La cravatta gli dava un po’ fastidio: premeva sul colletto che sfregava contro una microirritazione dovuta alla barba tagliata in tutta fretta. Mise un dito nell’interstizio e provò sollievo. L’abito era in tono con l’occasione: un colloquio per aumentare di molto il suo stipendio cambiando azienda e città (da Napoli a Milano). Non guardò neppure l’orologio prima di entrare nell’ascensore poiché sapeva di non essere in anticipo (ai cacciatori di teste non piacevano gli ansiosi) né in ritardo (ai cacciatori di teste i menefreghisti piacevano forse ancor meno). Notò, e la cosa gli dispiacque, un velo di polvere sulle scarpe: colpa del tratto di scorciatoia sterrata percorsa così da presentarsi puntuale all’incontro.
Scorse l’orologio sporgere dal polsino e ciò gli ricordò qualcosa che avrebbe dovuto fare, ma non doveva essere importante se lo aveva scordato: si sarebbe esercitato a rammentarlo per gioco se lo avessero fatto attendere qualche minuto di troppo. L’ascensore chiuse le porte con un confortevole ronzio e partì.
Gli ascensori gli piacevano: bugia parziale, solo quelli degli stabili di classe, profumati di agi, utilizzati dal numero ristretto di individui che andavano ai piani alti. Ricordò una barzelletta che aveva sentito molto tempo prima: anni fa, a Napoli per prendere l’ascensore occorreva una monetina da dieci lire; madre e figlio si ritrovano senza “la dieci lire” per salire, ma il ragazzo inserisce ugualmente uno spicciolo; l’ascensore parte e la madre lo guarda con un’espressione interdetta. “Eh, ho messo ‘na venti lire”. E la donna replica: “Uh, Maronna mia…E mo’ chissà arò jamm!”
Mentre l’ascensore si fermava al terzo piano e la sola persona che era salita con lui ne usciva, controllò l’orologio: non si era mosso di un secondo da quando l’aveva guardato l’ultima volta, almeno un’ora prima. Ecco cosa aveva dimenticato: di sostituir la pila!
D’improvviso un brivido lo percorse: non sapeva più se era in anticipo o in ritardo e aveva lasciato il cellulare alla reception, seguendo con scrupolo le istruzioni dei suoi futuri datori di lavoro. Iniziò a sudare. L’ascensore continuava la sua corsa pacata. L’ultimo piano: il suo.
Le porte si aprirono, scese trafelato e per un attimo credette di trovarsi in un corridoio fin troppo ingombro di piantine e vasi di fiori. Non sono piantine, non sono vasi di fiori. Non c’è corridoio. E’ l’Amazzonia. Vera e letterale, come dimostra quel colibrì che gli si è posato sulla spalla. Mentre si gira convulsamente per tornare sui propri passi, alla sicurezza della cabina, vede che le sue porte si sono già richiuse. Preme i pulsanti fino a slogarsi le dita, batte i pugni fino a farsi male, ma poi deve girarsi e affrontare liane e anaconda, ibis e uistitì.
Si toglie la cravatta, finalmente!, quindi la giacca, che per un po’ (ma non molto) tiene piegata sotto il braccio, e comprende che la foresta, sorridente e occhiuta, minacciosa q. b., è pronta ad accoglierlo.