ERATAI 04 – IL CANTASTORIE – TERZA PARTE: MONSIEUR CHANCENOIR

Ero di nuovo nei boschi di Lastours. Il nero Awan, che scalpitava smanioso di galoppare,  era la mia unica compagnia. Nessun altro uomo, in questo modo, sarebbe stato risucchiato dalle tremende magie di Azyrath. Raggiungemmo la rocca. Tolsi la sella e curai il mio amico con  cibo e uno stallo comodo per la notte.  Allestii il mio campo.

“Sono tornato, Uccello di Luce! Mi hai ascoltato? Adam è di nuovo qui e suonerà per te questa sera.”

Presi il mio clarinetto e cominciai con una melodia. Quale musica sarebbe piaciuta a quella creatura? “Dovrai giocare, Adam.” Disse Evangeline

Cercai di non sembrare aggressivo, misi una mano in avanti per tranquillizzare la creatura. Raccolsi dallo zaino dei pastelli colorati e dei mattoncini di legno. Udii un verso simile al garrire d’una rondine. Alzai lo sguardo, ma non furono i miei occhi a vederlo. Lo percepii con un’altra vista, quella dei sogni. Era la creatura. Sembrava contenta di quegli oggetti per terra.  Eppure una strana consapevolezza si impadronì di me. Ero convinto che tutto fosse un mio abbaglio. Ma diedi spago al quell’allucinazione.

“Vuoi questi giochi? Prendili pure, sono tuoi. Se ti va, possiamo usarli insieme, sai come si costruisce con questi mattoncini?” dissi.

Mi chinai e misi i legni uno sull’altro. L’entità fece un grido garrulo, parve divertita.

Un fruscio attratte la mia attenzione. Mi voltai ma non vidi nulla d’interessante. Tornai con il viso verso i giochi, ma non provai più la sensazione della presenza di quella creatura. Ancora lo scalpiccio dietro le mie spalle.

“Chi è lì?” dissi, alzandomi in piedi con la mano sull’elsa della spada.

“No, non essere aggressivo!” mi parlai. Abbassai quindi il pugno e lo distesi.

“Non sono venuto con cattive intenzioni, quindi chiunque stia qui, adesso, potrebbe presentarsi senza pericolo.” Feci al vuoto.

“Perdonate, signore, è da tempo che qui su non s’arrampica un Cavaliere… L’ultima volta non siete stati educati nei miei confronti” udii una voce dal timbro neutro, familiare. Non era un uomo né una donna che mi stava spiando. Mi fu facile capire quale creatura si nascondesse dietro il cespuglio cresciuto nelle mura del cortile.

“Monsieur Chancenoir? Louka Chancenoir? Ho il piacere, finalmente, di rincontrarti!” tirai un sorriso assieme al mio dire “Sono venuto per chiederti scusa, e ricominciare daccapo. In effetti il nostro primo incontro – anzi scontro, chiamiamolo così – non è stato degno d’un Cavaliere. Non ho intenzione di portarti via: vedi, sono solo!”

“Perché allora siete tornato, Vossignoria? Sono tanto importante per voi?” uscì allo scoperto un Allaghèn dai connotati sfuggenti tipici della sua razza. Il suo incedere era schivo e rapido, mentre s’avvicinava si teneva sempre pronto a balzare lontano, dietro qualche roccia.

“Sì, la tua fama, mio caro Cantastorie è giunta molto lontano da qui.” Risposi.

“Vi sbagliate, io sono solo un modesto arpista e non sono molti gli umani per cui suono. Trovo strana la vostra attenzione nei miei confronti, ma non vogliatemene, Vossignoria.”

“Amico mio, non è per la tua musica che ti conosco. Anche se, lo ammetto, mi piacerebbe ascoltarla.”

“Allora, se non è per la mia musica, e non per rapirmi, mio signore, non capisco perché siete venuto fin quassù e da solo per giunta.” Continuò sospettoso.

“Suona qualcosa per me, e io ti dirò tutto quello che vorrai sapere circa la mia  spedizione qui. Dammi il modo di farmi perdonare, una seconda possibilità non si nega mai.” Lo invitai a sedersi  “Accendo un fuoco, e visto che l’aria sta montando in vento freddo, berremo un tè al riparo nella mia tenda.”

“In effetti tutti possono sbagliarsi.” Disse con aria ingenua “Mi piace il tè, Vossignoria siete molto gentile. Ma io non ho nulla da offrirvi in cambio della vostra ospitalità.”

“Ti ho detto, mi piacerebbe ascoltare la tua arpa.” Replicai.

“Vossignoria, ho sentito suonare in modo melodioso anche voi.” Disse ancora “e di certo possedete talento più di me. Mi brucerebbe il desiderio di poter suonare la mia arpa assieme al vostro strumento, per imparare un po’ dalla vostra interpretazione.”

Era furbo quell’Allaghèn. Oppure molto credulone. Suonando mi avrebbe distratto dal mio compito principale, catturarlo,  e magari approfittando dell’intimità di quel momento, si sarebbe potuto dileguare chissà dove. Se invece davvero la mia musica lo attrasse tanto, il gioco sarebbe stato a mio favore. Lo avrei adescato così.

Nel frattempo eravamo giunti dentro la tenda. I suoi occhi caddero subito sui giocattoli sparsi sul pavimento. Vidi le sue labbra fremere.

“Li avevo portati per te, come segno di pace fra noi, sapevo che ti sarebbero potuti interessare.” Dissi, facendo ruotare il mio piano nel verso giusto.

“Non mai così tanti soldi da potermi comprare cose simili. I miei guadagni bastano per mangiare, quando neppure quello. Il bosco per fortuna è molto generoso con me.” Sospirò intristito.

“Ti capisco, l’arte non sfama. Prendili, sono tuoi.” Lo sospinsi in modo amichevole.

Non ebbi mai modo di osservare un Allaghèn con dei soldi in mano. Nessun soggetto catturato aveva avuto iterazioni con la civiltà umana fino al punto di entrare nei suoi negozi. Era anche difficile che portassero vestiti e nessuno, fra loro, indossava biancheria intima.

Avrei affrontato con lui l’argomento dell’Uccello di Luce nel mio Laboratorio, una volta compiuta la missione. E avrei soddisfatto la mia curiosità nei suoi confronti che montava sempre più, man mano ci parlavamo.

“Sicché suoni sulle strade del paese per sfamarti?” chiesi, mentre l’Allaghèn si era seduto, catturato dalla meraviglia per i pastelli colorati e i mattoni di legno, aveva cominciato a muoverli.

“Sì, Vossignoria. Ma non vado fino in paese. Rimango nei pressi di Lastours, mi spingo al terrazzo panoramico laggiù, lo vedete?” m’indicò il crinale opposto “C’è un certo movimento di gente, perciò qualcosa riesco a racimolare. Inoltre la proprietaria del campeggio mi chiama qualche volta, per intrattenere gli avventori con le mie canzoni. Allora non chiedo denaro, ma solo la cena. Lei è molto generosa e discreta con me, così le ho scritto diverse canzoni apposta per sue le serate.”

Ero perplesso, non ascoltai mai d’un’interazione così stretta fra un’Allaghèn e la comunità umana.

Chiesi: “E lei, la proprietaria del campeggio, conosce la tua, ehm, la tua natura?”

“Volete dire se sa chi io sia in realtà?”

Annuii

“No, non lo sa. Ma mi dice sempre che sono ‘strano’ diverso dagli altri. Lo dice con un tono positivo, non mi offende mai.”

“E non sospetta nulla della tua diversità? Per esempio la tua voce, la tua pelle e i tuoi occhi, sì, i tuoi occhi attirano molto l’attenzione di un umano.”

“In genere porto sempre gli occhiali. La pelle col sole scurisce e non appare molto diversa dalla vostra, a meno di non toccarla. La voce? Ci sono molte cause per cui un essere umano potrebbe avere una voce simile alla mia.” Rispose, mentre trafficava entusiasta con i giocattoli.

La risposta era ingenua ma funzionava: “In effetti mutazioni cromosomiche possono dar luogo a quello che si chiama ermafroditismo, anche, se devo ammetterlo, sono cose piuttosto rare.” Dissi. E di un Allaghèn nessun Figlio di Caino conosceva l’esistenza, eccetto i clandestini delle varie reti in comunicazione con i Ribelli d’Aurora. Ora la faccenda assumeva un valore diverso. Se la proprietaria del campeggio avesse scoperto qualcosa circa la natura di “Louka Chancenoir” oppure lo avesse fatto un qualche suo avventore, la voce si sarebbe potuta spandere in modo incontrollato sul web diventando un serio intralcio per le mie future missioni di cattura. Orde di idioti si sarebbero scaraventati per strada, armate di macchine fotografiche e telecamere per riprendere un Essere di Luce, un’entità multidimensionale e dare credito alle loro più bislacche teorie esoteriche. Avevamo bisogno degli Allaghèn, e un impiccio simile era  da evitarsi in ogni modo. Dovevo togliere di mezzo “Chancenoir”, il prima possibile. Poi mi sarei occupato del campeggio e dei suoi proprietari.

“Ti piacciono questi giocattoli?” chiesi con fare bonario.

“Sì, certo, Vossignoria, e vi ringrazio per avermeli prestati.” Sembrava l’immagine della contentezza.

“Ne ho molti altri.”

“Vi piace colorare la carta con i pastelli, Vossignoria?” replicò.

“Non sono molto portato per il disegno. E per quanto riguarda le costruzioni di legno, sai, sono sempre solo perché  nessun  altro Cavaliere coltiva questa passione.”

Non potevo gettarmi su di lui in quel momento e chiuderlo nel lenzuolo capace di anestetizzare gli Allaghèn. Era un soggetto molto rapido. Lo aveva già fatto. Si era ribellato, scivolando dalle braccia dei cacciatori.  Non so sino a quanto si era fidato delle mie scuse. Perciò continuai a trattenerlo nella tenda con le parole.

“Volete dire che Vossignoria s’interessa alle costruzioni?”

“Sarebbe così strano? Anch’io ho un animo incapace di starsene fermo.” sorrisi.

“Non lo è, strano, non vorrei offendervi con le mie parole. Mi chiedo se vi fa male stare da solo.”

“Gli Uomini sono diversi dagli Allaghén, soffrono la mancanza dei loro compagni.”

Vidi gli occhi della mia preda sollevarsi dai giocattoli sul mio volto: “Mi dispiace che la solitudine vi turbi. Voi siete molto generoso e non meritate questo malessere.”

“C’è molto spazio per ricevere ospiti e compagni di giochi dove vivo io. Ma ahimè, i cavalieri sono interessati ad altre cose, io con i miei incarichi di rado posso coltivare i fiori e dar da mangiare agli animali. Perciò il mio cortile è diventato un luogo noioso e desolato.”

“Animali?” s’incuriosì rizzandosi “Avete anche animali?”

“A parte i cavalli, certo. I cani, ti piacciono i cani? Ma bisogna aver tempo per curarli. Inoltre avevo costruito una bella conigliera, e una stia per oche e uccelli da cortile. Mi piaceva molto guardare il loro starnazzare allegro.”

“ Ogni tanto c’è un cane randagio qui, e giochiamo coi ramoscelli. Mi piacciono i lupi, ne ho visti in questi boschi!” ora il suo viso irradiava entusiasmo e stupore e la voce s’era accesa.

 Sì, la cosa andava nel verso giusto, il mio piano stava funzionando. Più parlavo, più l’interesse dell’Allaghèn s’avvitava stretto su di me. Percepivo il battito dei suo cuore come quello di un uccellino in mezzo alle molliche di pane. Ancora poco e l’avrei messo in gabbia.

Non pensavo potesse essere tanto semplice. La prima volta che l’incontrai sembrò una furia scossa dalla tempesta. Invece ora l’avevo ammansito senza fatica con quei ninnoli. Una soluzione semplice, ma alla quale non sarei arrivato senza il consiglio della Dormiente. Riuscii persino a carezzargli la chioma corvina che scendeva caotica e polverosa, annodandosi sulle spalle. L’igiene personale in un Allaghè è sempre stata una scarsa costanza. A guardarlo  mi venne in mente il lavoro che avrei dovuto fare per dargli un aspetto civile. Non portava scarpe ma sandali, a giudicare da come erano conciati, li avrebbe dovuti avere indosso da molte stagioni.  I suoi piedi erano così sporchi e duri da sembrare quelli di una scimmia.  Non si riusciva neppure a scorgere il colore originario della sua camicia e solo il gilet era ancora rosso con degli arabeschi ricamati, un vestito stridente con l’aspetto sudicio e cencioso di chi lo indossava. Mi chiesi perché quell’abito fosse ancora così splendido . Anche il cappello non sembrò messo male. Azzurro con una bella piuma bianca e nera, forse di cicogna, che si ergeva soffice ed elegante dalla tesa molto ampia.

“Hai un bel cappello.” Dissi

Lui: “Vi piace? Me lo hanno regalato .”

“Un regalo davvero prezioso, immagino.”

“È come una mano calda sulla testa in inverno, e una fronda d’albero con il sole.”

“Intendevo che chi te lo ha regalato deve averlo pagato molto. Posso sapere chi è stato?” feci per raccoglierlo.

All’improvviso l’Allaghèn distolse l’attenzione da tutto quello che stava facendo. Mi puntò i suoi grandi occhi nero \azzurri in faccia.

“Fermo!” imperò con un tono aggressivo e inaspettato.

Bloccai la mia mano, disorientato dal suo cambio d’umore.

Fu lui stesso a spiegarmi: “Chi me lo ha regalato è anche la persona che lo ha confezionato. L’arte e la maestria con cui me l’ha preparato non dovrebbero esservi oscure, mio Signore. Ho poche cose di quella mano così gentile e potente al tempo stesso, non potevo portare tutto con me. Ho dovuto prendere solo il cappello, la giacca che indosso e il mantello.”

“Mantello?” ero sempre più incuriosito da quella creatura. La sua vita tanto inconsueta per un Allaghèn divenne ancora più interessante.

Uscì dalla tenda e tornò subito, coperto da un indumento eccezionale. Era una cappa di lavorazione mai vista, leggero, come fatto di piuma, eppure in grado di proteggere dalle intemperie più dure. I disegni ricamati erano meravigliosi animali, forse creature mitologiche visto l’aspetto. Come il gilet e il cappello anche questo era pulito e sgargiante.

“Perché dovrei conoscere chi ha confezionato questi bei vestiti?” chiesi

Mi guardò serio, tanto da colpirmi con i suoi occhi immensi.

Poi ridisse: “Siamo qui per questo, no?” con un tono quasi ringhioso.

Ancora quella risposta – Siamo qui per questo.

Mi tornarono alla mente l’Uccello di Luce e la Dormiente. Anche loro usarono parole simili. Ma per cosa ero lassù, a muovere insulsi pezzi di legno assieme a un’entità che mi serviva solo come pila energetica per i motori del tempo delle nostre basi?

“Bene, se ti ho offeso, chiedo scusa.” Dissi, temendo che scappasse.

D’improvviso il suo sguardo come s’era oscurato, si rasserenò. Alzò le spalle rispondendo: “No, mi scuso io, Vossignoria, voi siete stato tanto gentile con me e io vi ho ricambiato in modo tanto becero. Mi dispiace molto.”

Cercai di consolarlo perché parve davvero afflitto.

“Non fa nulla, amico mio. Ti verso un altro po’ di tè.”

“Tutto si compia, adesso, Adam, non trattenere il destino più del necessario.”

Mi voltai di scatto. Era il verso stridente e acuto dell’Uccello di Luce!

L’Allaghèn non s’accorse del mio turbamento. Continuò a tramestare fra i pezzi di legno. 

“Monsieur Chancenoir, gradiresti essere mio ospite per un po’? Mi piacerebbe un compagno che mi aiutasse nell’allevare i conigli e i cani nel cortile.  Poi quando ti sarai stufato te ne andrai.”

Diede un’espressione felice alla sua faccia: “Vossignoria, sarei onorato di aiutarvi con gli animali!”

“Al Castello c’è anche un’ampia sala dove tengo legni e colori di cera. Potresti alloggiare lì.”

“Sì, mi piacerebbe molto godere della vostra ospitalità.”

“Lo so che sei vegetariano, abbiamo un cuoco specializzato in questo tipo di cibo. Non siamo solo rozzi cacciatori senz’anima. Certi giorni del mese non mangiamo neppure noi carne.”

L’Allaghèn mi sorrise. Allungai la mano in segno di amicizia. Lui la raccolse, mettendo il suo palmo nel mio. La mia mano era tanto più grande che poteva contenere la sua, avvolgendola.

 Sellai Awan per il rientro.

“Vossignoria, non ho mai visto un cavallo così enorme!” disse.

“Sono i cavalli di Adam, una razza gigante allevata dalla mia Famiglia. Te li farò conoscere, amico mio. Vorresti provare a salire su Awan?”

Rimase interdetto. I suoi occhi s’illuminarono: “Io sono davvero onorato…non so cosa dirvi, Vossignoria, è il vostro cavallo, vero?”

Lo presi in braccio e lo feci sedere in sella. Un Cavallo di Adam è titanico e una creatura della stazza di un Allaghèn non potrebbe montarlo se non con un balzo degno di un felino o con una scala. Neppure un Figlio di Caino sarebbe in grado di raggiungere la sella, senza le staffe o un aiuto. Noi non usiamo le staffe, né il morso. Perciò questi titani neri rimangono inavvicinabili per chiunque non appartenga alla nostra famiglia.

Awan annusò le gambe del suo ospite, voltando la sua testa di fianco.

“Stai tranquillo, vuol solo sapere chi è salito su di lui.” Diedi una pacca amichevole all’Allaghèn e poi carezzai il collo del cavallo.

Non ebbi problemi con la discesa. L’Allaghèn gradì molto l’insolita passeggiata sulle spalle di Arwan. Una volta discesi dalla zona più impervia, montai anch’io in sella. L’avevo stretto a me, adesso. Fra il mio petto e il collo di Arwan l’Allaghèn non sarebbe più potuto andare da alcuna parte. Ma non percepì la trappola, anzi si sentì a casa, a ridosso del mio corpo.

“Niente era più bello che consumare il fuoco accanto alla voce di Adam!”

Non feci cenno alla mia preda di quella voce. Ma un calore saliva inarrestabile dal punto in cui il suo corpo toccava il mio.

“Per amore dell’Inno ti dedico questa mia ultima danza, Adam. In questa notte la mia ultima illusione. Danzerò nella luce per te, ancora una volta tu suonerai l’Inno. E io amerò la tua voce.”

Il calore divenne un fuoco feroce, ma cercai di non dare a vedere il bollore che mi sbranava dentro. Presi l’acqua e quasi finii la borraccia.  Prima però l’offrii al mio prigioniero inconsapevole, credendo che quel fuoco avesse colto anche lui.

 Invece disse con candore: “No, Vossignoria, vi ringrazio ma sto bene.”

“Adam tu non conosci la verità, quando ti sveglierai di me non troverai più traccia.”

Continuai a sopportare quel bollore infernale sino al momento in cui iniziò, per incanto, a scemare.

Arwan neppure parve scosso. Dunque ero stato solo io ad averlo percepito.

Giungemmo al piazzale. Non c’era ancora anima viva, l’alba si era affacciata da poco sulla città. Puntuale la momento stabilito, l’astronave apparve dal nulla, formando un gorgo dell’aria. Un cargo nero a forma di goccia che silenzioso si posò sul suolo, senza smuovere neppure le foglie morte. Subito la sua forma scomparve alla vista, divenendo parte del paesaggio.  Nessuno si sarebbe accorto della presenza di un simile oggetto volante.

Presi in braccio l’Allaghèn dalla sella. Un Cavaliere discese dal cargo e curò Arwan, conducendolo dentro dalla parte posteriore. Un altro sopraggiunse in modo rapido e sicuro vicino a noi. Aveva il lenzuolo di cattura. Ormai era mio. Stretto fra le mie braccia non poteva ribellarsi. Annuii con il viso. L’uomo avvolse con un gesto ben studiato la preda. All’ultimo, mentre il velo grigiastro lo andava coprendo, capì cosa stava accadendo. Lo sentì scalciare. Lo trattenni, finché il suo copro non si rilassò per effetto della droga nel lenzuolo. Resi invisibili da un gioco di energia  , eravamo nascosti alla realtà. Quindi entrai anch’io nel cargo con quella strana mummia fra le braccia. Ma non lo posai sul solito lettino di trasporto. Lo tenni a me. “ Sei mio.” Gli dissi sussurrando.

 Il Cantastorie era mio, adesso.

Alessandra Biagini Scalambra