AB ANTIQUO, IL COLLEZIONISTA

Quando raccontai questa storia ad alcuni amici, essi non credettero che gli eventi che sto per rievocare corrispondessero al vero. Non avevano mai sentito parlare del villaggio dove si svolsero i fatti, mentre della sorte del protagonista mi dissero di sapere soltanto quanto era stato riportato dai giornali. Non li misi al corrente di essere in possesso di un manoscritto, che avevo trovato in una libreria dell’usato e che custodisco molto gelosamente, nel quale sono riportate le vicende che condussero al declino mentale e fisico di quell’uomo sfortunato.

Prima di iniziarne l’esposizione, mi permetto di darvi un consiglio. Io non bevo alcolici e, anche se qualcuno dice che ogni tanto consumare un po’ di alcool in compagnia sia un vero toccasana per curare il malumore e riportare l’allegria, vi invito a seguire il mio esempio. Soprattutto quando avrete letto quello che accadde a Thomas Cuddly dopo avere bevuto qualche sorso di vino.

Ecco il resoconto degli avvenimenti riportati nel manoscritto.

Thomas era pronto: voleva arrivare puntuale al convegno. S’infilò il soprabito e uscì dalla stanza dell’albergo dove alloggiava. Nella hall non c’era nessuno, nemmeno il portiere di notte. Posò la chiave sul bancone, uscì dal portone e si avviò verso la dimora dell’uomo che lo attendeva. Costui gli aveva scritto alcune settimane prima per comunicargli che aveva organizzato un simposio che si sarebbe tenuto nella sua casa, frequentata da talentuosi artisti, e lui, Thomas, sarebbe stato l’ospite d’onore. Benché non lo avesse mai sentito nominare prima di riceverne la missiva, Thomas, perennemente in cerca di pubblicità, aveva accolto quell’invito con entusiasmo, mettendo a tacere l’ansia, i dubbi, le insicurezze che lo avevano assalito, come gli accadeva ogni qual volta veniva richiesta la sua presenza ad un congresso, ad una cerimonia, e persino ad un informale raduno di poeti, facendo appello, come sempre, alla sua parte razionale.

Al momento di partire, l’indeterminato timore di stare commettendo uno sbaglio a recarsi a quell’appuntamento venne fugato dal malfunzionamento della sua automobile che, tuttavia, dopo diversi tentativi di metterla in moto si risolse. Tirato un sospiro di sollievo si avviò, concentrandosi sull’itinerario.

Il nome del villaggio gli era sconosciuto, ma gli era stato dettagliato il percorso per raggiungerlo. Arrivato ad un bivio, ne vide scritto il nome, impresso a mano su una targa di legno malconcia. Il tempo volgeva al brutto, il sole era già tramontato da un pezzo, le luci in lontananza lo guidavano a malapena verso la mèta. La strada si fece disagevole, imboccò un sentiero stretto e pietroso, e dopo averlo percorso per un lungo tratto, non scorgendo altri cartelli, temette di avere letto male le indicazioni. Proseguì ancora finché, sulla sinistra, gli apparve una locanda fiocamente illuminata dall’interno. Scese dall’auto e s’incamminò per chiedere informazioni. Il locandiere gli parve un uomo schivo e piuttosto tenebroso, ma si mostrò particolarmente loquace nel vantare le meravigliose feste organizzate periodicamente dal proprietario della magione dove Thomas si stava recando.

Rassicurato da costui che quella era la via da percorrere, Thomas risalì in macchina e ripartì. In una decina di minuti giunse a destinazione. La villa si intravvedeva dietro un cancello di ferro, aperto, che dava accesso ad un lungo e sinuoso viale alberato. Senza soffermarsi a speculare sullo stato di conservazione delle aste verticali lanceolate della cancellata, che pure lo avevano incuriosito parendogli molto antiche, entrò. Parcheggiò proprio davanti all’ingresso che si apriva sulla decadente facciata, quindi prese con sé la cartella che aveva posato sul sedile accanto al posto di guida prima di partire, contenente le sue opere più famose, e, assorto nelle sue ponderazioni sull’opportunità di declamare per primo l’uno o l’altro dei componimenti, dimenticò di sfilare la chiavetta d’accensione dal cruscotto e di chiudere a chiave lo sportello; quindi, si avviò verso il grande portone segnato dai secoli. Non ebbe il tempo di salire i gradini che lo separavano dall’uscio che qualcuno gli aprì. Questi era un uomo dai capelli brizzolati e impomatati, con degli antiquati “pince-nez” sul naso adunco che mettevano in risalto lo sguardo profondo e il volto di un individuo che avrebbe potuto avere intorno ai quarant’anni. «Benvenuto signor Cuddly. Sono Edgar Storm», esordì costui con un ampio sorriso stampato sul volto.

Considerata l’ora tarda e la preannunciata solennità dell’incontro, Thomas non poté non stupirsi dell’abbigliamento del padrone di casa. Egli calzava un paio di mocassini color terra bruciata ed indossava un completo di velluto color fango, una camicia di flanella in tinta, un papillon stravagante con piccoli pois neri su uno sfondo viola acceso, e sul panciotto verde muschio spiccava una grossa catena d’oro dalla quale pendeva un grande medaglione, d’oro anch’esso, sul quale erano incise le parole: «OMNIA MUTANTUR, NIHIL INTERIT».

«Sono davvero lieto che lei abbia accolto il mio invito. Prego, si accomodi» continuò l’uomo invitandolo ad entrare. «L’aspettavamo con ansia. Questa è la mia umile casa; come avrà potuto notare si tratta di una vecchia villa. L’ho acquistata molti anni fa; mi piaceva il suo aspetto già vissuto e ho apportato ben poche modifiche, soltanto quelle necessarie per renderla più conforme ai miei gusti e alla mia personalità» aggiunse l’ospite, camminando appena avanti a Thomas per fargli strada senza volgergli le spalle.

L’ingresso era piuttosto buio; dalla penombra emergevano alcuni arazzi di pregevole fattura stinti dal tempo, alcune lampade da muro dai vetri spessi, con qualche gioco di ragnatele, vari tappeti consunti si susseguivano fino ad arrivare ad una lunga, ampia scala, sul fondo, con un corrimano di legno robusto all’apparenza pregiato; poche, radenti luci contribuivano a conferire allo spazioso ambiente un curioso e vetusto fascino del passato. Thomas volse attentamente lo sguardo intorno, domandandosi se gli altri invitati fossero già arrivati. «Sono tutti qui, nel salone» disse l’uomo dai “pince-nez”, come se gli avesse letto nella mente, indicandogli una stanza sulla sinistra. La porta era socchiusa, ma la fioca luce che filtrava all’esterno gli permise di scorgere alcune sagome indistinte. Pochi passi più avanti, Thomas fu introdotto in una stanza di medie dimensioni, sulla destra, illuminata dal fuoco vivo di un piccolo camino con la cornice in legno massello, il medesimo col quale era stata costruita la grande libreria che copriva per un lungo tratto la parete opposta, ricolma di volumi; di fronte alla porta, era visibile una finestra parzialmente coperta da un tendaggio di pesante velluto rosso e accanto ad essa un mobile di legno più chiaro e di fattura moderna.

«Prima di presentarle gli altri ospiti, poeti anche loro, come le avevo precisato nella lettera che le ho inviato, vorrei offrirle qualcosa da bere. Ha sete? Ma prego, si accomodi» lo invitò il padrone di casa indicandogli una poltrona dalla sbiadita tappezzeria fiorata accanto alla porta. Thomas si diresse lentamente verso di essa, seguendo con gli occhi l’uomo che si appressava al mobile accanto alla finestra. «Non saprei» rispose esitante Thomas. «Allora le preparo io qualcosa di speciale, si sieda pure intanto. Le piace il vino? Mio padre è stato un rinomato produttore vinicolo e da lui ho ereditato la sua passione». Thomas andò a sedersi, continuando a guardarsi intorno. Accanto alla poltrona, sulla sinistra, era collocato un tavolinetto rotondo di legno nero sul quale erano posati un pennino dall’impugnatura dorata e alcuni fogli di carta ingialliti; al di sopra, prima della libreria, era visibile una elegante applique che, al pari del vetusto lampadario coperto dalla polvere che vi si era depositata sopra, sembrava non avere altra funzione se non quella di completare l’arredamento. Sulla parete di destra vi erano, vicino al camino, due pregevoli sedie Savonarola e un antico scrittoio.

«Volentieri, la ringrazio» rispose Thomas accompagnando le parole con un cenno del capo, umettandosi le labbra. Erano piuttosto secche, forse per via dell’emozione, forse anche per via del vento gelido che lo aveva investito scendendo dall’autovettura. L’ospite aveva finito di trafficare davanti al mobile; richiuse con cura lo sportello che aveva aperto e gli si avvicinò porgendogli un calice nel quale rosseggiava un liquido dal profumo soave, con sentore di mandorla e spezie che Thomas non riusciva ad identificare. Prese il calice con mano incerta e bevve un sorso. «È un vino preparato da me; avrà distinto chiaramente l’aroma di mandorla. Con qualche piccolo segreto di famiglia!» disse l’ospite in modo affettato. A Thomas parve che uno strano lampo di follia avesse attraversato gli occhi di Storm. Ma sicuramente era solo suggestione, pensò, d’altra parte non aveva mai avuto interesse per l’indagine psicologica. Bevve un altro sorso, mentre l’uomo dai “pince-nez”, in piedi di fronte a lui, esclamò battendosi la fronte con la mano in modo plateale: «Mi scusi, non le ho ancora detto che anche io, come lei, nutro da sempre un vivo interesse per i classici latini e greci; ma negli ultimi tempi sto ampliando la mia collezione» aggiunse l’ospite girando il capo verso la parete opposta a quella dove campeggiava la libreria. «Diciamo pure che mi sono rivelato a me stesso uno scopritore di talenti». “Quale collezione?” Thomas si sporse in avanti. «Vicino allo scrittoio», disse Storm con fare divertito. Thomas si alzò in piedi. Dietro la porta che era stata lasciata aperta gli apparvero una colonnina di marmo con un busto in cima e alcune stampe incorniciate: ritratti di uomini abbigliati con lunghe tuniche alcuni, altri dei quali era raffigurato soltanto il volto. E sotto ai ritratti i nomi di illustri poeti. Qualche lineamento gli parve familiare: dove aveva già visto qualcuna di quelle riproduzioni? Le parole dell’ospite lo distolsero dai suoi pensieri: «Si starà domandando chi sono costoro». Thomas si concentrò sull’uomo, di cui subiva il fascino ambiguo che, sentiva, lo stava soggiogando, lentamente, come se fosse capace di ipnotizzarlo. Distolse lo sguardo da lui, tornò a sedersi e bevve un altro sorso, sorridendo delle sue ansie immotivate. «Se vuole, possiamo passare nel salone». Thomas si alzò in modo automatico, l’ospite gli aveva fatto cenno di seguirlo, come in precedenza. Stava cominciando a sperimentare una vaga sonnolenza che attribuì al vino che aveva pasteggiato: ottimo vino, di alta gradazione, piacevole al palato. «Conosce senz’altro il detto: vini diversi, versi divini» interloquì il suo “cicerone” anche questa volta come se fosse in grado di leggergli il pensiero. Storm allungò il passo per spalancare la porta. Varcatane la soglia, Thomas scoprì un ampio vano con le pareti ricolme di quadri, un grande lampadario in condizioni simili all’altro, delle lampade accese, sparse su alcuni tavoli posizionati lungo le pareti e coperti da teli color avorio lunghi fino al pavimento, e davanti a sé, a qualche metro di distanza, degli uomini, alcuni seduti su due divani di fogge e tappezzerie diverse collocati l’uno di fronte all’altro, altri all’impiedi tutt’intorno. Gli furono sufficienti pochi secondi per rendersi conto che nessuno di loro parlava; sembravano tutti immersi in costruzioni metafisiche, come assorti in lontani orizzonti a comporre odi e sonetti. «Strano davvero» si trovò a pensare Thomas. «Sembra stiano sognando». L’ospite lo strappò alle sue riflessioni: «Forse ne riconoscerà qualcuno; ha già dato un’occhiata ai ritratti nel mio studio». Lo esortò a bere di nuovo. «Le piace il vino che sta sorseggiando?». «Lo trovo eccellente, pur non essendo io un intenditore e non bevendo alcolici abitualmente» rispose Thomas, alzando gli occhi dal calice. Cominciava a provare un leggero senso di malessere. Tirò un lungo respiro e tornò a guardare l’ospite che lo fissava. Storm lo invitò a sedere su una poltrona di pelle verde che aveva visto tempi migliori. «Forse non c’è neanche bisogno che glieli presenti tutti, vero?». Alla domanda del padrone di casa Thomas sussultò. «So che cosa sta pensando» aggiunse Storm. «Ha ragione». Lo sconcerto aprì un abisso nell’animo dell’ospite d’onore. Guardò quegli uomini, poi di nuovo chi gli stava parlando, fermo davanti a lui, con aria gongolante e un indecifrabile ghigno, come di chi sta cercando di camuffare un’esaltazione nutrita da orgoglio. Thomas guardò nel calice. Il vino stava producendo un effetto sgradevole alterandogli la coscienza, oppure era sopraffatto dalla stanchezza e dal sonno? «Guardi meglio: non riconosce laggiù, in fondo al salone, il suo vecchio amico?». Le parole di Storm risuonavano come un’eco, distorte e lontane, ed erano state pronunciate con un tono imperioso. L’amico scomparso due anni prima era perfettamente distinguibile, accanto al camino di pietra cesellata: come era stato possibile che non lo avesse notato fino a quel momento? E come era possibile che fosse lì, che fosse ancora vivo? La memoria di Thomas annaspava fra le nebbie. «Come vede, gli altri poeti gli fanno buona compagnia» disse con noncuranza l’ospite. Thomas trasalì. Continuava a fissare l’amico. Anche lui aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Le spiegherò ogni cosa,» disse Storm «ma beva, continui a bere, così le sarà tutto più chiaro». Thomas avvicinò il calice alle labbra, ma un ultimo tentativo della coscienza di non farsi vincere dalla paura e di combattere quell’ormai insopportabile stordimento glielo fece allontanare, approfittando del fatto che l’ospite, nel frattempo, si era girato verso gli altri presenti e soddisfatto di sé proseguiva enfaticamente: «Vede, il nostro è un piccolo villaggio e ogni abitante coltiva il suo hobby, alcuni più d’uno in verità. I suoi abitanti hanno ciascuno la propria collezione: chi pittori, chi scultori… La mia non è più particolare delle altre». Thomas cercava disperatamente di contrastare l’orrore che provava, quella voce ipnotica e l’annebbiamento che si stava sempre più impadronendo della sua mente, con una forza interiore, quasi sovrumana, che fino ad allora non aveva mai riconosciuto di possedere. «Ritengo che le poesie aiutino lo spirito a rimanere giovane,» proseguì Storm «lei è d’accordo con me senz’altro, ma mi piacerebbe conoscere il suo pensiero al riguardo». Thomas non disse nulla, ma la cosa non sembrò turbare il suo interlocutore. «Ho sempre cercato la perfezione nella poesia, sin da bambino, una vocazione, un’inclinazione naturale, come il collezionismo. Ho iniziato presto a cercare la compagnia di insigni poeti, per imparare da loro. Quando giunsi in questo villaggio potei finalmente condividere, dapprima soltanto con qualcuno, il mio interesse. Immagino che cosa si sta domandando: come faccio a mantenere in vita – perché essi sono in vita, benché non come s’intende comunemente – questi uomini, ed altri che ancora non le ho mostrato, con i quali a mio piacimento posso dialogare, quando voglio. È semplice: col vino, il vino rosso che le ho offerto, un vino dalle straordinarie proprietà alchemiche, che anche io bevo, da svariati lustri ormai, e che rendo unico ogni volta per via di piccoli accorgimenti che mi permettono di non alterarne la qualità fondamentale. Ma fra amici – e ormai siamo amici, vero Thomas? – ci si dà del tu, perciò converrai con me che sia più conveniente chiamarci per nome, dal momento che siamo già entrati in sintonia e da ora in poi avremo una grandissima familiarità».

Thomas recepì quelle parole con disgusto e terrore. Il barlume di presenza mentale che ancora albergava in lui gliele faceva rigettare come le farneticazioni di un pazzo, le emozioni si scatenavano contraddicendo la logica, mentre l’istinto gli faceva ammettere che quelle rivelazioni avevano un fondo di verità. Tentò di sollevarsi dalla poltrona, ma Storm, il quale si era girato verso di lui, lo invitò ancora a bere spingendolo con una mano verso il basso. Di nuovo, Thomas provò ad alzarsi e stavolta l’uomo che ghignava mutò espressione, un’ira improvvisa gli deformò i lineamenti del volto: «Dove credi di andare?». Con tutta la forza che gli restava in corpo, Thomas si mise in piedi e gli scagliò con forza il calice contro, colpendolo in pieno viso. Sentì i piccoli “pince-nez” e il calice andare in frantumi e vide Storm portarsi le mani agli occhi, lanciando un grido acuto e lacerante, e poi accasciarsi piagnucolando, il sangue che colava sul pavimento in una chiazza che si andava allargando. Malfermo sulle gambe, Thomas si diresse verso il portone, rasentando il muro. Cadde; puntando le mani si sollevò sulle braccia e riuscì a rimettersi in piedi. Barcollando aprì l’ultimo ostacolo che lo separava dalla libertà. Sentiva ancora quell’uomo orribile gemere a voce alta, ululare come un lupo alla luna, mentre raggiungeva l’automobile. Vide accendersi delle luci in lontananza, come richiamate dalle urla che spezzavano il silenzio della notte. Reggendosi a malapena sulle gambe, aprì lo sportello, salì ed avviò, questa volta senza problemi, il motorino d’accensione. Respirò a fondo e la nausea lo travolse. In un estremo tentativo di vendere cara la pelle, fece manovra, andando ad urtare violentemente contro gli enormi vasi di fiori accanto ai quali aveva parcheggiato, e si lanciò fuori attraverso il viale ed il cancello aperto.

Non so chi sia l’autore del manoscritto nel quale questa storia è narrata. In fondo all’ultima pagina si legge che, tornato a Londra, Thomas non era più l’uomo di prima. E come fu riportato anche nei giornali del tempo, si cercò inutilmente di curare il suo inspiegabile stato confusionale, che non gli permise più di scrivere poesie. Rifiutava, dapprima, qualsiasi contatto col mondo esterno, poi scivolò inesorabilmente in uno stato catatonico, dimentico perfino dei propri affetti familiari, spegnendosi in breve tempo per inedia. Prima di esalare l’ultimo respiro, come testimoniarono il medico di famiglia ed i suoi cari, le uniche parole che pronunciò, con voce flebile ma chiaramente comprensibili, furono queste: «omnia mutantur, nihil interit».

Alessandra Filiaci