LA CAVERNA

Quel silenzio l’avrebbe tormentata per tutti i suoi giorni, forse, se realmente esistesse, persino per l’eternità.

Ma a quella rinnovata presa di coscienza fece da contraltare un suono sommesso… un respiro dolce che le giungeva da presso: c’era il suo uomo accanto a lei e quel respiro decantava la vita di lui, ma anche di lei, perché Walter era il suo tutto, il senso della vita e insieme la sopravvivenza di ogni cosa: loro due erano gli ultimi esseri umani rimasti dell’intero pianeta Terra.  Alla caverna… Erano tornati alla caverna, agli albori della presenza dell’uomo sulla Terra, agli inizi di ogni possibile futuro o al finire invece di ogni speranza per l’avvenire.

Marian guardò il suo uomo, quel corpo maschio così forte e saldo, quel volto aristocratico e selvaggio insieme… si soffermò sull’arco che formavano le folte sopracciglia così ben disegnate e sulla linea allungata di quegli occhi dove, pur nel brillio dell’allegria, covava sempre un fondo di melanconia.

Marian, dopo aver sfiorato con la punta delicata delle dita quella fronte, ora spianata dalla smemoratezza del sonno, si alzò dal rozzo giaciglio e si affacciò all’esterno della caverna.

Ciò che vide le paralizzò per l’ennesima volta il respiro e, con un gesto inconscio, si passò la mano sul volto, come per scacciare un insetto molesto. Sì, probabilmente erano gli unici esseri umani sopravvissuti e c’era stato tanto dolore, buio e disperazione intorno a loro prima che il morbo annientasse tutti e sfidasse loro due a ricominciare da capo, a dare il via ad una nuova creazione.

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Era invisibile, bello come un fiore di serra quel virus ambiguo, scaltro, camaleontico, alieno… un vero fiore del male che nessun Baudelaire sarebbe stato in grado di descrivere, perché odiava persino se stesso, scegliendo di non sopravvivere a sua volta, pur di annientare tutte le sue vittime.

“Era Natale”, ricordò Marian, “e le luci scintillavano sugli abeti e per le strade, mentre una messe di panettoni e di torroni festeggiavano il loro sontuoso anniversario annuale.

La gente volteggiava smemorata, straniata per le strade, inghiottita dalle lusinghe di vetrine lussureggianti e babbi natale che si moltiplicavano, in plastica, in ceramica, in panno, in umani imitatori dalle finte barbe ed ancor più finti sorrisi.

Sì, nell’aria esplodeva il Natale, ma il fior del male era lì, infido e ormai impaziente di agire dietro le porte dischiuse di quel Natale, ultimo per l’Umanità: morte e non più vita rigenerante.

Uno starnuto, un colpo di tosse… un nonnulla dunque, lieve come la neve che in qualche città aveva iniziato a cadere: un’implosione dentro un’inconsapevole cavia, un paziente zero, ma che presto si sarebbe trasformata in un’esplosione dalla furia devastante e dagli esiti letali, apocalittici anzi”.

Marian sospirò, ricordando lo scatto dell’acciarino per quella miccia accesa sul mondo e avrebbe voluto cancellare tutto il resto, tutti quei ricordi dolorosi, quei volti segnati dall’angoscia che, uno dopo l’altro, scomparivano. Avrebbe voluto lavarsi a tal punto la mente, da ricordare soltanto, se fosse stato possibile, il suo primo vagito.

Quel fiore purpureo si era preso tutto… ogni etnia, tratti somatici e colori assemblati, amalgamati in un’unica moria, una mattanza così democratica da esigere quasi rispetto.

E il mondo, così come sino ad allora era stato conosciuto, si era fermato. E loro due invece, lei e Walter, perché… perché erano rimasti lì? Isola, nazione, continente… tutto il mondo racchiuso in loro due: principio e fine di ogni cosa.

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Il sole al tramonto scendeva dietro l’orizzonte e un ultimo raggio impudico penetrò la caverna, illuminandola per un attimo sino in fondo.

Marian sorrise tra sé: cosa c’era in quell’uomo e in quella donna – quali loro in effetti erano – che li aveva preservati dal contagio?

Eppure… eppure qualcosa doveva pur esserci, poiché lei e Walter erano stati, a priori, strutturati nel medesimo modo, si sarebbe detto con la stessa materia: due spiriti liberi speculari, incoscienti, narcisi ed egoisti quanto basta.

Dispersi in un mare di Umanità dispersa si erano visti e riconosciuti ed era venuto naturale che si fossero desiderati, congiunti, amati…

Ed erano ancora lì, a completarsi a vicenda, a respirare per l’intera Umanità, a proporsi di ricreare e ripopolare una specie per il resto estinta.

Marian si avvicinò al giaciglio dove Walter ancora riposava e lui le tese le braccia, fece sorridere quei suoi disarmanti occhi di bimbo e la possedette con la foga in un Big Bang primigenio.

Myriam Ambrosini