.

Mentre il sacerdote professava il Mistero Pasquale, Daniele invitava sul pulpito suo fratello per dedicare una preghiera alla defunta madre. Gioele saliva le strette scale, osservando la bara chiusa e domandandosi a che scopo Don Antonio pregasse perché l’anima di sua madre fosse guidata nella resurrezione eterna, quando egli stesso gli aveva detto di aver visto il Demonio portarsela via.

Il parroco aveva ascoltato le sue parole, considerandole, in cuor suo, uno sproloquio dettato dalla sofferenza per la perdita dell’amata madre.

Daniele accostò il microfono alle labbra e iniziò la sua preghiera, guardando dall’alto i pochi parenti e amici, riuniti per l’ultimo saluto a Emma.

«O Dio, che ci comandi di onorare il padre e la madre, apri le braccia della tua misericordia a nostra madre Emma, perdona i suoi peccati e fa che un giorno possiamo rivederla con gioia nella luce della tua gloria. Amen».

«Ma allora non sei stato a sentirmi» sussurrò Gioele a suo fratello, su l’Amen di risposta dei partecipanti.

«Non adesso Gioele, ne riparleremo a casa» disse lui preoccupato, mentre lo invitava a ridiscendere le scale del pulpito.

«La sua anima è perduta, perché non vuoi credermi? Ho visto con i miei occhi, l’ombra del Demonio su di lei!».

L’enfasi con cui lo disse attirò alcuni dei partecipanti, che incuriositi seguivano la scena senza prestare più attenzione al sacerdote sull’altare.

«Abbi un po di rispetto, Gioele!» esclamò.

«Rispetto? Proprio tu vieni a parlarmi di rispetto? L’hai abbandonata e ora chiedi a Dio di rivederla in Paradiso? Non so neppure se ti sarà concesso!».

«Gioele, ci guardano tutti!» esclamò a denti stretti Daniele.

«E che guardino e ascoltino!» gridò all’improvviso.

Ormai tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il parroco non capiva, e svelto si preoccupò di raggiungerli per evitare uno scandalo nella casa del Signore.

«Gioele, ma che fai?» gli domandò scendendo i gradini dell’altare.

«Lo sa bene Padre! Questa messa funebre è un oltraggio a noi fedeli e a mia madre! La sua anima è stata presa dal Demonio, e lei prima di tutti deve fare qualcosa, Padre!».

Il disappunto, nonché l’imbarazzo di tutti era palpabile. Conoscevano tutti il “bigottismo” di Emma e di come avesse manipolato il figlio per intrappolarlo nella sua tela di madre “tossica”, e l’esibizione di Gioele ne era una prova. Una piacevole parentesi per tutti quelli che presenziavano a quella noiosa messa d’addio solo per dovere e non per affetto.

Don Antonio gli si accostò, gli posò una mano amichevole su una spalla e con tenerezza gli ricordò dell’Estrema Unzione che aveva dato a Emma, e tanto bastava per la salvezza della sua anima.

Gioele parve rincuorato e, accompagnato dagli sguardi di commiserazione degli “spettatori”, si rimise seduto accanto a Daniele, in rispettoso silenzio.

Terminata la tumulazione, Daniele accompagnò suo fratello a casa, quando Gioele aprì la porta, il pianerottolo si inondò del profumo di incenso.

«Vuoi entrare?».

«Se non hai bisogno di me, preferirei di no. Non capisco come tu abbia fatto a sopportare per tanto tempo questo odore. Mi dà la nausea» disse Daniele con una smorfia.

«Ma che dici? Il fumo dell’incenso simboleggia il mistero di Dio Stesso, è la Grazia Divina riversata su di noi» lo informò quasi inorridito.

«Povero Gioele! Come ti ha ridotto nostra madre?».

«Come osi parlare in questo modo di lei? Vattene Daniele, e spera che Dio abbia pietà della tua anima!».

«Fatti curare fratello, dammi retta. Ciao».

Daniele si voltò e prese le scale, voleva allontanarsi al più presto da suo fratello e dimenticare per sempre tutto ciò che riguardava la sua triste infanzia e sua madre.

Gioele entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Il profumo d’incenso gli inebriò la mente e chinò il capo in segno di rispetto verso Dio e la sua grazia.

L’appartamento era ancora in ombra, a parte la camera da letto di Emma, nessuno si era preoccupato di sollevare gli avvolgibili delle finestre.

L’uomo rimase sulla soglia della stanza ad osservare il letto sfatto e il cuscino dove si poteva ancora notare un leggero affossamento.

«Hai visto mamma? Don Antonio è riuscito a salvarti» disse, come se il corpo di sua madre giacesse ancora li.

Andò in camera sua, tolse la giacca e le scarpe e infilò vestaglia e pantofole.

E se l’Estrema Unzione fosse avvenuta troppo tardi per strappare l’anima di mamma al Demonio? Pensò fermando il suo cammino verso la cucina.

«Che sciocchezza! Don Antonio sa quel che fa».

La sua affermazione detta a voce alta gli diede sicurezza e, a cuore leggero nel sapere l’anima di sua madre tra le braccia di Dio, raggiunse la cucina per prepararsi dei toast.

Il tavolo era immacolato, sua madre gli aveva insegnato che vivere in un posto pulito e ordinato, avrebbe tenuto tale anche il suo spirito. Aprì un tovagliolo e ci mise sopra il piatto con due toast fumanti, si mise seduto al posto di sempre e sorrise guardando la sedia vuota di sua madre.

«So che veglierai su di me, mamma cara».

Dette queste parole, chinò il capo congiungendo le mani e rese grazie a Dio per il cibo sulla tavola.

*

Era pomeriggio inoltrato, quando Gioele rimuginava su cosa avrebbe dovuto fare degli indumenti di Emma. Lasciarli nell’armadio sarebbe potuta essere una soluzione, ma uno spreco. Tanta gente bisognosa avrebbe gradito quegli abiti, così decise di sistemarli in delle buste che poi avrebbe portato in parrocchia.

Dopo aver riempito tre capienti buste e una scatola, le mise nell’ingresso, poi ritornò nella camera per disfare il letto e raccogliere i pochi indumenti rimasti, che avrebbe messo a lavare, rigorosamente il giorno dopo. Infatti sarebbe stato giovedì, e quello era il giorno che da sempre si dedicava al bucato.

Con estrema cura, pulì il comodino di Emma e quello che era stato il comodino di suo padre, prima che morisse. Spolverò il comò e dopo aver lustrato anche il pavimento, riabbassò l’avvolgibile e chiuse la porta. Non seppe spiegarlo da principio, ma appena chiuse la porta, un senso di inquietudine lo assalì.

Dopo la cena, mai abbondante, perché come diceva sua madre: “l’ingordigia è un peccato capitale e come tale non bisogna assecondarla”, era giunto il momento delle preghiere della sera. Chiuse gli occhi, si inginocchiò sul pavimento della sua stanza, perché soffrire avvicina a Dio, e congiunse le mani. Ma nel buio dietro le sue palpebre, continuava a manifestarsi l’immagine di quella maledetta ombra che si chinava su sua madre.

Il cuore prese ad accelerare il suo battito, ripensando che, nell’oscurità della camera di Emma, i demoni parassiti che ancora sentivano l’odore della sua salma, continuavano a cercarla. D’impulso si sollevò da terra, accese la luce nel corridoio e raggiunse  affannando la stanza che era stata di sua madre, afferrò la maniglia e spalancò la porta. La luce alle sue spalle non era sufficiente a illuminare tutta la stanza e Gioele immaginava scarne figure ingobbite dal peccato, vagare nell’ombra. La bocca gli si inaridì di colpo, il cuore non batteva più, scalpitava e mentre era sull’orlo di perdere il controllo, ebbe la forza di accendere la luce. Non bastò a rassicurarlo, vi era ancora un luogo dove gli immondi potevano rintanarsi! Afferrò il materasso e lo trascinò sul pavimento così da non lasciare un singolo angolo della camera nell’ombra.

Lentamente sentì il cuore riprendere un battito normale, si passò il dorso di una mano sulla fronte per asciugare i rivoli di sudore che gli gocciolavano dall’attaccatura dei capelli.

«Ma cosa mi succede? Questa casa è inondata dell’amore di Dio, cosa devo temere? Perdonami per aver dubitato di te Padre!».

Si fece il segno della croce e lasciando le luci accese dietro di sé, ritornò nella sua stanza, concluse le sue preghiere recitando a voce alta e con grande trasporto il Salmo 23, e si mise a letto.

Non gli andava di spegnere la lampada sul comodino, e neanche di darla vinta al suo infondato timore. Trovò il modo di aggirare l’ostacolo leggendo qualche passo della Bibbia, e se poi si fosse addormentato con la luce accesa, beh, sarebbe stato per stanchezza e non per una vera e propria decisione.

Mentre leggeva, si rese conto che lo sguardo scorreva sulle parole senza comunque riuscire ad assaporarne il concetto, un nuovo pensiero si stava insinuando viscido come una serpe. Nonostante avesse ben illuminato la stanza dove sua madre era spirata, poteva essere che qualche entità lo avesse seguito per rintanarsi nell’angolo buio di un’altra stanza.

Decise che doveva smetterla di incutersi paura, ormai Emma non c’era più e doveva cavarsela da solo. Il modo migliore per farlo era pensare ad altro e cercò di leggere con più attenzione le sacre scritture. Ma più cercava di non pensare e più lo faceva, immaginando i parassiti demoniaci che lentamente si insinuavano nella vecchia camera di Daniele.

Si accorse che le mani avevano iniziato a tremargli senza controllo mentre il cuore scalpitava facendo risuonare ogni frenetico palpito in gola e nelle orecchie. Scaraventò il leggero piumone sul pavimento e si alzò in preda al panico.

«Le luci! Accenderò tutte le luci, è questo che devo fare!».

Ma prima di aprire la porta della sua camera, si fece il segno della croce per tre volte e invocò Dio con una preghiera, affinché dietro il legno di quell’uscio non si nascondesse un demonio pronto a ghermirlo.

«O Signore che creasti gli Angeli e gli Arcangeli affinché ti servissero e ti adorassero, e hai dato loro la missione di proteggerci e aiutarci a compiere la Tua volontà, fa’ che non ci manchi mai la loro protezione, consolazione e il loro aiuto. Allontana con la loro presenza le insidie del nemico e la presenza del maligno. Santi Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele, Uriel, Selatiel, Iehudiel e Barachiel, pregate per me. Amen».

Senza pensarci troppo, spalancò la porta sul corridoio ben illuminato e sentì l’angoscia svanire. Arrivò dinnanzi alla stanza di Daniele, dischiuse con timore la porta e si accorse che la luce era accesa. Gli angeli lo avevano protetto e avevano illuminato la camera per lui! Sorrise e spalancò la porta.

Gioele non poteva sapere che Daniele, in un breve momento di malinconia, era stato nella sua vecchia camera, dove tante volte si era rifugiato per non dover sentire gli sproloqui religiosi, invadenti e malsani di sua madre e nell’uscire di corsa, essendosi pentito di esserci entrato, non aveva spento la luce.

Se gli angeli ritenevano opportuno che la casa restasse illuminata per evitare che i demoni si potessero annidare, Gioele avrebbe provveduto ad accontentarli. Incoraggiato da questo pensiero, accese ogni luce e lampada presenti.

Prima di coricarsi accese la luce principale della sua stanza e dispose l’abat-jour sul pavimento, in modo tale che illuminasse bene sotto il suo letto. Sorrise soddisfatto, si fece il segno della croce per tre volte e finalmente si addormentò.

*

Come ogni mattina, la sveglia del cellulare suonò alle 5.30. Gioele si dedicò alle preghiere del mattino, inondò di luce naturale tutte le stanze e si dedicò all’igiene personale, stando ben attento a non farsi cogliere dal desiderio di atti impuri durante l’intimità col suo corpo.

Quando raggiunse la parrocchia, presso la quale lavorava, erano ormai le 8.00 passate.

Stava scaricando gli indumenti della madre nel piccolo magazzino quando sobbalzò sentendosi toccare la spalla.

«Padre, mi ha spaventato!».

Don Antonio sorrise. «Come stai, figliolo?».

«Preoccupato…» disse infilando l’ultimo sacco sul ripiano in metallo.

«E di cosa? Emma è con Dio adesso».

«Gli Angeli mi hanno indicato la via, ma ho paura che non sia sufficiente a tenerli lontani».

«Tenere lontano chi?».

«I demoni, Padre. Li sento presenti nell’ombra della casa, ma gli Angeli mi hanno detto di illuminare tutto per tenerli lontani, loro stessi hanno acceso una luce per me» disse con convinzione.

«Vieni, andiamo in sacrestia, Gioele» lo invitò Don Antonio, preoccupato per il suo fedele.

Gioele lo seguì, ben felice di avvicinarsi di più alla chiesa e al suo altare.

«Siediti, Gioele».

Lui obbedì mettendosi in una delle sedie, di fronte alla scrivania del parroco.

«Mi dà conforto saperla al mio fianco, Padre» gli disse con un gran sospiro.

«Vedi Gioele, i demoni sono sempre con noi, come lo sono gli Angeli. I primi ci tentano nelle nostre debolezze, i secondi ci aiutano a resistergli».

«Che significa che sono sempre con noi?» Gioele iniziava ad agitarsi, guizzando con lo sguardo in ogni direzione.

«Certo, figliolo. Come lo sono gli Angeli, ma solo noi possiamo decidere a chi dare ascolto e so che tu confidi in Dio e sei di buon spirito e per questo ti dico che non devi temere».

«Anche in questo momento?» Di nuovo una terribile angoscia gli attanagliava la gola.

«Non devi temere mai!» esclamò il prete.

La bocca di Gioele era diventata arida, gli riuscì a stento di ingoiare, e una copiosa sudorazione le impregnò i capelli.

«Anche adesso gli immondi sono al mio fianco?».

Don Antonio vide il lampo di follia negli occhi del suo fedele, e cercò di correre ai ripari.

«Non dimenticare che al nostro fianco, l’Angelo custode ci protegge. Non devi temere o aprirai uno spiraglio al peccato. Sai che il Demonio approfitta delle nostre paure…».

«Basta, adesso! Non voglio più parlare di questo!» esclamò Gioele. Si alzò di scatto dalla sedia, rovesciandola e corse piangendo verso la chiesa, spalancando la porticina che la divideva dalla sacrestia e lasciando Don Antonio sbigottito dal  comportamento inadeguato dell’uomo.

Quando lo raggiunse, lo trovò sdraiato a faccia in giù sul pavimento dinnanzi all’altare. Tremava e piangeva, non aveva mai visto una persona colto da un attacco di panico così grave.

«Gioele, riprenditi» gli disse cercando di sollevarlo.

«Lasciami! I demoni mi cercano, lo so. Vogliono entrarmi dentro! Anche adesso sento che mi sfiorano, sussurrano alle mie orecchie. Prima o poi mi prenderanno…». Urlava con la fronte posata sul pavimento, il corpo rigido come un tronco.

«Non accadrà, Gioele. Ti dirò io cosa fare» gli disse il prete, sperando di poterlo calmare, e quando ci fosse riuscito, avrebbe chiamato il fratello e un’ambulanza.

Le parole di Don Antonio parvero avere effetto, sulla mente sconvolta di Gioele.

Spostò il viso di lato, lasciando la guancia posata sulla mattonella bagnata di bava e lacrime.

Antonio capì la gravità della situazione quando vide il suo sguardo. Sembrava perso all’inferno.

«Cosa devo fare?» chiese.

Dovendo rispondere con velocità ed efficacia a quella domanda, il prete si tolse la stola, che aveva indossato quella mattina per prepararsi alle confessioni, e gliela posò dietro la nuca e sulla guancia paonazza.

«Devi pregare e questa ti aiuterà».

Come fosse stato un vero e proprio scudo contro i Demoni, Gioele si mise seduto avvolgendosi il tessuto al collo.

«Grazie, grazie, grazie…» si dondolava con le ginocchia strette al petto, cercando conforto nella stola che odorava di dopobarba.

«Vuoi andare a casa?» gli chiese, sperando che accettasse. Aveva paura di lui, della sua follia, del fatto che Gioele potesse perdere il controllo e compiere qualche gesto violento.

«No!» esclamò.

«Va bene, stai tranquillo. Qui nella casa del Signore, sarai al sicuro, ma devo chiederti di metterti seduto nel banco, puoi farlo per me?».

Gioele acconsentì e prese posto al secondo banco, inginocchiandosi. Congiunse le mani e iniziò a recitare il rosario in modo convulso, riprendendo quello strano dondolio.

Raggiunta la sacrestia, Antonio sfilò il cellulare dalla tasca e compose il numero del 118, spiegando la tragica situazione che si era creata e il fatto che il suo fedele avesse perso completamente la ragione. Poi cercò tra i documenti sulla scrivania rimasti lì dal giorno prima, il recapito di Daniele, inviò la chiamata e rimase in attesa. Nonostante i diversi tentativi, Daniele non rispose, probabilmente era impegnato con il lavoro, pensò Antonio.

Quando rientrò in chiesa, vide che in uno degli ultimi banchi si erano radunate alcune delle “pie donne”, in attesa della confessione. Guardavano con imbarazzo e lieve timore quell’uomo che recitava il rosario a voce alta e tra le lacrime.

Antonio le raggiunse e le invitò a rientrare a casa e tornare più tardi, visto che ora doveva occuparsi del suo parrocchiano che non stava molto bene. Le “pie donne” ubbidirono, uscendo dalla casa di Dio in silenzio, ma l’idea di rientrare a casa non le sfiorò neppure. La curiosità morbosa di impicciarsi nel dolore altrui era molto più forte del rispetto della propria dignità.

Erano lì a confabulare, quando l’ambulanza parcheggiò nel cortile della chiesa, attirando altri curiosi.

Tre uomini in divisa arancione, seguiti da un altro in borghese che reggeva una valigetta, entrarono nella chiesa. I pettegoli rimasero in attesa di vedere chi avessero portato fuori e, aspetto più interessante, in quali condizioni.

Ben presto le urla di Gioele, giunsero nel cortile. L’uomo in preda alla sua psicosi non poteva riconoscere i suoi soccorritori, che vedeva come uomini al servizio di Satana che avevano come unico scopo di allontanarlo da Dio per possederlo. Il trambusto dei banchi spostati e il boato di uno caduto, fu seguito finalmente dal silenzio.

La folla taceva con gli occhi sgranati quando due volontari uscirono per prendere la barella.

L’ambulanza era appena ripartita, quando il cellulare di Don Antonio vibrò. Daniele si era liberato. Antonio gli diede la triste notizia del ricovero forzato di Gioele, presso l’Istituto di Igiene Mentale del S.S.MA Trinità.

*

Lo squallore del reparto accolse Daniele, e non perché fosse sporco o trascurato. Erano i volti dei pazienti, gli sguardi vacui, le labbra dischiuse in un espressione di stupidità a renderlo tale. Non poteva permettere che suo fratello stesse chiuso lì dentro.

Intercettò un infermiere e si presentò chiedendo di Gioele.

«Non è stato ancora portato in reparto, ma il medico l’attende in studio. L’ultima porta» disse indicandogli la fine del corridoio.

Daniele ringraziò e raggiunse la porta indicata. Bussò quasi con timore e un secondo dopo fu invitato ad entrare.

«Buongiorno. Sono Daniele Melis, il fratello di Gioele. Mi hanno detto che voleva parlarmi» disse alla dottoressa che sedeva dietro la scrivania ingombra di faldoni e documenti.

Lei si alzò e lo raggiunse, con la mano tesa.

«Buongiorno. Si accomodi» lo invitò e poi riprese il suo posto.

«Veniamo subito a noi. È  da molto che Gioele ha questi deliri psicotici?» chiese sorridendo, come stesse chiedendo di un banale mal di testa.

Deliri psicotici? Ma di che diamine stava parlando?

«Dottoressa, mi coglie alla sprovvista. Non so proprio di cosa stia parlando…».

Il medico lo guardò con curiosità. Poi Daniele aggiunse: «È tanti anni che non vedevo mio fratello» si giustificò.

«Quindi non può dirmi nulla a riguardo?» chiese.

Daniele distolse lo sguardo, imbarazzato.

«Forse. Mio fratello ha sempre vissuto con mia madre, una donna difficile… Purtroppo è morta martedì scorso e credo che Gioele, ne abbia risentito, ecco».

«Non è una condizione nuova quella di suo fratello, sicuramente la morte di vostra madre è stato il fattore scatenante, ma il disagio è insito in lui da molto tempo, temo».

«Don Antonio, non ha voluto spiegarmi, ha preferito foste voi a farlo».

«Gioele è ossessionato dal timore che il demonio possa impossessarsi di lui. Sa spiegarlo?» chiese il medico.

«Credo di sì» disse costernato.

Raccontò di come Gioele fosse stato la sua salvezza. Molto più remissivo e debole, era sempre stato il preferito di sua madre. Aveva completo controllo su di lui e pretendeva obbedienza da entrambi, facendo leva sui sensi di colpa. Durante la loro adolescenza (Daniele era più grande di Gioele di soli due anni) e con la ribellione imminente, Daniele trovava il modo di passare più tempo possibile fuori casa. Non potevano neppure chiudere le porte delle loro stanze, tanto meno quella del bagno, gli atti impuri erano un grave peccato, e lei doveva controllarli. Sì, perché quando ormai i “tu non mi vuoi bene” e i “se non fai come ti dico, mi fai piangere”, iniziavano a non funzionare più, ecco giungere nuovi pericoli in cui sarebbero potuti incorrere i due ragazzini. Se si fossero allontanati dalla madre: il Demonio era pronto a ghermirli per portarseli via.

Ricordava bene di quando sua madre li aveva costretti a guardare insieme a lei spezzoni di film dove avvenivano esorcismi, e interviste di preti che compivano tali liberazioni, aveva undici anni e Gioele solo nove. Ricordava bene il sorriso della madre nel vederli terrorizzati, assicurandosi così di ospitarli nel “lettone” per diverse notti. Era iniziato così anche il rito delle preghiere mattutine, pomeridiane e serali, e di tanto in tanto Emma li svegliava costringendoli a pregare anche di notte, perché raccontava loro di aver sentito dei respiri nel buio e odore di zolfo.

A quindici anni, quando sua madre ebbe la malsana pretesa di fargli il bagno come fosse un moccioso, Daniele prese la sua decisione. Andò via di casa e restò a vivere dalla nonna paterna fino alla maggiore età.

«Io sono fuggito prima che il “lato oscuro” del suo amore mi inghiottisse. Gioele ha subito la sua ossessività, il suo controllo e il suo egoismo fino agli ultimi istanti in cui l’inferno non ha deciso di portarsela via!». Daniele piangeva, schiacciato dal senso di colpa che provava nei confronti di suo fratello.

Aveva deciso di ignorare tutto ciò che accadeva dietro le mura di quella casa, aveva deciso di ignorare persino la loro esistenza, fino a quando aveva iniziato a farsi seguire da uno psicoterapeuta e ogni volta che il ricordo di qualche episodio gli ritornava alla mente, stava male fisicamente tanto da vomitare nel cestino della carta dello studio del suo analista.

«Si calmi, Daniele» disse amorevole la dottoressa, porgendogli dei kleenex.

«Mi scusi…» disse, poi si soffiò il naso. «Posso vederlo?» chiese.

«Certo, ma tenga presente che è stato sedato per il suo bene e quello dei soccorritori. Venga, l’accompagno».

Uscirono nel corridoio, il medico scambiò due parole con uno degli infermieri, poi lo invitò a seguirla.

Gioele giaceva privo di coscienza tra le candide lenzuola anonime dell’ospedale. Indossava ancora i suoi abiti, e subito si rattristò per non aver provveduto a portargli una borsa con i suoi effetti personali e un pigiama. Ci avrebbe pensato più tardi. Si avvicinò a osservarlo, ebbe la sensazione che dal giorno del funerale fosse invecchiato ulteriormente di altri dieci anni. Sentì una morsa al cuore.

«Vado a preparargli una borsa con l’occorrente, posso tornare subito o aspetto l’orario di visita?» chiese alla dottoressa che era rimasta in disparte.

«Venga pure quando gli è più comodo, Daniele».

*

Daniele ritornò in ospedale due ore più tardi. Dopo aver cercato suo fratello, e iniziando ad agitarsi si rivolse alla capo infermiera, intenta a bere un caffè nell’angusta sala riposo.

«Al suo risveglio, ha iniziato ad agitarsi e lo abbiamo trasferito in un’altra camera dove starà da solo. Almeno fino a quando la terapia non inizierà a fare effetto» disse non curante della sua angoscia. Gli diede il numero della camera e lo chiuse fuori ritornando alla sua pausa caffè.

Lo trovò inginocchiato ai piedi del letto, ciondolando leggermente di qua e di là.

«Ciao Gioele, come ti senti?».

L’uomo lo guardò un istante e parve che la forza di cinque uomini lo avesse posseduto. Si alzò di scatto e gli strappò via la vecchia valigia in cui aveva riposto qualche cambio.

«L’hai preso? Lo hai preso? Dimmi che ti sei ricordato!» mentre ripeteva in modo convulso le sue domande, svuotava come un ossesso il bagaglio.

«Ma che ti prende? Cosa stai cercando?» gli domandò allontanandosi di qualche passo.

«La mia Bibbia! Il mio Vangelo! Il rosario della mamma!»

Gioele era paonazzo e urlava in faccia al fratello, gli occhi fuori dalle orbite per il terrore. Gli strinse le grandi mani intorno al collo, premendo forte.

«Mi prenderanno! Questa stanza è piena di demoni, si nascondono e adesso per colpa tua mi prenderanno!».

Daniele stava quasi per perdere i sensi, quando si sentì afferrare dalla vita, mentre due infermieri strappavano dalla sua gola le mani di suo fratello. Lo atterrarono, mentre la dottoressa gli iniettava qualcosa nel braccio. Gioele si accasciò e venne poi sistemato nel letto.

Nello studio del medico, Daniele si riprese e rimase in attesa della diagnosi della  dottoressa.

«Sta meglio?» gli chiese.

«Un po’ scosso in realtà. Ma cosa succede a mio fratello? Io non lo avevo mai visto così!».

«Gioele soffre di una grave fobia scatenata e nutrita negli anni, molto probabilmente da sua madre. Ma temo che ci sia ben altro sotto questo malessere» rivelò costernata la dottoressa.

«Una fobia… che genere di fobia?».

«Potremmo definirla “Demonofobia”, il terrore costante di essere posseduto da entità demoniache e dal Demonio stesso».

«Cosa posso fare, dottoressa?».

«Ben poco. Come le ho già detto, temo che questa sia solo la punta dell’iceberg. Si tratta di trovare il dosaggio giusto dei farmaci che già stiamo utilizzando. Dovremmo tenerlo qui, qualche settimana».

«E dopo?» chiese preoccupato Daniele.

«E dopo verrà dimesso».

«Come dimesso? Crede che possa continuare a vivere da solo?».

«Sarebbe meglio di no, ma se avrà la costanza di prendere i farmaci tutti i giorni, potrà tornare a una “quasi” vita normale».

«Mh, vita normale. Non credo che Gioele ne abbia mai avuta una».

«Sarebbe un bene che fosse seguito da uno psicoterapeuta, purtroppo le sedute qui da noi saranno sporadiche e di un massimo di dieci. Capisce bene che non saranno sufficienti per aiutarlo».

«Non posso permettermi una spesa come questa. A stento riesco a rientrarci con le mie sedute, sa bene di cosa parlo. Gli psicoterapeuti si fanno pagare…».

«Mi dispiace».

Nella penombra della camera d’ospedale, Gioele giaceva immobilizzato dalle cinghie strette ai polsi e alle caviglie. Era vigile, ma i suoi muscoli non volevano ubbidire al suo volere. Cercò di gridare, ma dalla gola venne fuori un debole gracchio.

«Mamma aveva ragione, come sempre. Sarei dovuto andare con lei» mormorava, ma ciò che si udiva era un suono incomprensibile.

Nella sua mente prese forma un volto deforme con profondi occhi neri e un ghigno malvagio.

«Va’ via, immondo!» gracchiò, cercando di scacciarlo. Fu in quel momento che si sovrappose, alla mostruosità, il viso di sua madre. Lo stava chiamando, lo stava aspettando per liberarlo da quel terrore, per proteggerlo.

«Troverò il modo mamma, aspettami…» farfugliò.

Avrebbe atteso il momento giusto e si sarebbe tolto la vita.

“Non è un peccato mortale, se è fatto per una giusta causa”, così gli aveva detto mamma.

E cosa c’è di più giusto di volersi ricongiungere alla propria madre?

*

Due settimane più tardi, Gioele fu dimesso. Daniele aveva parlato con il medico di turno, apprendendo che il fratello aveva risposto bene alla terapia e che sarebbe stato in grado di provvedere a se stesso, senza essere un pericolo per sé e per gli altri. Parole di comodo, utili a sbarazzarsi di un malato, per liberare un posto letto.

Vedendolo uscire dalla sua stanza, con la vecchia valigia consumata, che egli stesso gli aveva portato, gli andò incontro abbracciandolo, ma Gioele non contraccambiò il saluto, si limitò a sorridergli.

«Coraggio, torniamo a casa. Da’ pure a me, te la porto io» gli disse prendendogli il bagaglio.

Il medico aveva consegnato a Daniele un mazzetto di ricette, con la raccomandazione di acquistarle immediatamente e di proseguire la terapia come era indicato nel foglio di dimissioni.

Davanti alla farmacia, Daniele spense il motore.

«Torno subito. Starai bene?».

Gioele sorrise ancora e assentì col capo. Stava per scendere dall’auto ma pensò che sarebbe stato meglio togliere le chiavi dal quadro  e portarle con sé.

Grazie al cielo, doveva attendere solo due persone prima di essere servito, e ogni tanto dava uno sguardo fuori, per accertarsi che il fratello fosse ancora lì.

Tutti furono serviti celermente, e Daniele uscì cinque minuti dopo, con una busta piena di farmaci e integratori.

«Eccomi! Ora rientriamo e ti aiuto a sistemarti» disse mettendo in moto e uscendo dal parcheggio.

Gioele gli sorrise di nuovo.

«Quando ho saputo delle tue dimissioni, mi sono permesso di farti un po’ di spesa, fratellino».

Gioele lo guardò, poi sfilò il portafoglio dalla tasca della giacca e con aria vaga gli domandò: «Grazie, sei stato gentile. Dimmi quanto devo darti».

«Ma che dici? Niente, non devi darmi nulla. L’ho fatto con piacere, davvero».

«Grazie» rispose e si rimise in tasca il portafoglio.

Finalmente entrarono nel portone della palazzina.

«Prendiamo l’ascensore, o preferisci fare le scale?» gli chiese, ricordando quanto Gioele odiasse gli spazi angusti.

«Io salgo a piedi, tu prendi pure l’ascensore» rispose, avviandosi verso la rampa.

Daniele acconsentì, non gli andava di farsi cinque piani di scale a piedi.

Giunto al piano, le porte dell’ascensore si aprirono. Si potevano udire i passi di Gioele che rimbombavano nella tromba delle scale. Decise che lo avrebbe aspettato.

Entrarono. L’appartamento era ben illuminato e profumava di pulito. Daniele era stato lì quella mattina per rinfrescare gli ambienti.

Gioele storse il naso, appoggiò la valigia nell’ingresso e si diresse a passo svelto verso la credenza dove tenevano l’incenso, ne prese un pezzetto e dopo averlo acceso lo appoggiò nel piccolo braciere, accanto elle immagini sacre sul ripiano dello stesso mobile.

«Ecco, ora va meglio!» esclamò.

Evidentemente non aveva abbandonato i vecchi riti, ma le sue azioni erano giustificate da una vita di ossessiva dedizione al Signore, cosa si poteva pretendere?

«Vai, mettiti pure a tuo agio. Inizio a sistemare le medicine nei dispenser, così sarai più tranquillo. Ne ho acquistato due, uno per la mattina e uno per la sera, con colori diversi, così sarà più semplice» gli disse Daniele sparendo oltre la porta della cucina.

Gioele rimase per un attimo sconcertato da tanta dedizione e affetto. Ma doveva stare tranquillo, presto se ne sarebbe andato e avrebbe potuto parlare con i suoi angeli. Sapeva che i demoni erano nascosti da qualche parte, ma sapeva anche che preoccuparsene adesso avrebbe solo messo in allarme suo fratello, e lui non voleva tornare in quel posto di merda! Si fece il segno della croce per chiedere perdono per la parolaccia che aveva pensato. Sistemò la biancheria sporca nella cesta, ripose tutto il necessario da toilette nel mobile del bagno e mise la valigia nell’armadio della vecchia camera di Daniele, poi lo raggiunse in cucina.

«Eccoti, qui. Allora ti ho messo tutti i farmaci nel solito mobile della dispensa, mentre qui, accanto alla macchina del caffè, troverai il dispenser con ciò che dovrai assumere la mattina, e qui il dispenser per il pomeriggio e la sera» gli disse indicando il piccolo carrello dove da sempre tenevano il porta pane e la scatola dei biscotti.

«Perché lo fai?» gli chiese Gioele.

«Solo per aiutarti…».

«Credi che non sia in grado di preparami le medicine?» lo interruppe.

«Ma no, che dici! Non intendevo niente del genere».

«Allora, basta così».

«Vuoi che ti prepari qualcosa per cena?».

«No. Farò da solo, come ho sempre fatto e non solo per me, ma anche per nostra madre» gli ricordò.

L’atmosfera iniziava a farsi tesa e Daniele, che non avrebbe voluto trovarsi lì, si sforzò di avere un po’ di compassione per quel fratello che già una volta aveva abbandonato. Mentre Gioele era ricoverato si era giurato che gli sarebbe stato accanto fino alla fine dei loro giorni. Il suo terapeuta non sembrava d’accordo, e gli consigliò di limitare questo “interesse per Gioele” a un’ora al giorno e non di più.

Era difficile però riallacciare un rapporto che in realtà non era mai esistito.

«Va bene, come vuoi tu. Ho preso qualche giorno di ferie, passerò domattina a trovarti, se ti fa piacere» gli disse, cercando di dimostrargli che in qualche modo avrebbe voluto recuperare il tempo perduto.

«Sentiamoci domani» tagliò corto Gioele.

Daniele ebbe la netta sensazione che qualcosa non andasse, era come se non vedesse l’ora di mandarlo via per fare qualcosa di segreto. O magari era il solito Gioele, del resto cosa conosceva di lui? Ormai più nulla.

*

Dopo aver accompagnato suo fratello alla porta e averla chiusa con tutte le mandate che la serratura gli consentiva, Gioele raggiunse la cucina, recuperò tutti i nuovi farmaci che il suo “amorevole fratello” gli aveva comprato e si mise seduto al tavolo della cucina.

Finalmente poteva vedere con i suoi occhi, quali porcherie gli stessero dando.

Prese in mano uno dei farmaci con la scatola più grossa.

«Alprazolam tablet 1 mg, vediamo che roba è, mamma» disse guardando di sfuggita la sedia vuota di fronte a lui. «Senti qua: Ansia, manifestazioni psichiatriche» emise un leggero risolino e poi continuò la lettura del foglietto illustrativo: «Attacchi di panico… Le benzodiazepine sono indicate quando il disturbo è grave!».

Dopo l’esclamazione scosse leggermente la testa, sorridendo. Quella gente non sapeva ciò che faceva. Gli stavano dando del pazzo!

Con cura, scartò ogni singola pasticca, tavoletta e compressa, prese un piccolo insalatiere e, strisciando con la mano aperta sul tavolo, accompagnò i farmaci liberati dal loro involucro, nella ciotola. Raggiunse il bagno, rovesciò il contenitore nel water e tirò lo sciacquone.

Soddisfatto, raggiunse la camera da letto di sua madre e si sdraiò accanto al suo posto. Guardò il cuscino di Emma, gli sorrise e chiuse gli occhi.

Sette ore dopo, Gioele si svegliò di soprassalto in preda a un violento attacco di tremori, sudava copiosamente e per di più fuori stava facendo buio. Cercò di riprendersi, combattendo in ogni modo quei movimenti inconsulti, che non gli permettevano di sincronizzare i movimenti. Il cuore impazziva nel petto, sapeva cos’era: uno di quei maledetti demoni cercava di entrare nel suo corpo! Appena ebbe espresso questo pensiero, degli atroci dolori alla muscolatura delle cosce lo fecero urlare.

«Bastardiiii! Non mi avrete, non mi avrete mai! Il mio corpo è il tempio di Dio, non c’è spazio per voi!».

Improvvisamente ebbe dei violenti conati e lo stomaco iniziò a contorcersi.

Dunque erano già dentro di lui! È bastato sentire il nome di Dio, perché si contorcessero dentro il suo corpo.

Sentiva danzare intorno a sé altre entità, nella penombra che andava via via facendosi più scura. Sotto il letto una voce roca bisbigliava. Cosa stava dicendo? Ma certo, avevano preso sua madre e ora erano venuti a prendere lui.

A gran fatica si alzò dal letto.

«Mamma, avevi ragione tu». Raggiunse la sala e aprì la porta finestra. Nuove contrazioni muscolari lo bloccarono mentre del vomito acido gli salì alla bocca. Doveva fare presto, pensò e uscì sul balcone. «Sto arrivando mamma, insieme ci proteggeremo. Insieme combatteremo e saremo più forti».

I tremori erano aumentati, ma Gioele riuscì a scavalcare la ringhiera del balcone.

«Non ci avranno madre!».

Lasciò andare la presa e con le braccia aperte come il Cristo sulla croce, iniziò la sua preghiera, mentre cadeva nel vuoto.

«Mio Dio mi pento e mi…».

Ora il suo corpo giaceva scomposto sul marciapiede in una pozza di sangue, ma era libero.

Annamaria Ferrarese