ILIDE CARMIGNANI… TRA GARCÍA MÁRQUEZ E SEPÙLVEDA

Le traduzioni dei classici invecchiano perché la lingua si evolve per cui è necessario tornare a tradurli. E’ il concetto da cui è partita Ilide Carmignani nella sua conversazione Magia e realtà dedicata al celebre romanzo Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez tenuta a Matera il 2 settembre scorso presso il Museo nazionale Domenico Ridola. La serata ha inaugurato la nuova rassegna, ideata da Francesco Mongiello e organizzata dall’associazione Amabili Confini, intitolata Scrittori allo specchio, sulle trasposizioni dei grandi classici. Nei cinque appuntamenti letterari che si svolgono in questo mese oltre alla Carmignani, partecipano Susanna Basso, Claudia Zonghetti, Giorgio Amitrano e Yasmina Melaouah, tra i più importanti traduttori italiani. Nella sua prestigiosa carriera Ilide Carmignani ha tradotto dallo spagnolo autori latinoamericani del valore di García Márquez, Borges, Bolaño, Neruda, Sepúlveda. L’incontro è stato presentato da Agnese Ferri la quale ha sottolineato che la rassegna è dedicata ai traduttori, ossia coloro che danno la possibilità di fruire dei capolavori della letteratura. Partendo da questo concetto Ilide Carmignani ha parlato della nuova edizione di Cent’anni di solitudine del 2017 pubblicata negli Oscar Mondadori. Il romanzo è del 1967 e fu tradotto in Italia nel 1968 da Enrico Cicogna con un linguaggio che rispecchiava termini e cultura di quel periodo. Carmignani ha specificato le difficoltà di lavorare su un testo così complesso, sul quale si è ripiegata per due anni, tenendo conto delle revisioni che Márquez ha realizzato sino alla sua scomparsa. “Sono felice per il privilegio che mi è stato concesso – ha dichiarato – e non avrei mai pensato di tradurre una delle opere più importanti della letteratura latinoamericana. La traduzione di Cicogna è stata pittoresca ma non autentica, la mia è più autentica ma meno pittoresca”. Ma se García Márquez lo ha soltanto tradotto, Ilide Carmignani invece ha conosciuto molto bene un altro grande della letteratura latinoamericana ossia Luis Sepúlveda, purtroppo scomparso lo scorso anno a causa della pandemia da Covid, del quale ha tradotto tutti i libri pubblicati in Italia. A questo proposito a margine dell’incontro letterario le abbiamo posto alcune domande.

CI PUOI RACCONTARE IN QUALE OCCASIONE HAI CONOSCIUTO SEPÙLVEDA E COM’ERA IL TUO RAPPORTO CON LUI?

E’ avvenuto quando ho tradotto il suo secondo libro intitolato “Il mondo alla fine del mondo”. Dopo mi giunse una telefonata dall’editore di Guanda, Luigi Brioschi, il quale mi disse che Sepúlveda voleva conoscermi. Rimasi stupita perché non succede sempre che uno scrittore voglia conoscere il traduttore e poi lui stava scalando le classifiche in tutta Europa; aveva avuto una vita incredibile, era stato in Bolivia a combattere con Che Guevara, era stato alfabetizzatore sulle Ande, guardia del corpo del presidente del Cile Salvador Allende, prigioniero politico, insomma mi sarebbe bastato molto meno per impressionarmi. Sono partita, ho fatto un viaggio nervosissimo e quando sono arrivata nel suo albergo speravo ci fosse un addetto stampa dell’editore. Non c’era nessuno! Quando si è aperta la porta dell’ascensore lui è uscito. Era un omone, perché Lucho, come lo chiamavamo noi amici, era alto. Mi sono presentata e lui mi ha abbracciato. Io sono rimasta, pensavo ci fosse più formalità e invece mi ha detto: “Ho voluto che venissi per ringraziarti perché mi hai prestato la tua voce per arrivare ai lettori italiani”. Poi mi ha fatto una dedica molto bella. Questa storia la racconto sempre perché spiega chi era Lucho: una persona che dava voce a chi non aveva voce. Aveva attenzione per chi è invisibile che fosse il traduttore, la gabbianella sporca di petrolio, l’esule, il contadino delle Ande, il prigioniero politico, il prigioniero del campo di concentramento di Bergen Belsen.

Ecco, riferendoci per esempio a quest’ultimo, nel suo libro Storie marginali Lucho inizia scrivendo che si reca nel campo di Bergen Belsen e vede una scritta che riporta “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia” e lui dice “io devo raccontare la sua storia, il mio ruolo è questo”. Lucho ha raccontato sempre le storie degli altri e mai la sua. E allora io ho preso l’iniziativa di raccontare la storia della sua vita.

LO HAI FATTO NELLA STORIA DI LUIS SEPÙLVEDA E DEL SUO GATTO ZORBA. L’HAI SCRITTA DOPO LA SUA SCOMPARSA?

Sì, quando lui è mancato. E’ stato un momento in cui facevo fatica a pensare che ciò fosse avvenuto. Noi ci conoscevamo da oltre trent’anni. Io ho tradotto 26 libri di Lucho, ho scritto tanti articoli, è stato tante volte a casa mia con la moglie, ho le foto dei mie figli con lui, insomma era di famiglia. Il nostro era un rapporto di grande stima e collaborazione e quindi ho pensato che era possibile che la storia della sua vita, che lui non aveva scritto, gliela facessi scrivere io. L’ho preso come personaggio e gli ho fatto scrivere io la sua autobiografia.

SI TRATTA DI UNA SAGGIO O DI UN ROMANZO?

E’ una favola  per ragazzi dagli 8 agli 88 anni e lui è un personaggio, se stesso, che va ad Amburgo entra in un bazar del porto e sulla macchina da scrivere di Hemingway scrive la sua storia. La racconta lui come personaggio in un libro che ho scritto io. E’ come se avessi continuato a dargli voce in qualche maniera. Prima di farlo ho chiesto se potevo a Carmen Yanez, sua moglie e lei mi rispose: “Sarebbe un gesto di giustizia poetica”. Carmen mi ha dato del materiale, le fotografie di famiglia, la genealogia, una poesia molto bella che ho messo all’inizio del testo. Insomma, è un libro in cui c’è il ricordo della sua vita, tutta di seguito!

E’ STATO FACILE O DIFFICILE TRADURRE LA SUA SCRITTURA?

Lui diceva sempre: “E’ meritevole scrivere con parole da 10 dollari, ma è ancora più meritevole scrivere con parole da 10 centesimi”, è una frase di Hemingway, scrittore e giornalista come lui, che peraltro aveva combattuto con le Brigate Internazionali in Spagna insieme allo zio di Lucho e lui aveva la foto dello zio con Hemingway con il quale aveva tante cose in comune. La frase vuol dire che Lucho attingeva ad una ricchezza enorme di parole perché lo spagnolo è parlato da 500 milioni di persone ed è una lingua che ha una grande ricchezza di registri colloquiali. Noi abbiamo una lingua con una grande tradizione ma che ha registri colloquiali che nella lingua di tutti i giorni scivolano nel regionale. Questa è stata una delle difficoltà, trovare una lingua colloquiale senza scivolare nel regionale. Poi Lucho aveva una lingua che andava molto per immagini. Non a caso era anche regista, ha scritto sceneggiature, ha lavorato da giovane in una radio dove raccontava i film e lì lui trasformava le immagini in parole, il film in racconto, ed è stato un esercizio che gli è rimasto.  Anche questo non è stato facile da riportare in italiano. Però scriveva talmente bene, era talmente espressivo che incantava il lettore comunque, anche se qualcosa si perdeva.

TRA TUTTI I LATINOAMERCANI CHE HAI TRADOTTO QUALE PREFERISCI?

Per me è difficile rispondere, Lucho era un amico, García Márquez è un grandissimo e meraviglioso classico e Bolaño, come ha detto Susan Sontag “è il García Márquez della mia generazione!”.

Filippo Radogna