IL VIZIO

Oggi sono 15 giorni che non tocco una bottiglia…

Pensava Alice, ben consapevole che non sarebbe durata più a lungo di qualche altro giorno. Ma in cuor suo voleva crederci. Si stropicciava nervosamente le mani e, nonostante la temperatura all’intero della sua Punto non  superasse i 12 gradi, sudava copiosamente.

Mara era stata chiara: «Se non ti ripulisci, non potrai stare qui».

Mara era la direttrice di una Casa Rifugio ben nascosta nelle campagne del sud Sardegna. Dall’esterno poteva assomigliare ad una grande fattoria, con il suo bestiame e il modesto caseificio, dove si confezionavano latticini e formaggi. Lei stessa era stata vittima di abuso, dopo essersi persa per le strade e nella mente, per molti anni. Aveva avuto la forza di rimettersi in piedi per essere d’aiuto ad altre “disgraziate”.

Alice ammirava Mara per il suo coraggio e per la sua forza di volontà, nonostante le sue dipendenze ne era uscita. Era pulita e questo le dava un minimo di speranza, forse anche lei ci sarebbe riuscita… forse.

Adesso era lì, seduta nella sua auto ancora puzzolente di vomito, parcheggiata di fronte al centro commerciale.  Osservava le persone entrare e uscire, con le loro buste di viveri e bevande. Un omone corpulento arrivò col suo carrello pieno zeppo, fino all’Audi grigia parcheggiata accanto alla sua. Il vento giocava col carrello, allontanandolo dall’auto ogni volta che l’uomo sistemava una delle buste nel bagagliaio. Più di una volta lo sentì imprecare. Poi riconobbe la scatola in metallo di una rinomata marca di whisky e la voglia di bere si fece quasi insopportabile. Con le mani tremanti ebbe la forza di mettere in moto e con una sgommata uscì dal parcheggio. Quasi investì l’omone che per l’ennesima volta recuperava il suo carrello. Lo vide dallo specchietto retrovisore dimenarsi con un braccio sollevato verso di lei.

«Maledizione! Vaffanculoooo!» urlò mentre piangeva aggrappata al volante.

Rientrò al rifugio, parcheggiò nel capannone, dove chi possedeva un’auto poteva nasconderla da occhi indiscreti, ed entrò in casa. Le ragazze nella sala comune, la guardarono e subito abbassarono lo sguardo, sapevano bene cosa Alice stesse passando in quel momento: il viso pallidissimo, i capelli castani scompigliati e tenuti insieme da un elastico in spugna, le mani tremanti, nascoste all’interno delle tasche del giubbotto più grande di una taglia, e quel mordersi in modo frenetico il labbro inferiore.

«Hai bevuto?» le chiese Mara, senza mezze misure.

«Starei così se lo avessi fatto?» rispose sarcastica, senza neppure rallentare.

Quando fu nella sua camera, che per altro doveva dividere con altre quattro compagne di sventura, si buttò sul letto, rannicchiandosi e pianse tutta la sua frustrazione.

Qualcuno bussò alla porta, Alice sapeva chi era. Non disse nulla, ma Mara non attese il suo permesso ed entrò.

«Sei stata brava» le disse sedendosi accanto. Alice non rispose. «Hai preso il Campral, stamattina?».

«Non serve a niente!» esclamò con il viso sprofondato nel giubbotto.

«Andiamo, hai bisogno di una doccia. Poi ne riparliamo, d’accordo?».

Alice accettò, che scelta aveva?

Nessuna delle donne al rifugio conosceva la vita precedente dell’altra. Ma i loro volti, le cicatrici e i loro sguardi colmi di vergogna, raccontavano la stessa storia di abusi e violenze.

Alice aveva conosciuto la sua prima violenza a soli cinque anni, quando sua madre entrò in uno strano giro che le fruttava dosi di eroina giornaliere. In cambio doveva “solo” concedere qualche ora la sua bambina a uomini “particolari”.

All’inizio erano solo fotografie e carezze, sua madre restava a controllare (Che brava mamma!), ma più avanti, quando la sua dipendenza si fece più grave non controllò più. Spesso non si alzava neppure dal divano, lasciandola sola con l’orco di turno.

Aveva sette anni quando sua madre morì di overdose sul pavimento della cucina.

*

Quel pomeriggio, le toccò la pulizia della stalla, meglio che del porcile! Odiava quelle bestie, con il loro grosso collo e quella pelle rosa, i movimenti goffi e pesanti. Li immaginava nella sua stanza di quando era bambina sdraiati sul suo letto. Lo stomaco le si contorse e per poco non vomitò. L’odore di sterco non aiutava e uscì a prendere una boccata d’aria. Poi prese coraggio e portò a termine il suo lavoro.

*

Durante la cena, le quindici donne intorno al tavolo, per lo più raccontavano delle esperienze vissute durante la giornata. Si accorse di un volto nuovo, una ragazza che probabilmente aveva la sua stessa età, 22 anni. Taciturna, bighellonava con le sue penne al sugo senza prestare attenzione. Aveva lo zigomo destro spaccato e tumefatto, spiccava il filo da sutura in cinque punti ben stretti. Altri tre sul labbro inferiore. Sotto quel gonfiore, forse era anche più giovane. Smise di guardarla.

Era stanca, le braccia le dolevano. Si alzò e lavò le sue stoviglie, riponendole nello sgocciolatoio.

«Non mangi altro?» le domandò Mara.

«No, vado a dormire. Buonanotte».

Tutte salutarono, tranne la “tumefatta” ancora nella sua personale bolla di violenza subita.

Non passò molto tempo che le altre la raggiungessero, mettendosi ognuna a dormire nel proprio letto.

Alice sentì i loro respiri pesanti e ne fu gelosa. Loro potevano riposare e andare avanti, mentre lei era ancora incastrata nella tela appiccicosa della sua dipendenza.

Nuovi tremori le invasero il corpo. Si mise seduta sul letto, i respiri calmi delle sue compagne di stanza erano insopportabili. Prese dal comodino le MS e l’accendino e uscì sul portico, l’aria era gelida. Si abbottonò il giubbotto che aveva indossato sopra la tuta sbiadita e sentì tintinnate il piccolo mazzo di chiavi che teneva in tasca.

«Fanculo!».

Buttò via la sigaretta che neppure aveva acceso e corse verso la sua auto, già più serena. Aveva preso la sua decisione: solo un goccio per riuscire ad andare avanti!

Mara non perdeva mai di vista le nuove arrivate, sapeva di non poter intervenire in nessun modo se loro stesse non avessero deciso di smettere di bere, di drogarsi o di dare ancora amore e fiducia alla “bestia” che si tenevano accanto.

Guardò dalla finestra la Fiat Punto uscire dal capannone e prendere la strada a tutta velocità. Le si strinse il cuore, ma sapeva bene che prima di riemergere, Alice avrebbe dovuto toccare il fondo.

*

Il primo centro abitato nella zona della “fattoria”, era il paese di Terra del Capo. Alice percorse le strade deserte alla ricerca dell’insegna di un bar che fosse ancora aperto. Non dovette girare tanto, in fondo alla strada principale, il marciapiede di fronte a una bettola ospitava un certo numero di personaggi, di cui Alice conosceva bene il copione. Sbandati, alcolizzati e delinquenti, recitavano sempre la solita parte e lei sapeva bene come farsi offrire da bere: recitando la sua.

Parcheggiò a pochi metri di distanza, spense l’auto e cercò di rendersi appetibile. Accese la luce e inclinò lo specchietto retrovisore. La parte di viso che comparve nella superficie riflettente, la spaventò. Due scure occhiaie le segnavano gli occhi e gli zigomi sporgevano come quelli di un teschio. Tirò su il mento per guardarsi le labbra e anche quello non fu un bello spettacolo. Il labbro inferiore che era solita tormentarsi da quando era iniziata l’astinenza era livido ed escoriato e una leggera crosticina giallastra semiliquida iniziava a prendere forma.

Il sentimento di inadeguatezza e vergogna, svanì in un soffio, era così vicina alla sua “cura” che non perse tempo, sfilò l’elastico dai capelli, se li ravvivò un pochino e scese dall’auto impersonando il copione della ragazza che le avrebbe dato da bere.

«Ciao, bella! Che ci fai tutta sola?» gli gridò un uomo tarchiato. I suoi compari si girarono a guardarla.

«Chi ti dice che non stia aspettando qualcuno?» le rispose Alice, avvicinandosi al branco.

Gli uomini sono degli stupidi bavosi, farebbero di tutto per il sesso, pensò la ragazza, sentendosi più sicura nel suo intento. Ma appena la luce dell’insegna le illuminò il viso, le espressioni sui volti degli uomini cambiarono.

«Ehi, sei messa male, bambolina!» esclamò un ragazzo, che nonostante il freddo metteva in evidenza il petto villoso, adorno di catene d’oro che gli pendevano dal collo taurino.

Era evidente che fossero schifati da lei, e allora doveva stare attenta, perché gli uomini come quelli, se non ti scopano, ti pestano.

Li superò andando a sedersi nello scalino di un esercizio chiuso, per dare l’impressione di aspettare qualcuno.

L’aroma della birra le arrivava alle narici, i bifolchi ne erano intrisi. La voglia di bere era talmente forte che abbassò la guardia e si voltò a guardarli. Avevano ripreso le loro chiacchiere da esibizionisti, una continua ed estenuante sfida tra uomini “a chi ce l’ha più grosso”. E fu allora che si accorse che l’uomo tarchiato in jeans stava ammiccando. Alice ricambiò con un sorriso che le procurò una fitta al labbro quando la crosta si lacerò per l’ennesima volta facendola sanguinare. Lo nascose mordendosi il labbro con fare sensuale e il “porco” abboccò.

«Ti va un po’ di compagnia?» le disse sfiorandosi la patta dei logori jeans.

«Potrei pensarci, se mi offri qualcosa» si era fatta ricadere un ciuffo di capelli a coprirle la parte del viso, per nascondere il labbro ferito.

«Allora prendo due birre e ci vediamo dietro l’angolo. Non voglio che mi vedano salire con te in auto: qualcuno potrebbe far arrivare la notizia alla mia signora» disse l’uomo, con un lampo di furbizia nello sguardo.

Dunque era sposato il “maiale”, ma ad Alice non interessava. Gli sorrise e si avviò verso l’auto, facendo come l’uomo gli aveva chiesto. Lo vide entrare nel locale, mentre svoltava l’angolo e parcheggiava per attenderlo.

«Dai, dai! Muoviti maledizione!» esclamò tra i denti in preda a una nuova crisi.

Poi finalmente lo vide svoltare l’angolo, con una busta in mano. Si avvicinò allo sportello del passeggero e montò in auto.

«Dai, metti in moto, spostiamoci da qui. Andiamo verso la campagna».

Alice gli rivolse un finto sorriso e partì sgommando.

Parcheggiò in un anfratto protetto dai cespugli, lungo lo stretto rio che si era formato con le copiose piogge di ottobre.

«Dai, offrimi da bere» le disse con fare ammiccante.

«E no, bambolina. Prima devi darmi qualcosa» le disse afferrandosi la protuberanza che le si era ingrossata sotto la stoffa dei jeans.

«Possiamo andare fuori e mentre mi sbatti io mi faccio un cicchetto. Divento più porca se bevo un po’.»

«Non voglio prendermi qualche malattia da una puttana! Prima della bottiglia, in quella bocca ci metterai questo!» disse abbassandosi a fatica i pantaloni. «Avanti datti da fare» le disse sorridendo, mentre con la mano si teneva alla base il pene eretto.

Qualunque cosa bastardo! Pensò Alice e si chinò a recitare la sua parte. Quando ebbe finito era ormai allo stremo del controllo. Il respiro era affannato e i tremori erano ripresi più violenti.

«Ti ho dato quello che volevi, ora devi dare tu qualcosa a me» gli disse cercando di sorridere mentre guardava la busta con le birre sul sedile posteriore. Stava per prenderle da sola, quando l’uomo l’anticipò.

«Queste non sono per te, sono per me!». L’abitacolo si riempì del suono della sua grassa risata, mentre usciva dall’auto. «Grazie del passaggio, abito proprio qui dietro e grazie del servizietto!» aggiunse chiudendole lo sportello in faccia.

Alice urlò di rabbia, di frustrazione e vergogna, stringendo tra le mani il volante fino a farsi male.

Poi vide l’uomo fermarsi, posare le birre sul terreno e frugarsi all’altezza del pene. Stava pisciando il porco!

Alice scivolò fuori dall’auto, avrebbe preso quelle birre ad ogni costo. Raccolse una grossa pietra e si avvicinò di soppiatto all’uomo di spalle. Un ramoscello schioccò sotto il suo piede, l’uomo la guardò da sopra una spalla e ritornò alla sua minzione.

«Che c’è, bambolina? Ne vuoi ancora?» domandò ridendo di gusto.

Un lampo di freddezza percorse gli occhi della ragazza. Brandì il sasso e colpì l’uomo violentemente sulla testa, aprendogli il cranio in un rumore di sordo.

L’uomo rimase un istante fermo, poi le ginocchia cedettero e si accasciò sulla sua urina.

Alice inspirò profondamente, per niente turbata dalla sua azione, anzi, rimase sorpresa di quanto quel gesto le avesse fatto bene. Bene davvero!

Guardò la busta con le birre accanto al cadavere, ancora caldo, del vecchio porco.

Non le voleva, non ne aveva più bisogno! Adesso sapeva cosa doveva fare per superare i suoi traumi e aiutare la bimbetta spaurita che era in lei. Sorrise.

Si chinò sul corpo ad osservare il sangue fluire dal taglio tra i capelli, inzuppare il terreno, che sotto i pallidi raggi di luna sembrava nero. Sorrise ancora, pervasa da uno stato di beatitudine che mai l’alcool o altre sostanze erano state in grado di darle.

Lanciò nel torrente l’arma del delitto che quella volta era stata fortuita, poi salì in auto allontanandosi verso il rifugio.

Uno dopo l’altro, avrebbe ucciso quei maiali e lei finalmente sarebbe stata bene.

Annamaria Ferrarese