PANAS

Premessa

Con il nome Panas venivano chiamate, in Sardegna, le donne morte di parto. Poiché il momento del parto era considerato impuro (triste ignoranza, ahimè…), le loro anime erano condannate a un lungo periodo di espiazione, durante il quale erano costrette a lavare le fasce delle loro creature, lungo i corsi d’acqua tra la mezzanotte e le tre di notte.

Le si può riconoscere, chine sui ruscelli, mentre lavano i panni insanguinati, cantando una triste ninnananna. Se le doveste incontrare, non fate rumore, datemi retta. Non distoglietele dal loro canto, perché se si dovessero distrarre, dovrebbero ricominciare il periodo di espiazione da capo e per voi non ci sarebbe scampo. Come è successo al personaggio di questo racconto.

PANAS

Riuscire a trovare una casetta in affitto, nel piccolo borgo di Santa Barbara, sui tranquilli monti di Capoterra era stato fin troppo facile per Marco. Avrebbe dovuto concludere un articolo sulla Martire  per un importante quotidiano cagliaritano e il sindaco, vedendo un’opportunità di pubblicità per il suo paese, gli aveva trovato alloggio in men che non si dica.

Ma Marco non era lì solo per l’articolo, la storia della Santa lo aveva da sempre appassionato e le ricerche che aveva fatto negli archivi storici delle varie parrocchie e nell’archivio arcivescovile, lo avevano portato alla scoperta di una possibile sepoltura a monte della sorgente sacra, dedicata alla Santa. Ma era tutto da dimostrare.

L’articolo su Santa Barbara era già pronto nell’hard disk del suo computer. Su di lei si sapeva che fu martirizzata e decapitata proprio su quei monti, in prossimità di una sorgente naturale, divenuta meta per pellegrini e devoti alla Santa. Una leggenda narrava che chi si fosse recato alla fonte, prima di abbeverarsene, avrebbe dovuto costruire una croce con dei legnetti recuperati sul posto e offrirla come segno di devozione; chi non  avesse compiuto questo atto, durante il ritorno sarebbe potuto incappare in qualche incidente.

Marco sistemò i pochi indumenti nella cassettiera della minuscola camera da letto e si apprestò a inviare una chiamata alla sua collega di studi che lo avrebbe dovuto raggiungere per un sopralluogo.

«Ciao, Laura. Sono arrivato. Dove sei?» attese la risposta. «Perfetto incontriamoci al bar di Poggio dei Pini, ti offro un caffè e poi raggiungiamo la sorgente».

Mancava una buona mezz’ora prima dell’appuntamento e decise di fare provviste per riempire il ronzante frigorifero vuoto e la dispensa.

Nonostante il rigido clima di ottobre, Marco decise di occupare un tavolino sistemato sotto un gazebo e attese l’arrivo di Laura. La vide parcheggiare nell’ampio spazio deserto, di fronte al locale e le fece cenno con una mano.

«Ciao, Marco. Questo posto è incantevole, così immerso nella natura e le acque impetuose del Rio di San Girolamo sono impressionanti!» esclamò, mentre si sedeva accanto a lui a rimirare il paesaggio boschivo.

«Sì, è veramente un luogo di pace. Allora sei pronta? Speriamo solo che le acque non siano così impetuose su alla sorgente “de sa scabitzada”».

«“La Decapitata” che nome triste per una sorgente sacra» osservò Laura.

Raggiunsero il Borgo e senza perdere tempo si incamminarono per il sentiero in roccia naturale, costeggiato dalle vecchie mura in pietra di vecchi edifici ormai scomparsi e muretti di cinta delle proprietà limitrofe. Un sentiero tra  ulivi ed eucalipto e una vastità di arbusti odorosi di rugiada.

Alla fine del sentiero sbucarono nella vastità rocciosa che scendeva dolcemente verso la vallata, un panorama mozzafiato, Ruscelletti di acqua limpida scorrevano in una melodia liquida e magica.

«Uno spettacolo, da quassù si vede l’intera vallata».

«Eccoci, siamo quasi arrivati, laggiù si vede la piccola cappella che racchiude la sorgente» le fece notare lui.

Rimasero a rimirare il bassorilievo della figura della Santa, nella nicchia sopra la sorgente.

«Tutte queste croci in legno, mi fanno un po’ impressione» confessò Laura.

«Dovremmo farne una anche noi, e chissà che, oltre alla protezione della Santa, non avremmo anche un po’ di buona sorte per le nostre ricerche» propose Marco.

Così, dopo aver raccolto dei rametti abbastanza robusti, si sedettero a costruire il loro personale manufatto da donare alla martire. Depositarono le croci e in silenzio, come a non voler interrompere chissà quale miracolo, si incamminarono ancora più a monte, calpestando le rocce levigate dall’erosione dell’acqua che da centinaia d’anni scorrevano in quel, ora, placido letto.

«Guarda questo eucalipto, è gigantesco!».

«Poveraccio, l’ultima alluvione ha esposto gran parte delle sue radici. C’è stato uno smottamento di tutto il terreno circostante, senza contare le frane che hanno depositato queste enormi rocce» disse Marco dando delle pacche a un macigno quasi più alto di lui.

«Certo che la forza dell’acqua è devastante e spaventosa…».

«Ad essere onesto, spero che, in qualche modo, sia stata anche capace di far riemergere “qualcosa” sotterrata nel tempo» disse quasi tra sé Marco.

Risalirono il torrente, abbarbicandosi sulle rocce.

«Dovremmo esserci… il sito dovrebbe essere da queste parti. Dividiamoci, non so su quale sponda sia stato costruito».

«“Se” è mai stato costruito qualcosa» aggiunse Laura.

«Oh ti prego, non portare sfiga!» esclamò.

Dopo una buona mezz’ora, echeggiò la voce di Laura che chiamava a gran voce Marco dal lato sinistro del rio. Marco la vide sbracciarsi per attirare la sua attenzione. Aveva trovato qualcosa e lui non stava più nella pelle dalla curiosità di vedere di cosa si trattasse.

«Presto, vieni! C’è il rudere di una strana costruzione a ridosso di una roccia».

Giunto sul posto Marco trasalì dinnanzi a quella scoperta. Tra vegetazione e rocce granitiche si intravedevano alcuni piccoli blocchi di arenaria posti ad arco come se nella parete di roccia si trovasse un basso ingresso.

«Che dici, potrebbe trattarsi di una sepoltura nella roccia? Magari una grotta naturale, adibita a sepolcro?» chiese eccitata Laura.

«Non ne ho idea, davvero…».

Marco osservava da vicino i resti. «Potrebbe, ma dobbiamo liberare il passaggio almeno un po’, per poterlo verificare» disse cercando di smuovere alcune pietre alla base del presunto ingresso. Ma risultò impossibile a mani nude.

L’unica cosa che poterono fare, procurandosi non poche ferite, fu liberare la zona dalla vegetazione e dal pietrisco, senza riuscire a svelare l’entità delle rovine.

«Ci servono attrezzi, non se ne cava piede!» esclamò infastidito Marco.

«Dovremmo tornare con qualcuno che sappia cosa fare, potrebbe rivelarsi pericoloso» propose Laura.

«Starai scherzando? E dividere con altre persone questa scoperta? Non sono d’accordo. Basterà stare attenti, ma faremo da soli» dichiarò con fermezza.

Laura si sedette su una roccia, aveva i muscoli delle cosce leggermente indolenziti e iniziò a massaggiarsi. Da quella posizione notò, qualcosa che non aveva visto in posizione eretta, sotto un rigoglioso lentisco, intravide una lastra di pietra che le parve incisa.

«Che cos’è quella?» domandò alzandosi e raggiungendola.

Marco la seguì con lo sguardo e la vide chinarsi sotto la pianta.

«No, non ci credo! Dammi una mano a liberare questa pietra».

Marco le fu subito accanto e vista l’epigrafe iniziò, a spezzare i rami con il piede, fino a liberare la lastra quasi del tutto.

Laura la pulì per bene con la manica del giubbotto, alcune lettere, erose dagli agenti atmosferici erano quasi illeggibili. Tradusse quella frase, per Marco incomprensibile:

«“Panas purificate, raggiungete coloro che nel grembo avevate”».

«Panas?».

«Sì, Panas».

«Credi si tratti di un luogo dedicato alle donne morte di parto?» le chiese.

«Potrebbe essere, ma fino a quando non libereremo il passaggio, non potremo saperlo, sempre che all’interno troviamo qualcosa di utile» aggiunse.

«Non possiamo fare altro se non rimandare…».

Rientrarono, che era pomeriggio inoltrato. Laura si trattenne  per cena nella minuscola abitazione affittata da Marco e mentre lui si adoperava nella cottura di due succulente bistecche, Laura iniziava una ricerca in rete sul mito delle “Panas”.

«Senti qui: le Panas sono le donne morte di parto, questo momento era considerato impuro e per espiare erano condannate a lavare i panni del loro piccolo lungo un corso d’acqua per un tempo massimo di sette anni. Questa mansione era svolta di notte nell’arco di tempo fra l’una e le tre del mattino. Durante il loro lavoro, non potevano essere interrotte, non dovevano mai distrarsi, se ciò avveniva il loro spirito era costretto a iniziare da capo la propria espiazione. Coloro che avessero interrotto la loro triste ninna nanna durante il lavaggio o che le avessero in qualche modo distratte, avrebbero subito la loro ira. Qui si dice che l’acqua del torrente, che le Panas buttavano addosso ai mal capitati, per vendetta, bruciasse come il fuoco» concluse.

«Non vedo l’ora che sia domattina» disse Marco servendo le bistecche nei piatti.

«Dovrai aspettare il pomeriggio, io lavoro e non posso assentarmi».

«Ti aspetterò, non vorrei, ma lo farò. Pensi tu a procurare un piccone?».

«Sì, ci penso io».

La cena fu breve e Marco accompagnò Laura alla sua auto, rimasta nel piazzale del bar.

Rientrò nel silenzio del borgo, alla luce dell’unico lampione funzionante appariva triste e spettrale. Alle finestre sgretolate e sbarrate da grate arrugginite, vi erano dei bassorilievi raffiguranti teste di cinghiale e facce guanciute dai lunghi capelli, che rendevano tutto ancora più tetro. Marco affrettò il passo e raggiunse lo stretto portone della sua, momentanea, abitazione. L’accogliente interno, gli scrollò quella sensazione lugubre di dosso. Seduto sulla poltrona accese la TV, saltando di canale in canale, senza veramente prestare attenzione.

Che fosse di una nobildonna morta di parto, la sepoltura di cui aveva trovato la citazione nei documenti degli archivi arcivescovili?

Uscì nel cortile interno, tre metri per due di terreno incolto, dove, dalle erbacce, sbucavano delle grandi piante di aloe.

Si accese una sigaretta e si appoggiò al muro, contemplando il buio del cielo. Il suo sguardo fu attratto da un’angusta porticina in legno che quasi cadeva a pezzi. Il suo spirito curioso lo costrinse ad aprirla per scoprire cosa si celasse oltre. Tastò il muro alla ricerca di un interruttore che non trovò, decise di usare la fiamma dell’accendino, per soddisfare la sua voglia di sapere.

Si trattava di un ripostiglio, dove vi erano ammassate diverse cassette di legna, alcuni bidoni, un tubo per innaffiare e degli attrezzi da giardino. Il volto gli si illuminò quando scorse un grosso piccone.

In un attimo la frenesia lo assalì. Cosa gli impediva di raggiungere le rovine? Almeno di luci era ben attrezzato e il percorso non era poi così impervio. No, doveva aspettare Laura.

Chiuse la porta del ripostiglio e rientrò in casa.

Seduto sulla poltrona si ritrovò a fissare la sua immagine riflessa nello schermo spento della televisione. Cosa avrebbero trovato al di là dell’ingresso crollato? Oltre a dei piccoli riferimenti che risalivano a centinaia di anni prima, non aveva trovato altro che indicasse con certezza di cosa si trattasse, e forse i riferimenti che aveva trovato indicavano un luogo diverso, magari ormai scomparso e sepolto sotto tonnellate di terra e rocce franate durante inondazioni lontane, cosa ne poteva sapere? E adesso si ritrovava con una, possibile, scoperta eccezionale. Una forte eccitazione si impadronì di lui e senza quasi pensarci si ritrovò nel cortile davanti alla porta del ripostiglio, la aprì, afferrò il piccone e rientrò in casa. Avrebbe solo dato una sbirciatina, niente di più, ma non poteva stare ad aspettare il pomeriggio successivo per soddisfare la sua curiosità.

Indossò il pesante giubbotto e il caschetto da “minatore”, come amava chiamarlo per via della potente torcia che aveva sulla fronte, e uscì. L’atmosfera spettrale del piccolo borgo, avvolto dalla bruma notturna lo fece rabbrividire, si diede dello sciocco e si inoltrò per il sentiero che lo avrebbe portato prima alla sorgente de “Sa Scabitzada” e successivamente al sito misterioso. I cani da guardia della vicina Villa Devoto abbaiavano ferocemente, avvertendo la sua presenza, lungo la recinzione dell’ampio territorio della proprietà. Ringraziò il cielo che tra lui e le bestie si trovasse un dislivello di diversi metri e proseguì verso il letto del torrente che il Rio San Girolamo si era costruito in secoli di lavoro di erosione, su quella distesa di rocce ormai levigate.

Ben presto si trovò davanti all’ingresso del presunto sepolcro. Senza perdere tempo, tolse lo zaino con l’attrezzatura dalle spalle e ne estrasse due potenti torce che indirizzò sul cumulo che avrebbe dovuto rimuovere. Passarono diverse ore prima che iniziasse a crearsi una fessura che gli permettesse di rendersi conto che si trattava proprio di una grotta. La fessura non era più larga di tre centimetri per dieci di altezza, non abbastanza per svelare il contenuto di quello spazio. Non era abituato a quel genere di lavoro e il dolore ai muscoli delle braccia lo costrinse a fermarsi per qualche tempo, doveva riposarsi per poter dare, finalmente, i colpi finali che gli avrebbero permesso di accedere nella piccola grotta. Si accese una sigaretta e controllò l’ora sul cellulare: mancava mezz’ora alla mezzanotte. Si pentì di non aver preso con sé dell’acqua, non aveva immaginato che ci sarebbe voluto tanto tempo e tanta fatica, ma l’entusiasmo per la scoperta gli aveva ridotto la lucidità dei pensieri.

Nonostante il tempo di recupero non fosse stato sufficiente, riprese a picconare energicamente, fino a quando un crollo verso l’interno non aprì un varco. Rimase per un attimo attonito a osservare il pulviscolo sollevato dalla frana aleggiare nel fascio di luce. Ci era riuscito e il segreto nascosto in quel misterioso antro presto sarebbe stato svelato. Lasciò cadere il piccone e si affacciò cauto sull’ingresso. Nella parete rocciosa erano state scavate delle piccole nicchie e all’interno di queste vi erano poste delle piccole casse di legno, incredibilmente conservate. Marco ne contò una decina, più altrettante posate al suolo. Cosa potevano contenere? Forse cimeli dedicati alla Santa, o semplicemente provviste per i pastori che si spingevano col proprio gregge su per la montagna: quest’ultima ipotesi lo avvilì e si accinse ad aprire una delle casse che più gli era vicina, utilizzando la lama del coltello multiuso che teneva sempre in tasca. Uno scricchiolio e il coperchio cedette, puntò il fascio di luce all’interno e indietreggiò di colpo, inorridito dallo spettacolo del microscopico scheletro che la luminosità aveva svelato.

Ecco di cosa si trattava, di un sepolcro dedicato alle creature nate morte, pensò mentre volgeva il fascio di luce sulle piccole bare.

Delicatamente le aprì tutte, alcune delle spoglie avevano delle camicine afflosciate sulle ossa  e dei piccoli giocattoli di legno intagliati, doni d’amore dei loro genitori, perché potessero giocare in paradiso.

Ora che la sua curiosità era stata soddisfatta, si rese conto che avrebbe preferito aspettare la sua collega per una così triste, se pur incredibile, scoperta.

Una nenia tristissima che echeggiava tra i monti lo distolse dai suoi pensieri. Il canto era vicino, molto vicino. Spense la torcia sul casco e si affrettò a spegnere anche quelle che aveva lasciato all’esterno. Si sporse piano dalle frasche di un lentisco, cercando di individuare la sorgente del triste canto, nel buio pesto della notte. Fu quando la nube che copriva la luna si spostò che riuscì a intravedere la sagoma di una donna china su un ruscelletto tra le rocce. Ma che stava facendo? Non osò spingersi oltre, temendo di finire in una spiacevole situazione. Non conosceva la gente del posto, e di pazzi era pieno il mondo.

La triste nenia continuava a riempire la gola e la musica cristallina dei ruscelli l’accompagnava, rendendola ancora più deprimente. Era così che si sentiva Marco, da un momento all’altro. Si sentiva profondamente depresso, un sentimento che  si stava insinuando nel suo cuore, prepotentemente.

Rimase nascosto per un tempo indefinito, nell’attesa che la donna si allontanasse, ma il canto continuava imperterrito. In un attimo la sua mente gli riportò il ricordo della pietra ritrovata da Laura e dell’epitaffio inciso: “Panas purificate, raggiungete coloro che nel grembo avevate”.

Un brivido gli percorse la schiena, stava entrando in un pericoloso stato di paura, ripensando alle Panas e alle leggende trovate su internet. Si diede dello stupido, ma intanto il suo cervello frugava nella memoria per trovare le nozioni immagazzinate su queste donne morte di parto, condannate a espiare l’impurità del parto, lavando gli indumenti dei loro piccoli per sette anni, ricordò. Non poteva certo essere una di loro, una delle madri dei piccoli nella cripta! Ragionava, per combattere la paura, un sentimento così violento e inaspettato. Ma cosa ci faceva quella donna chinata sul ruscello? Si fece coraggio e lentamente si avvicinò per poter osservare più da vicino. “Ciò che conosci non può far paura”, continuava a ripetersi, ma quando vide gli abiti che indossava la donna e un raggio di luna illuminò la piccola camicina che stava lavando, non riuscì a trattenere l’inquietudine. Arretrò piano, ma urtò una pietra che rotolò lungo la roccia e attirò l’attenzione della donna, che voltò il  dolce viso pallido e triste, mostrando a Marco due occhi gonfi di pianto. In un attimo la sua espressione cambiò, mostrando la sua rabbia furente. Il suo urlo di collera echeggiò potente, scatenando l’abbaiare dei cani che l’accompagnarono con lunghi ululati. Stringendo la veste del suo bambino, scagliò spruzzi d’acqua sul ragazzo,  che avvertì un forte bruciore sulla faccia, come se fosse stato colpito da acido. Si passò una mano sul viso, mentre con l’altra accendeva la torcia del casco e con orrore si accorse che brandelli di pelle venivano via, misti a sangue. L’inquietudine era ormai divenuta terrore e Marco si ritrovò a correre per scampare a quell’incubo irreale. Cadde più volte rotolando tra rocce e sterpi, finendo più di una volta nell’acqua gelida, ma la “madre interrotta” sembrava sfiorare il suolo e, continuando a urlare, lo inseguiva. Gli schizzi d’acqua maledetta gli raggiunsero la testa, sentiva il cuoio capelluto scivolare via dal cranio. Riconobbe il sentiero lungo la recinzione e corse più veloce e sicuro, ricordò la chiesetta dedicata alla Santa a due passi dalla sua abitazione, era chiusa con un lucchetto, ma lo avrebbe spaccato a colpi di pietra: in quel posto sacro sarebbe stato al sicuro e avrebbe potuto chiamare aiuto. Quando raggiunse il portone avvertiva l’odio della “madre interrotta”, raccolse dal selciato una grossa pietra e colpì il lucchetto così violentemente che si aprì immediatamente. Tirò di lato il lungo passante in ferro, spinse il portone e si catapultò all’interno della chiesa, richiudendolo col passante interno. Raggiunse il piccolo altare e si accovacciò ai suoi piedi tremante. L’urlo agghiacciante si avvicinava, era dietro il portone, poi vide il legno scuro deformarsi e prendere la forma di una sagoma umana, la vide staccarsi dal legno e assumere la forma della donna. Il panico gli serrò la gola. Lo spettro l’aveva seguito. Vide il suo sguardo furente e pieno d’odio, la vide sollevare le braccia verso l’alto, mentre stringeva ancora la camicina del bimbo. Tra le mani fluttuava dell’acqua che con un ultimo urlo di sdegno, la donna scagliò sul ragazzo.

«Dio aiutami» disse Marco, prima che l’acqua lo colpisse.

Ma la perdita di un figlio va oltre la ragione, va oltre la religione, va oltre Dio… resta solo la rabbia.

Annamaria Ferrarese