MADONNE SVANENTI SUL LAGO DI CANDIA

L’ingresso nella zona del basso Canavese è puntellato da numerose Edicole alla Madonna e ai Santi. Era l’estate 2021 e io andavo con la mia automobile alla ricerca del fresco, con il desiderio di fiancheggiare fiumi e bordeggiare laghi.

Quando venni accolto dallo sprofondo che porta al Lago di Candia percepii di trovarmi in un luogo suggestivo che avrebbe incontrato i miei favori. Protetto dalla cinta delle colline moreniche e isolata dal passaggio della Dora Baltea, era un terreno incontaminato di boschi, campi di grano e la rilucente acqua del lago turchese.


Dove venti mila anni or sono era il Gelido Artigiano, trovai sulla riva protetta del lago morenico la fresca pace di pomeriggi all’ombra, in compagnia di Silvia o di un libro. Le paludi attorno, ombrose presenze, rappresentavano il sentiero dell’equivoco e del mistero, su cui mi sarei avviato solo in seguito: dovevo ritemprare le forze e le sponde erano per me un morbido farmaco.


Sulla rotta migratoria sud-occidentale, il lago era punto di sosta per gli uccelli svernanti e di passo. Vegliavano sulle acque i tetti di cotto di Candia Canavese; presenze di cemento, vi erano Mazzè, con il suo castello e i sotterranei con gli strumenti di tortura della Santa Inquisizione e la Chiesa della Madonna della Neve, e Vische e la sua antica Chiesa di Santa Marta.

Il bianco airone che solca i cieli, il germano Reale dal muso color pisello, la moretta con la sua maschera d’ombra e gli occhi spiritati… Tacite comparse su quei cieli e oltre le acque levigate dal tempo…


Venivo da un lungo freddo di solitudine e fatica: un forte stress lavorativo, che aveva acuito la mia allergia nei confronti del lavoro, e la fine di una storia d’amore…

Le concentriche fasce oscure del lago accoglievano specie vegetali differenti, come lunari gironi infernali. Sapevo che là sotto avevano forma piante nascoste all’occhio umano; io ammiravo la ninfea bianca sulla superficie pallida e le foglie galleggianti della lenticchia d’acqua.

Lasciavo le sponde e mi inoltravo in lembi di bosco, dove l’ontano nero, scheletrico come uno spaventapasseri, solo in certi tratti del terreno lasciava spazio al salice bianco, ricurvo sulla punta come un vecchio.


Affrontai il percorso della palude, un giorno. Una vecchia pittrice schizofrenica aveva appeso i suoi quadri lungo il cammino. Si era detto che erano figure sghembe di persone senza arti. Non li trovai. Mi promisi di ottenere maggiori informazioni su quei quadri e sulla tremante mano che li aveva composti.

Fu un’altra, però, la scoperta che mutò le sembianze del luogo che avevo eletto come mio rifugio estivo. Mi imbattei in una delle tante edicole alla Madonna che contornavano il lago. Qui notai che la figura della Madonna si era quasi del tutto cancellata, come evaporata sotto la forza dei raggi del sole.


Annotai nella mente lo strano fatto e mi misi in cammino, alla ricerca di conferme a un simile fenomeno, per altro in quel caso facilmente spiegabile con l’effetto della forza dei raggi solari.
Mi imbattei nella seconda Madonna svanente. Qui l’opera di erosione era la medesima osservata nella precedente edicola, con la corrosione della materia pittorica a partire dal basso e la testa della Santa che sopravviveva al declino, ma indietro rispetto alla prima nel processo.

Sui muri di una casa presso la frazione di Cascine Rossi, oscuro appezzamento sul limitare del bosco, osservai un dipinto religioso che poteva essere accomunato, seppure per evidenti motivi differenti, a quelli precedenti.


Qualcuno nel corso della mia vita mi aveva suggerito che esistono luoghi che recano il segno del passaggio del Maligno. Nessuno poteva vantarsi di conoscere le fattezze del Diavolo. Si tratta di accettare come una cabala universale, come una prova empirica i simboli ripetuti della sua venuta. Restano, cifre sospese, luoghi che ciclicamente e ripetutamente portano il suo marchio.

Il Lago di Candia era uno di questi?

Le Madonne svanenti erano la prova senza criterio dell’affermazione della sua forza sui simboli celestiali?


Parlando con gli abitanti delle Cascine Margherita mi resi conto che avevano paura. Un fluido, gelido timore li avvolgeva come sudario. Qualcuno disse di aver avvistato, la notte, dei barcaioli scendere al lago. Aggiunse che portavano delle maschere, mentre trasportavano le imbarcazioni verso la riva.

Correva voce che qualcuno venisse al lago per sbriciolarvi dentro l’intonaco di una chiesa sconsacrata. Qualcosa di grigio era avvenuto tra le non individuate navate: pareva che alcuni ragazzini fossero stati toccati da un vecchio prete.


Incontrai un vecchio barcaiolo che aveva sfangato la vita pescando di straforo lungo le coste, di notte. Mentre fumava tabacco sciolto mi disse che esistevano edicole il cui dipinto era completamente svanito. E confermò i miei sospetti: non si era trattato di un fatto graduale, ma di un evento traumatico, che si era concretizzato nel corso di poche notti di luna.

Un giorno mi dilungai più del dovuto: ero rimasto sulle coste del lago in compagnia di Silvia oltre il tramonto. Rari pescatori bordeggiavano le coste e si insinuavano nei canneti, gelidi predatori che fumano sigarette. Una donna con due cani al guinzaglio ci suggerì di non sostare sulle coste quando il sole è sotto le cimase. Ai nostri sguardi dubbiosi indicò un edificio sulle pendici della collina. Era un tetro maniero. “La figlia della proprietaria spia le coppie con il binocolo”. Sorridemmo. Quella se la prese e aggiunse sottovoce che nel fondo del lago dorme il cadavere di una ragazzina. Noi pensavamo che fosse necessaria la forza bruta, per uccidere qualcuno. Invece basta la rabbia di un’infanzia cieca e un coltello sottratto all’ombra.

Altre ombre.

Altre paure.

Altri reliquari di crepuscolo.

Il lago si ammantava di cortine filamentose di vespro. Esili nubi raggelavano le acque. Saremmo stati inghiottiti dal nero, mentre ancora camminavamo nei campi? Le tetre edicole vuote non erano che spettatori senza anima del passaggio della gente. Chi vegliava su di noi, in quel luogo dimenticato dal Signore?


Vedevo le Madonne svanire sotto i miei occhi. Antichi tabernacoli erano simulacri di dipinti, lembi di vesti, fantasmi senza volto.

L’estate maturava nei campi colmi dei raccolti; sempre più in fretta si levava la notte con le sue ombre di metallo.

L’estate odorosa degli illusori incanti conosceva il culmine e intraprendeva il declino.

Sfiorivano le canzoni dell’estate che in rari echi occupavano l’aria.
I paesi attorno (Mazzè, Vische, ma anche Caluso dal morbido vino paglierino) in torbide lune vedevano disertare le voci dei ragazzi, in pigri frammenti di cielo.

Il tempo lascia cicatrici e lutti e io mi spingevo nella furiosa perlustrazione del lago ad orari sempre più tardi, febbrilmente, il restringersi delle giornate nell’imbuto dell’agosto congiurava contro di me.

Cercai i quadri della pittrice isterica nella palude.


Non li trovai, ancora. Era stata soltanto una mostra estemporanea, pensai. Incontrai una donna del posto, una signora di mezza età che si copriva il volto con un panno, e domandai dei quadri.
La donna dietro i panneggi mi spiegò che le tele erano rimaste a lungo sotto la pioggia e i colori avevano lasciato le tele. Prima che l’avverso evento avesse luogo, però, qualcuno della sua famiglia aveva intravisto gli schizzi senza posa della pittrice. Rappresentavano (cercavano di farlo) un’antica regina del posto, che in un periodo di regno felice decise di far scavare una galleria di scarico per il lago, in modo da rendere coltivabili nuove zone sulla costa. La regina era una sacerdotessa della dea acquatica Mattiaca e amava un uomo che mise a capo dei lavori. Ma l’amore, come i meno ingenui sanno, muta con le stagioni e la regina si innamorò di un giovane. Così, incaricò un delinquente di rompere improvvisamente gli argini durante i lavori, in modo da sbarazzarsi del vecchio amante. Il colpo mancino, però, si ritorse contro la regina: le acque sommersero il villaggio e fagocitarono molte anime, tra cui quella del giovane di cui si era innamorata. Per ripicca nei confronti del fato avverso, la regina si gettò nelle acque, vinta dal rimorso.

La regina e sacerdotessa della dea acquatica Mattiaca era la Madonna scomparsa?

Per questo svaniva nei tempietti votivi, come un fantasma corroso dal rimorso?

Antichi culti pagani sopravvivevano in quel posto all’opera di catechismo cattolico?

La pittrice malata era capace di intravedere tra le fessure del lago i segreti di una verità rivelata attraverso lo smaterializzarsi delle forme?

Perché aveva affidato alla palude i suoi lavori, esponendoli insensatamente alle bizze delle nuvole?

Quali altri misteri conservava la muta palude?


Dopo aver speso innumerevoli passi sui sentieri che circondavano il lago fui in grado di trovarla.

L’edicola dalla Madonna Svanita.

Corrosa dal sole.

Evaporata nel vento.

Asciugata dal Diavolo.


Era un gelido intonaco scrostato, una pelle opaca che mostrava lo scheletro rossastro dei mattoni.

Fu allora, guardando gli aridi mattoni senza alito, che percepii, a settembre appena avviato, il significato del passaggio del Demonio.

Con sconforto, capii che il Diavolo non era la presenza baffuta e maligna che cancella i Santi e disperde le vite della gente sui sentieri del peccato marrone.

Il Diavolo è il progresso.

Il Diavolo è la tecnologia.

Il Diavolo è la società delle cieche competizioni.

Il Diavolo è l’uomo senza sosta.

Non vi erano misteri in quel lago salvifico. Quei giorni di pace erano stati un’incubatrice. Non ero altro che un esule sulla strada lastricata della frenetica esistenza moderna.

Vi era qualche abitante dalla lingua lunga, in cerca di improbabili confessioni. E una vecchia donna che aveva racchiuso nelle tempere la propria isteria.

La gente del posto affidava alle leggende il compito di spaventare gli stranieri, relegandoli fuori dalla cortina di colline che cingevano il lago incontaminato.

Il Diavolo mi attendeva nelle lugubri stanze del lavoro, che inesorabile mi avrebbe riabbracciato di lì a poco.

Il Demonio era nelle città concentriche di un sole minore, con le sue prigioni di plastica dei condomini eleganti.

Il Maligno era in noi, nelle nostre menti naufragate, nelle nostre isterie, nelle nostre psicopatologie, nelle gelide alcove di famiglie che avevano smarrito il senso di comunità e accarezzavano vuoti idoli di denaro.

Lasciai il lago di Candia e la tarda estate di settembre si prese sotto l’ala aspra del vespro le quiete sponde e le edicole corrose dal sole.

Daniele Vacchino