LA PORTA NERA

Premessa

Ispirato a due personaggi storici di Cagliari, Domenica Figus e Truisco Casula. Domenica serviva presso la famiglia Zapata e si invaghì dell’amico dei suoi padroni, Truisco Casula. Si dice che l’amore corrisposto, provocò la gelosia del nobile padrone che li accusò di stregoneria, ma più veritiera è l’idea che Domenica avesse sentito qualche cospirazione organizzata dalla famiglia Zapata che coinvolgeva anche Truisco Casula. Furono processati e condannati a morte.

(Tratto da “Le porte dell’inconscio”, in vendita su Amazon)

LA PORTA NERA

Sara era tormentata dal suo “dono”. Visitare altri mondi, altre epoche, altre vite era straordinario, ma troppo pericoloso. Ogni volta che chiudeva gli occhi, la fessura luminescente era lì ad attenderla e la invitava palpitante ad attraversarla. Il passaggio segreto che permetteva al suo spirito di accedere alla camera delle “porte”.

Era stanca e aveva bisogno di riposare, quindi si sdraiò sul divano e cercò di pensare a cose piacevoli, con la speranza di poter in qualche modo condizionare il suo viaggio spirituale.

Vide le sue mani allargare la fessura luminescente e sentì il suo corpo attraversarla, in un attimo si ritrovò, a piedi nudi, sul morbido tappeto di muschio, all’interno dell’albero cavo. Al centro padroneggiava il leggio con la penna d’oca dorata sospesa in aria, che aspettava di essere impugnata per una nuova storia, per un nuovo disegno, e tutto intorno le porte, che parevano infinite.

Diverse volte era stata tentata di aprire una porta nera, massiccia, che aveva un leggero odore di bruciato, ma poi aveva sempre optato per altre che le suscitavano più sicurezza, anche se i mondi che poi ci trovava dietro, non sempre lo erano.

Così le si avvicinò. L’odore di bruciato era più intenso, la porta pareva fatta di legna bruciata, la toccò con le dita, convinta di ritrovarsele sporche di carbone, ma non accadde. Decise di impugnare la maniglia, aprì la porta e l’attraversò.

Si guardò intorno pronta a difendersi. Riconobbe subito il posto, era la sua città, Cagliari. Si trovava vicino alla cattedrale di Santa Maria, ma era molto diverso. Si guardò gli abiti e guardò quelli della ragazza, che stava con lei, intenta a riempire una brocca dalla fontana. Conosceva bene quell’abbigliamento e aveva anche capito in quale epoca era capitata. Era una serva del XVI secolo!

«Dai Maria, sbrigati, riempi la tua!»

Maria. Dunque era questo il nome della donna in cui si era trasferita? Si guardò intorno e vide subito la brocca vuota ai suoi piedi, la raccolse e la mise sotto il getto della sorgente.

Faceva freddo, doveva essere inverno inoltrato.

«Che hai, mi sembri strana» affermò l’altra serva, mentre si sistemava, su uno straccio, la brocca sulla testa.

«Niente, pensieri» rispose vaga.

Quando la brocca fu piena la imitò, nella speranza di riuscire a tenerla in equilibrio, ma si rese conto che il suo corpo aveva conservato la destrezza di Maria, acquisita in anni di esperienza.

Non sapendo da che parte dirigersi aspettò che l’altra muovesse i primi passi per poterla seguire. Diede un’ultima occhiata alla muraglia, la porta nera era scomparsa, pregò di non dover stare prigioniera in quell’epoca per troppo tempo. A volte si trattava di giorni, altre volte di ore, doveva imparare bene la strada per poter tornare a controllare.

Giunsero davanti a un massiccio portone, dove un’altra serva, più pulita di loro,  le attendeva.

«Maria, Giorgia, sbrigatevi! In cucina svelte» le spronò.

«“In cucina svelte!”» ripeté Giorgia con una vocina canzonatoria.

L’odore in quell’ambiente era nauseante, un misto di sangue fresco e carni marce, che si mescolava al profumo di pane appena sfornato.

Una donna era intenta a fare a pezzi un maiale su un’enorme ceppo maleodorante, e intimò alle ragazze di posare le brocche sul lavatoio e di mettersi a lavoro.

Una donna elegante si affacciò sulla piccola soglia della cucina, accompagnata dalla serva “pulita”.

«Il nostro ospite e caro amico Truisco Casula sarà qui a momenti, vi raccomando voglio una tavola ben imbandita e che non manchi mai del vino, e questo lo dico a te Dominga» disse la padrona rivolgendosi alla serva “pulita”. Lei chinò leggermente il capo.

«Meretrice» bisbigliò Giorgia.

«Chi, la padrona?» volle sapere Sara.

«Ma che dici? Sai quanto è gentile con noi la padrona.»

Dunque la puttana in questione era Dominiga, pensò.

Giorgia prese a spennare la grossa gallina, che un ragazzotto aveva appena poggiato sul massiccio tavolo da lavoro.

«Tu sbuccia quelle patate» le disse.

«Che ti ha fatto Dominiga?» Doveva avere più informazioni per sapere da chi doveva stare alla larga.

«È una bruxia meretrice! Stalle alla larga! Mira in alto lei. L’ho vista con questi occhi compiere sortilegi» disse parlando pianissimo.

«Cosa hai visto?»

Giorgia avvicinò lo sgabello sulla quale era seduta a quello di lei e diede un’occhiata verso la donna che colpiva con una mannaia la bestia sul ceppo.

«Un pomeriggio mi sono appisolata vicino al camino, quando mi sono svegliata ho visto Dominiga che si sollevava la gonna e si metteva la mano proprio li e quando l’ha tolta era piena di sangue, sai di cosa parlo. Ho fatto finta di dormire, spiandola, l’ho vista immergere le dita insanguinate nella caraffa del vino del padrone e il giorno dopo, l’hanno levata dalla cucina e adesso si occupa di faccende più raffinate. Ma non è tutto! Hai notato come in quest’ultimo periodo Truisco Casula viene spesso a trovare i padroni? Ho visto Dominiga fare la stesa cosa con lui. Un sortilegio d’amore, ecco che ha fatto!»

L’odore della cucina iniziava a cambiare. Gli aromi dei piatti ormai cotti, coprivano l’odore di marcio, o forse si stava solo abituando.

Dominiga si affrettava a portare i vassoi carichi di cibo nella sala da pranzo, sul suo viso un’espressione tronfia.

Dopo la gran fatica della preparazione le attendeva la fatica delle pulizie.

«Mangiamo anche noi. Poi pulirete» disse la donna che aveva preparato il maiale.

Sara sentiva una gran fame e gustò con appetito tutto ciò che aveva a disposizione.

«Andiamo, sono stanca. Prima finiamo, prima ci riposiamo» disse Giorgia, afferrando la caraffa.

Dovevano andare a prendere altra acqua. Sara sperò che la sua porta fosse ricomparsa per tornare nel suo tempo, ma non fu così.

Mentre rientravano:

«Fermati!» La trattenne Giorgia, e quasi le fece cadere la brocca piena d’acqua.

Nella strada buia si potevano distinguere due sagome allacciate in un inequivocabile abbraccio erotico.

«È Dominga con Truisco.»

Si nascosero.

Ad un tratto la stretta stradina fu illuminata dall’esile luce di una lampada ad olio, che usciva dal portone.

«Come osate!» tuonò la voce del padrone.

Le figure si staccarono, allontanandosi l’una dall’altra in tutta fretta.

Il padrone afferrò Dominiga per un braccio, trascinandola verso la porta.

«Sei una meretrice! Come hai osato tradirmi!» Detto questo, la scaraventò a terra, ma lei in tutta risposta rise sguaiatamente.

«E tu, come hai osato tanta superbia in casa mia? Vattene!» urlò verso

Truisco.

L’ospite stava per scagliarsi contro il padrone, ma quest’ultimo brandì un grosso coltello facendolo desistere.

Sara e Giorgia rimasero nascoste nel buio, senza quasi respirare, temendo di essere scoperte a spiare.

Truisco indietreggiò e si allontanò verso la stalla.

Il padrone si accostò a Dominiga che ancora rideva.

«Taci strega!» La colpì violentemente, facendole perdere i sensi.

Lo osservarono trascinare il corpo verso il porcile, dietro l’angolo.

«Presto, muoviamoci» la esortò Giorgia.

Rientrarono nella cucina e in silenzio iniziarono il loro lavoro, nessuna delle due ebbe il coraggio di parlare.

Dominiga era stata accusata di stregoneria, dal suo padrone accecato dalla gelosia, e fu rinchiusa nelle carceri della torre di San Pancrazio, dove probabilmente subì atroci torture.

Non passò molto che fu dato ordine alla servitù di recarsi con i padroni, pur rimanendo a debita distanza, presso la Plaza Major per la condanna al rogo di Dominiga Figus, accusata dalla Santa Inquisizione di stregoneria.

Raggiunsero la piazza, Sara individuò la muraglia vicino alla fontana e vide che la sua porta stava riemergendo lentamente, ne distingueva a mala pena la sagoma, ma vedeva ancora le rudi pietre del muro. Ci voleva ancora del tempo. Intanto la piazza si gremiva di gente. Signori ben vestiti e orde di poveracci che si accanivano ed inveivano contro la condannata.

Dominiga fu fatta scendere dal carro, portava calato sulla testa, un sacco di iuta, stretto al collo.

Fu condotta dal boia sopra la catasta di legna e legata stretta, per la vita e le braccia, al grosso palo.

«Levatele il cappuccio, ch’io possa vedere il suo viso contorcersi per il dolore!» esclamò il padrone.

Così fu fatto. La gente tacque, vedendo lo sguardo di sfida e il suo sorriso beffardo. Poi il boia appiccò il fuoco alla grossa torcia e attese, mentre Dominiga si guardava intorno per poi fissare lo sguardo su Sara e il suo sorriso si allargò.

Sara poteva sentire la magia di Dominiga che si insinuava nella sua mente sempre di più, sentiva il pericolo, avvertiva le sue intenzioni. Inorridita, cercò disperatamente la porta e intanto il boia appiccava il fuoco alla catasta, ai piedi della bruxia, che sorrideva fissandola.

Il fuoco divampò, Sara distinse bene l’aura che si disgiungeva dal corpo in fiamme, ma nessuno se ne accorse. La vide staccarsi e volteggiare sulla folla inferocita che la condannava all’inferno.

«Non voglio vedere… Oddio che puzza!» esclamò Giorgia, coprendosi il naso col grembiule sudicio.

Sara non l’ascoltava, vide il volto repellente della bruxia che la guardava dall’alto e si nascose dietro il carro di un mercante, pieno di tessuti e sacchi di iuta rigonfi di granaglie.

Si guardò freneticamente intorno, per cercare il luogo dove tutto era iniziato. Finalmente riuscì a distinguere tra la gente la fontana e sulla muraglia di fronte, la sua porta nera emergeva dalle grosse pietre. Non pensò a nulla, solo a raggiungerla: urtando le persone che inveivano sollevando forconi verso il corpo di Dominiga, quasi indistinguibile tra le fiamme, la sentiva urlare. L’essenza della strega la stava raggiungendo, ma si fermò e tornò indietro, forse non poteva stare troppo tempo fuori da un corpo. La vide  puntare verso Giorgia che si copriva il viso col suo grembiule e dava le spalle al rogo, china e tremante poggiata alla ruota del carro. Sara raggiunse la porta e l’aprì. Prima di chiuderla fece in tempo a vedere l’entità entrare nella giovane serva, poi vide Giorgia raddrizzarsi, sistemarsi la veste e i capelli. Il trasferimento era compiuto. Sul rogo era morta un’innocente. La strega era salva.

Sara cadde in ginocchio, sul morbido tappeto di muschio profumato. Sentiva ancora sulla pelle l’odore nauseante delle carni bruciate di Dominiga.

Si sollevò e si diresse come in trans verso il leggio ed impugnò la penna d’oca. Sulla pagina ruvida di carta grezza, spiccava la solita scritta elegante che trovava ogni volta al ritorno dei suoi viaggi: “Raccontami…” e raccontò la storia vissuta. Il disegno che concluse ciò che aveva scritto vedeva la bella Giorgia camminare fiera, con alle spalle le fiamme alte del rogo. I suoi occhi erano neri come la pece liquida.

Quando ebbe finito, lasciò andare la penna che riprese a fluttuare sopra il leggio. Era giunto il momento di tornare, anche se stare li, all’interno del tronco di quel magico albero era confortevole e ogni volta lasciarlo era sempre più difficile, ma si costrinse ad attraversare la fessura luminescente, svegliandosi sul suo divano.

Per un po’, solo per un po’, il suo dono, l’avrebbe lasciata in pace.

Annamaria Ferrarese