IL TEMPO DELL’ARAGOSTA

Guardando fuori dal finestrino poteva sembrare che piovesse, ma quando il signor Tre scese dall’auto si accorse che non era proprio così. Il cielo era scuro, i tetti squadrati degli alti palazzi di periferia erano a tratti illuminati da lampi violenti e l’aria era umida. Disgustosamente umida. Ma lì, in quel punto, di quel particolare buco di culo del mondo, non stava ancora piovendo.

Nel pugno stringeva il biglietto da visita, il lasciapassare a bordo di quell’auto: aveva la sensazione che se li avesse guardati, avrebbe trovato i due cani, ritratti nell’atto di ululare alla luna al centro del cartoncino, seduti e pronti a restituirgli lo sguardo. La sera era troppo cupa per questo.

«Dovremmo sbrigarci. Sembra che il temporale si stia avvicinando» mugugnò il signor Nove, leccando la cartina della sigaretta che si era appena rollato.

«Non credo che ti lasceranno fumare lì dentro.»

Il signor Nove fece spallucce e insieme si avviarono verso la porta violacea sotto l’insegna dell’edificio: Hotel L’Aragosta. La lunga berlina nera che li aveva accompagnati fin lì scomparve dietro l’angolo di una delle tante case fatiscenti di quella parte della città, addossate una all’altra come lapidi di cimitero.

Il battente della porta aveva una forma stramba: sembrava una specie di sirena mostruosa, dal muso lupesco. Avevano ricevuto delle istruzioni e bussarono come convenuto. Sulla soglia apparve un uomo vestito elegantemente.

«Buonasera, signori.»

Gli mostrarono i biglietti da visita alla luce rosata alle sue spalle.

«Vi attendevamo più tardi» commentò. «Prego, seguitemi.»

I suoi folti baffi tremolavano appena mentre parlava e si faceva da parte per lasciarli entrare.

Mentre l’uomo tendeva il braccio per prendere i cappotti, il signor Tre osservava lo stretto corridoio rosso in cui si trovavano. Si era aspettato di ritrovarsi in un albergo, ma quel posto era molto più simile a una pensioncina o un’affittacamere. Squadrò la faccia di Nove, che fumava indisturbato, per capire cosa ne pensasse. Alla luce forte dei due portalampada di cristallo ai due lati del corridoio, gli sembrò di leggergli negli occhi il suo stesso dubbio.

«Se non le dispiace, signore, – l’uomo distinto stava porgendo al signor Nove un elaborato portacenere di ottone a forma di conchiglia di Venere – potrà riaccenderne una nell’area lounge, dove vi accompagnerò fra poco. Non gradireste un drink, prima di cominciare?»

«Ci potrebbe stare…» convenne il signor Nove, schiacciando la sigaretta nella conchiglia.

Seguirono l’uomo lungo il corridoio rosso. La moquette che ricopriva il pavimento aveva una consistenza molliccia sotto le scarpe.

«Non ci ha detto come dovremmo chiamarla, signore.» disse il signor Tre.

«Non ce ne sarebbe bisogno, in realtà, ma potete chiamarmi Maggiordomo.»

Il corridoio terminò in un’ampia sala verde, arredata con divanetti, poltroncine, il bancone di un bar e lunghe mensole a specchio piene di bottiglie e bottigliette. Il signor Tre e il signor Nove si accomodarono sugli sgabelli girevoli al centro e un barista silenzioso li accolse con due drink di benvenuto. Il signor Nove si riaccese subito una sigaretta che il Maggiordomo ignorò completamente.

«I signori possono attendere qui l’inizio della riunione. Verrò io a chiamarvi.»

Si dileguò.

«Sembra a posto» commentò il signor Tre, anche se non era quello che pensava.

«Dall’interno appare più grande che da fuori» rispose il signor Nove.

«Questo è vero. Devono averlo ideato inizialmente come una mezza pensione. Si saranno allargati in un secondo momento, comprando gli edifici intorno… diramando la struttura negli edifici vicini.»

«Non molto elegante, ma funzionale.»

«Conosceremo gli organizzatori?»

«Non credo. È solo il primo incontro.»

«Sappiamo il numero dei partecipanti?»

«No, non me l’hanno detto. Non me l’aspettavo in ogni caso.»

La sala si stava lentamente riempiendo di nuovi arrivati. La maggior parte di loro era vestita di scuro e sceglieva di sedersi sulle poltroncine azzurre, ben distanziati gli uni dagli altri.

«Credi che stavolta sia quella buona?»

«Chi può dirlo, amico mio. La conoscenza assoluta non si ottiene facilmente. Stasera ci sono buone probabilità di fare passi avanti, però.»

«Mi fido di te. Spero solo che non ci sottopongano a prove strane come l’ultima volta.»

Il signor Nove soffiò fuori l’ultimo sospiro di sigaretta.

«Chi vive sperando…»

Muore cagando, completò da sé il signor Tre. Ma non lo disse e terminò il suo drink d’un fiato. Sapeva di alghe dolciastre, sempre che esistesse una roba del genere.

Sobbalzò, avvertendo una presenza improvvisa al suo fianco.

Gli occhi scuri dell’uomo scintillarono sarcastici.

«Prego, signori. La riunione sta per iniziare.»

Si prepararono a uscire dal lounge bar, mentre il Maggiordomo si avvicinava agli altri ospiti selezionati.

In tutto, l’Aragosta aveva esteso il suo invito a cinque ospiti oltre loro. Due donne e tre uomini dalle facce grigie e gli abiti austeri. Il signor Tre e il signor Nove camminarono in mezzo a loro, osservandoli con la coda dell’occhio. Una volta di ritorno agli uffici, dovevano essere pronti a fornire identikit dettagliati, avendone una così ghiotta possibilità. Si rese conto, però, che sarebbe stato difficile quasi quanto descrivere degli incappucciati. Quelle persone sembravano aver seguito dei corsi apposta per rendere i propri lineamenti sgradevolmente anonimi.

Vennero accompagnati in un lungo ambiente verde e rettangolare, illuminato da piccole e rotonde lampade alogene. Il signor Tre dovette sopprimere l’impressione di essere entrato in un acquario senz’acqua. La porta si chiuse alle sue spalle e la serratura scattò.

Gli argomenti che avrebbero trattato erano strettamente riservati.

Da quando lavorava con il signor Nove al progetto Nescio, il signor Tre aveva partecipato ad altri tre ritrovi per aspiranti novizi: il primo in una chiesa sconsacrata frequentata dagli adepti di un culto particolarmente discutibile, il secondo nel seminterrato di una villa appartenente a un uomo politico molto importante in uno stato molto lontano e la terza nella stanza segreta all’interno della biblioteca di una delle università più rinomate del mondo.

In tutte le occasioni, gli ospiti erano stati molti di più: adepti, iniziati e sostenitori, attirati dalla promessa di conoscenze arcane, privilegi mistici o dal semplice desiderio di fare parte di qualcosa di più grande. Si sa, ad alcuni, la famiglia non basta.

Nessuno si era presentato per lavoro – come lui e il suo collega – e men che meno come infiltrato. Ne era certo al novantanove virgola nove percento perché erano state eseguite indagini molto accurate in ognuno dei tre casi, spesso conducendo all’arresto di pazzi e terroristi. Cosa complessa da mettere in pratica, siccome nella chiesa i novizi erano stati incappucciati, nel seminterrato si erano dovuti presentare con delle maschere di plastica raffiguranti vecchie stelle hollywoodiane e l’incontro nella stanza segreta si era svolto nel buio più totale.

Gettò uno sguardo discreto tutt’intorno. Quegli uomini e donne sembravano degli infiltrati più di quanto sembrassero qualsiasi altra cosa.

«Molto bene. Che la seduta abbia inizio.»

Il signor Tre sobbalzò. Aveva creduto che il Maggiordomo si fosse dileguato, chiudendo la porta. Invece si trovava nell’acquario con loro.

Notò che nel camino a base rettangolare di fronte a lui ardevano braci grigiastre e consumate.

Gli ospiti si mossero per occupare le sedie dall’alto schienale intorno a una tavola di legno scuro.

Il signor Tre si affrettò a sedersi di fianco al suo collega.

Gli occhietti del Maggiordomo, in piedi a capotavola con le spalle all’ingresso, rilucevano di fiochi bagliori.

«Vi ringrazio per esservi presentati qui stasera. I vostri percorsi sono il vero lasciapassare che vi ha consentito l’accesso a questa sala. Il mio superiore si è premurato perché vi ricordassi che tutto il merito per quanto succederà è solo vostro. Voi meritate ora di conoscere ogni cosa.»

Il signor Tre e il signor Nove si scambiarono un’occhiata fulminea.

La loro organizzazione gli aveva fornito il fascicolo del proprietario dell’albergo. Si trattava di un uomo incredibilmente facoltoso che possedeva diverse attività in vari stati del mondo. Quel triste alberghetto non era dichiarato tra i suoi immobili. Questa e tante altre piccole cose interessanti facevano parte del fascicolo che avevano ricevuto dagli uffici superiori e che avevano analizzato nel dettaglio. Il sopracciglio del signor Tre s’increspò mentre realizzava che non sapeva con precisione cosa l’uomo facoltoso nascosto dietro tutte quelle proprietà sapesse di lui e del signor Nove.

Il loro superiore era stato diretto e conciso, a modo suo:

«Dovete presentarvi all’albergo L’Aragosta a bordo della vettura che vi verrà a prendere all’indirizzo indicato a pagina diciotto del fascicolo. L’autista non farà domande e vi condurrà a destinazione. Comportatevi come in precedenza: siete degli uomini d’affari annoiati a caccia di nuovi business, realtà alternative e soluzioni mistiche. Una volta risolta questa missione, il progetto Nescio potrà ottenere i fondi che ci servono. Oltre questa missione, si apre per noi il livello successivo del gioco: il nostro dipartimento ha bisogno di ottenere questo risultato. Ispiratevi a tutti quei bambocci hollywoodiani che si danno alla cabala e riuscirete bene.»

L’importante era attenersi ai passaggi base. Essere pronti a improvvisare laddove necessario, cosa su cui né il dipartimento né l’intera agenzia potevano avere il minimo controllo. Infine, l’essenziale: portare a casa il risultato.

«Prima di cominciare la riunione introduttiva, il mio superiore desidera che focalizziate il motivo che vi ha spinto ad accettare l’invito dell’Aragosta. Chiudete gli occhi e visualizzatelo.»

Il signor Tre ubbidì di malavoglia, cercando di mantenere i sensi all’erta. L’operazione richiedeva che lui e Nove agissero completamente disarmati ad eccezione di una minuscola pistola per ciascuno, inserita in una tasca ad imbottitura strategica, e una certa quantità di veleno. Quella di Nove era racchiusa dietro al quadrante apribile dell’orologio; Tre invece l’aveva inserita dietro il grosso anello che portava al medio della mano sinistra. Serviva a suicidarsi in caso che la missione degenerasse in maniera irrecuperabile.

Il buio custodito dalle sue palpebre avrebbe dovuto rimanere inanimato, invece non fu così. Vide il suo desiderio più grande: fare carriera nell’intelligence e presiedere agli uffici superiori. Il progetto Nescio era l’occasione della vita per dimostrarsi un agente più che valido. Oltre che… beh, ripulire il mondo da chiunque si avvicinasse effettivamente a conoscenze pericolose e fuori dal controllo di quella parte di umanità ancora sana di mente.

«Ora prendete la daga che avete davanti» li istruì la voce del Maggiordomo.

Il signor Tre aprì gli occhi.

«A occhi chiusi, prego.»

Ubbidì. Il nervosismo cresceva.

Allungò la mano di fronte a sé e fece guizzare le dita sul tavolo. Strinse un manico di metallo e sollevò la daga. Era leggera. La provò fendendo l’aria. Non sembrava un tagliacarte, ma un’arma vera.

«Interessante, signori. Siete davvero tutti molto interessanti.»

Il signor Tre pensò che la voce del Maggiordomo fosse intrisa di una sfumatura beffarda che davvero non gli piaceva.

«Aprite gli occhi, prego.»

Ebbe la fortissima impressione di trovarsi sott’acqua. Le braci fumavano nel camino e una sfumatura di fumi verdastri, come flutti di fronte al viso, annegava la stanza. Si chiese come potesse non essersi accorto del vago aroma di incenso, sempre più forte.

Avrebbe voluto rivolgersi al collega, brevemente e senza dare nell’occhio, ma non se la sentì. L’agente sotto copertura sa che un singolo gesto rivelatore può significare la morte in certi giri.

«Sul tavolo di fronte a voi è stata disposta una carta con la faccia rivolta verso il basso. Non guardatela! E non toccatela, non ora! – stava dicendo il Maggiordomo – Questa carta contiene delle verità assolute sulla formazione del cosmo. Cosa provate al riguardo?»

«Curiosità!» esclamò una donna dalla vocetta stridula, alla sua sinistra.

«Molto interessante. Qualsiasi cosa sia, focalizzate il sentimento posando una mano sulla carta.»

La mano del signor Tre si mosse e si posò con precisione sulla carta di fronte a lui, senza che lui potesse abbassare gli occhi per guardarla. Questa volta fu chiarissimo: stava perdendo il controllo sul suo stesso corpo. Non riusciva a fare niente di diverso dall’ubbidire agli ordini del Maggiordomo dell’Aragosta. Le sue palpebre si abbassarono lentamente e un’immagine cominciò a formarsi dietro di esse, sempre più rapidamente.

Vide città polverizzarsi e restituire al terreno legname, fango e metalli. Vide gli oceani spezzare ogni giogo, inghiottire barche, moli, spiagge. Vide quella valanga d’acqua ritirarsi sotto una luce torrida e sfolgorante che riportava il mondo a una palla di fango. Vide la luce spegnersi, lenta e mortale, consegnando la Terra a un gelido buio. Intravide – o forse indovinò – l’essere acquattato in quel buio e spalancò gli occhi in preda al terrore.

Interrompere la visione lo colpì fisicamente. Lo stomaco si rivoltò e dovette sopprimere un conato. L’uomo e la donna che aveva di fronte parevano altrettanto sconvolti.

Scoprì di potersi finalmente girare e, grato di quel movimento, ne approfittò per rendersi conto che la gente nella stanza era diminuita. Erano rimasti in cinque più il Maggiordomo. Anche il signor Nove era rimasto. C’era da chiedersi cosa fosse successo ai due mancanti.

Il viso dell’unica donna sembrava trasfigurato: era euforica. Uno degli uomini aveva il volto in ombra, mentre il secondo – quello che aveva davanti – traeva respiri lenti e rumorosi, sforzandosi di rimanere impassibile. Il signor Tre lo imitò. Il signor Nove riusciva molto meglio a tenere la faccia sotto controllo, ma lui ebbe l’impressione di scorgere una contrazione nel muscolo delle sopracciglia, una cosa che gli succedeva solo quando era arrabbiato. O forse sconvolto. Da quando lavorava sotto copertura tra truffe e santoni, al signor Tre non era mai capitata un’esperienza del genere, ma c’era qualcosa nell’espressione del suo partner che lo metteva in condizione di chiedersi se fosse lo stesso per lui.

«Ora, miei gentili signori, comincia la vera riunione. Come avrete notato, le persone inadatte sono state invitate ad allontanarsi dalla sala conferenze. Essi non sono pronti ad assistere a ciò che vi verrà mostrato. In qualità di – perché no? – eletti, verrete immediatamente iniziati alle Verità della nostra associazione.»

Questo era molto strano. Il signor Tre lo trovava addirittura allarmante, ma si rendeva conto di non essere del tutto in sé.

«Prima, tuttavia… una piccola… pausa…» stava dicendo il Maggiordomo.

La sua voce arrivava da lontano, come se si trattasse di suoni attutiti dall’acqua.

Sentì il bisogno di aggrapparsi a qualcosa di solido e quando le sue mani strinsero il bordo del tavolo, incontrò con le dita il bordo sottile della carta che aveva scatenato le visioni.

La afferrò e la voltò di scatto. Erano i cani ululanti alla luna del biglietto da visita. L’aragosta rossa spiccava tra loro, pronta a imprimersi sulla retina come un bacio di fuoco. Sotto le sue zampette adunche non c’era scritto Hotel L’Aragosta ma La Luna e un numero in caratteri romani che continuavano a mescolarsi di fronte ai suoi occhi sgranati.

«La riconosce?»

La voce del Maggiordomo gli rimbombò nell’orecchio e il signor Tre sobbalzò. Recuperò il controllo immediatamente, mettendo a fuoco la sala verde. L’uomo era orribilmente vicino e osservava la carta da sopra la sua spalla. Il signor Tre si allontanò, impassibile.

«Non l’ho detto, ma ora è permesso guardare le carte, naturalmente. Non ha fatto niente di sbagliato» lo rassicurò il Maggiordomo.

«Oh… bene. Noto che assomiglia al logo dell’Hotel.»

«Certo, certo, ma non solo! La carta diciotto racchiude moltissime Verità che L’Aragosta dimostra disfacendo. Appartiene al mazzo dei Marsigliesi.»

Il tono mellifluo del Maggiordomo assunse la piega di un sorriso. Il signor Tre ebbe la sensazione che le sue labbra non si fossero mosse affatto sotto i folti baffi. Prima che potesse replicare, l’individuo aveva ripreso il suo posto a capotavola, annunciando la fine della pausa.

Il signor Nove, che nel frattempo si era avvicinato al caminetto, si sedette al suo posto di fianco al signor Tre.

«Impressioni?» mormorò quest’ultimo, guardando fisso di fronte a sé. Se ne pentì immediatamente.

Il signor Nove esitò un secondo, prima di aprir bocca:

«So di non sapere che il fuoco freddo è spesso causa d’incendi.»

Il codice degli uffici era chiaro solo a coloro che avevano eseguito uno speciale addestramento linguistico, tale da rendere il cervello estremamente sensibile ad acronimi, acrostici, mesostici, palindromi e questo grazie ad esercizi di crittografia e decrittazione, oltre ad atroci sedute a livello agonistico di Scarabeo. Il signor Tre eccelleva in queste pratiche, e proprio per questo comprese subito che quello che il signor Nove intendeva davvero era: estremo pericolo.

Evidentemente la sua intuizione era corretta: erano stati drogati dai fumi mefitici emanati dalle braci verdastre nel camino. Non solo: più che sentirsi illuminata, quella setta di idioti pretendeva di essere la fottuta lampadina dell’umanità. Dovevano essere i pazzi più furiosi che avessero mai incontrato. La situazione era già fuori controllo, senza che loro potessero farci nulla. Doveva pur esserci una soluzione accessibile a una coppia di agenti speciali.

Il signor Tre catturò l’intera stanza in due brevi sguardi. Notò che la signora di fronte a lui frugava febbrilmente nella propria tasca destra. Il terzo uomo oltre a loro fissava il Maggiordomo senza muovere un muscolo e tutte le carte erano state ritirate dal Maggiordomo che ora le esibiva di fronte a sé con un sogghigno che non aveva più niente di ospitale.

«È giunto. Il momento che state aspettando da tutta la vostra vita sta per risucchiarvi. Da quel punto in poi… non sarete più gli stessi.»

Il Maggiordomo si avvicinò al caminetto, frugò nell’ombra che ammantava la mensola di pietra, e tornò al tavolo con uno scrigno di legno tra le mani. La sola vista dell’oggetto provocò nel signor Tre una sensazione di disagio così intensa da causargli un conato di vomito.

«Avrei una domanda!» intervenne, cercando di prendere tempo e soffocare la nausea.

Notò l’occhiata interrogativa che Nove gli lanciò di sottecchi, ma la ignorò. Sudava freddo.

Il Maggiordomo lo squadrava freddamente.

«Sì?»

«Che senso ha tutto questo?»

Il Maggiordomo inarcò un sopracciglio appuntito.

«Stiamo parlando di come ottenere la conoscenza assoluta, qui. O sbaglio? A cosa serve drogarci, mostrarci immagini suggestivi per indurre visioni, senza sottoporci a vere prove? Come facciamo a sapere davvero se siamo degni?»

«Il fuoco freddo…» sussurrò il signor Nove di fianco a lui.

«Queste “visioni”, come le chiama lei, signore, sono il primo assaggio di Verità. Voi l’avete sopportato indenni.»

«Pretendo di saperne di più.»

Il sopracciglio inarcato del Maggiordomo sembrava destinato a raggiungere il soffitto.

«Come, prego?»

Il signor Tre doveva giocarsela bene. Attinse dai fascicoli.

«Io sono qui con uno scopo. La famiglia non mi basta, anelo alla conoscenza assoluta, a qualcosa di più grande.»

«Temo di non capire» insistette il Maggiordomo, in tono definitivo. «Lei invece sta per comprendere ogni cosa. Se vuole scusarmi, proseguirei con…»

Il signor Tre era stufo di sentirsi preso in giro. Estrasse l’arma di emergenza e puntò la piccola canna argentata contro la fronte del Maggiordomo. Lui ammutolì conservando un’espressione di disappunto.

«L’ho cercata a lungo, – continuò, come se non fosse stato interrotto, – sono in molti a prometterla e nessuno ce l’ha. Chi ci dice che proprio qui, in questo misero alberghetto siano contenute tutte queste… verità? Perché dovrei crederci?»

«Già…» mormorò l’uomo dagli occhi fissi.

«Perché dovrei lasciarmi impressionare dai vostri trucchi?»

«Già!» esclamò la donna dalla vocetta acuta.

Il signor Nove taceva, ma il signor Tre era ormai sicuro di aver riconquistato il controllo della situazione. Incatenati a quelli scuri e maliziosi del Maggiordomo in una lotta silente, i suoi occhi raccontavano un’unica storia: era deciso ad averla vinta. Avrebbe incastrato anche questa setta di criminali, schedato i suoi segreti negli archivi dei servizi e sarebbe diventato dirigente. Si era del tutto dimenticato di avere un partner.

Soltanto il famigliare clic di una sicura che scatta lo riportò con i piedi per terra.

Nove gli stava puntando la pistola alla tempia.

«Ma cosa…»

«Non puoi più fermare questo incendio amico mio. Lui te lo dimostrerà disfacendo.»

Il signor Tre serrò la mascella sfuggita per un attimo al suo controllo e squadrò duramente il collega. Nove, nel suo completo grigio, stagliava la propria figura contro le ombre verdi che infestavano la stanza buia. I suoi occhi, solitamente calmi e ingannevolmente mansueti, erano completamente spalancati e sembravano non vedere affatto il collega che stava tenendo sotto tiro.

Tre accennò un piccolo movimento.

«Che stai facendo? Non erano questi… i patti» tentò. La pistola non sparava, ma lo seguiva. Sapeva che se avesse tentato la sorte ne sarebbe uscito perdente.

«Signor Tre, evidentemente dev’essersi verificato un errore. Ormai però è troppo tardi.»

Il signor Tre impallidì. Non si era certo presentato all’hotel con il suo nome in codice.

Gli altri due adepti intorno al tavolo erano immobili e dardeggiavano gli occhi dai due uomini con la pistola al Maggiordomo che teneva le mani sul coperchio dello scrigno, pronto ad aprirlo da un momento all’altro.

«Non ci provi neppure…» boccheggiò Tre, rivolto al Maggiordomo.

Se avesse premuto il grilletto, sarebbe stato come sparare a sé stesso; non dubitava infatti che Nove avrebbe fatto fuoco a sua volta. Non sapeva bene come, ma intuiva quando il suo cervello era stato imprigionato nella morsa della setta: quella visione aveva fatto presa su di lui.

«Anche per voi signori, se non siete convinti… è troppo tardi per tirarvi indietro, temo» continuò il Maggiordomo, mellifluo.

Le sue dita cominciarono a schiacciare diversi punti dello scrigno. Cedevano al suo tocco come primitivi pulsanti, mutando la forma dell’oggetto. A ogni pressione assomigliava sempre meno a un antico scrigno di legno e sempre di più a un informe ammasso di materia.

La prima associazione che si presentò alla mente di Tre fu: roccia molle. Nera come pece, dall’aspetto roccioso ma effettivamente malleabile, la materia aliena – ormai innegabilmente disgustosa – emanava un’aura di freddo nauseabondo.

Tre dovette premersi la mano libera sulla bocca per non vomitare e il Maggiordomo si ritrovò fuori tiro. Gli altri aspiranti adepti si erano alzati, facendo cadere le sedie dietro di sé nella foga di distanziarsi dall’oggetto. Solo Nove sembrava ancora placido e tranquillo. Un sorriso di beatitudine andava disegnandosi lentamente sul suo volto.

Quella sensazione di freddo non era normale. Tre si era aggrappato al tavolo per non cadere, ma la forza del braccio non lo resse più di qualche secondo e così finì boccheggiante sul pavimento.

Era come se non coinvolgesse tutti nella stanza, una specie di malessere che interessava soltanto lui. Lo sentiva circoscritto al suo corpo, che lo schiacciava verso il basso e allo stesso tempo lo attirava… verso l’alto. Nessun addestramento mentale basato sul padroneggiare un esasperante gioco enigmistico avrebbe mai potuto preparare la sua mente a sopportare niente di simile.

Lo strillo della donna lo riscosse. La forza che lo dilaniava lo chiamò a sé e solo allora Tre alzò lo sguardo verso l’alto.

Il soffitto non esisteva più. Un vortice di oscurità ne stava divorando gli ultimi lembi.

Tre emise un’esclamazione strozzata. Ancora seduto al lungo tavolo, il Maggiordomo seguitava a manipolare il blocco di materia aliena che aveva cominciato ad emanare una disgustosa luce verde. I lineamenti dell’uomo, stravolti e inumani, erano estatici e tirati nello sforzo di terminare finalmente quanto stava facendo: era l’oggetto tra le sue mani a generare il vortice di oscurità verdastra e malsana che stava disintegrando la stanza.

Tre urlò a sua volta, un urlo di rabbia, e si rimise in piedi a fatica.

Nove aveva le braccia abbandonate lungo il busto e non si curava più di lui: fissava il vortice con crescente stupore e Tre lo sentì sussurrare “fuoco freddo… fuoco freddo”.

Aveva perso la sua pistola, ma non perse tempo. Strappò quella che Nove ancora stringeva dalle sue mani e la puntò sul Maggiordomo.

Fece fuoco ma fu come sparare nell’acqua.

L’atmosfera della stanza non aveva più niente di terreno.

La voce del Maggiordomo rimbombò nella sua testa come se provenisse direttamente da lì:

«Come le avevo detto, signor Tre, è troppo tardi. Lei sta per compiere la sua funzione alimentare e sostentare con il sacrificio del suo corpo il risveglio del Pulitore del Cosmo, Nostro Signore, Colui che Dimostra Distruggendo, l’Essere Primigenio che tutto ha creato e che si appresta a porvi fine. La prego di non fare quella faccia. La vita di un uomo nell’universo vale tanto quanto quella di plancton nell’oceano, le particelle che lo compongono equivalgono ai sedimenti organici che il crostaceo filtra per tenere l’acqua pulita. Questo è il segreto che posso svelarle personalmente. Ma, come promesso, lei andrà molto oltre: è stato giudicato idoneo a sacrificarsi e per questo riceverà la sua ricompensa. Sta per conoscere ogni cosa.»

Il signor Tre, annichilito, non poteva fare altro che fissare la spirale di ombre verdastre che aveva ormai ingoiato pareti e pavimenti. Le sue braccia dondolavano inermi e gli occhi erano l’unica parte del suo corpo su cui conservasse un minimo di controllo. Li sentiva spalancarsi sempre di più, come se avessero deciso di esplodere fuori dalle orbite per non dover vedere quello che si stava svelando di fronte a lui.

Dall’oscurità vorticante emergevano stelle e pianeti, galassie e buchi neri, interi mondi scintillanti nel buio profondo e dilagante, tanto vasto da risultare incomprensibile. Dai lembi di questa immensità si levava, lenta e predatoria, una creatura di proporzioni incontenibili.

La vide e la riconobbe.

Acquattata ai bordi della sua coscienza sgretolata, l’Aragosta gli restituì lo sguardo.

Chiara Nizzi